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Perché le autostrade italiane cadono a pezzi?

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Di settimana in settimana il bollettino dei crolli sulle autostrade italiane si amplia. A tal punto che anche i giornali e i partiti politici più supini all’imprenditoria si trovano ad ammettere che c’è un problema.

Un problema che in realtà è sistematico da anni e che ha colpito prima duramente le regioni del Sud (la Sicilia in particolare) e adesso sembra, seppur con gradi differenti, generalizzato.

E’ importante ancora una volta sottolineare che a porre l’accento sulle condizioni delle autostrade non è stata un’inchiesta giornalistica o la mozione parlamentare di qualche politico, ma sono state le tragedie in cui hanno perso la vita diverse persone. Notizia di questi giorni è che pare che due delle forze di governo, il PD e il M5S, siano giunte ad un accordo rispetto al ritiro di alcune concessioni autostradali. A generare questa decisione un dossier del ministero delle infrastrutture che probabilmente ha tirato fuori tanti di quegli scheletri dall’armadio da impedire alla politica di nascondere la testa sotto la sabbia ulteriormente. Ma si sa, l’Italia è la terra dell’improbabile e quindi non è detto che questa decisione diventi effettiva.

Ma prima di tutto tocca chiedersi quali siano i motivi per cui queste infrastrutture, centrali nella vita di un paese dislocato come il nostro, stanno andando in pezzi.

1 – Una questione tecnologica

Il primo motivo, più evidente, ma comunque da approfondire è di carattere tecnico. Lo abbiamo sentito dire in ogni talk show durante questi mesi, quasi a giustificativo dei crolli: il calcestruzzo armato ha una sua vita media approssimativamente di 60, 70 anni.

Il calcestruzzo armato è una tecnologia per costruzioni che vede una larga diffusione tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. E’ un materiale che ha diversi vantaggi rispetto agli altri impiegati nelle tecniche costruttive: è poco costoso, permette dei tempi di realizzazione delle opere decisamente più brevi (quindi è ulteriormente poco costoso), e ha una durabilità, se si rispettano le condizioni di costruzione, relativamente longeva. Inoltre il cemento armato vede un’ampia diffusione nell’utilizzo edilizio anche per la sua “fama” di materiale con una buona resistenza agli incendi e ai terremoti. Per quanto riguarda i terremoti però bisogna dire che un edificio in cemento armato non è di per sé “antisismico”, ma sono le tecniche di costruzione e i materiali alla base che dovrebbero garantirne la resistenza.

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Ma a fianco dei vantaggi citati vi sono diversi svantaggi scarsamente presi in considerazione di questo materiale. In primo luogo il cemento armato è un materiale molto difficile da smaltire e naturalmente non riutilizzabile per gli stessi scopi. Inoltre collegato a questo salto tecnologico, anche se non unicamente, è il fenomeno della cosiddetta “cementificazione”. La “cementificazione” è uno dei fattori che provoca la degradazione del suolo e che aumenta il rischio idrogeologico. Banalmente il calcestruzzo impermeabilizza il suolo impedendo all’acqua piovana di infiltrarsi nel terreno e quindi in caso di alluvione ne amplifica gli effetti. Combinato poi con il disboscamento, altro figlio della speculazione edilizia, e la scarsa cura degli argini dei fiumi provoca i disastri che sono tristemente noti.

Il cemento armato è stato una delle tecnologie centrali del boom economico degli anni ’50 in Italia. E da allora è stato un vettore del consumo di suolo e della crescita economica indiscriminata, nonché della speculazione. Le sue caratteristiche tecniche affiancate agli appetiti degli imprenditori edilizi hanno radicalmente cambiato il paesaggio del nostro paese.

Non si tratta di demonizzare il cemento armato in sé e per sé, ma di contestare l’uso spropositato che ne è stato fatto. L’uso di ogni tecnologia non è mai neutro, ma è orientato dalle scelte politiche che vi stanno dietro.

Ritornando però sulla vita media del materiale è evidente a questo punto che quasi tutte le strutture in cemento armato che sono state costruite tra gli anni ’50 e gli anni ’70 stanno arrivando a un punto critico, e se non vi sono già arrivate potrebbero giungervi a breve. A rendere ancora più complicata la situazione vi è il fatto che molto spesso nella costruzione di grandi infrastrutture le norme per la produzione del calcestruzzo armato non sempre sono state (e sono tutt’ora come dimostrano recenti scandali) rispettate per risparmiare ulteriormente sul costo dei materiali. Diversi sono i motivi che possono portare al degrado di strutture costruite con questa tecnica: i difetti di produzione come già detto, la mancanza di una protezione, l’attacco chimico dell’armatura, l’ossidazione dei ferri dell’armatura, l’attacco del cloro (tipico di zone industriali o altamente inquinate) e l’espulsione di parti del copriferro. Non ci soffermeremo molto sui dettagli tecnici, basti sapere che esistono diversi strumenti di monitoraggio per rendersi conto della situazione in cui versano i fabbricati, dalle prove in laboratorio, alle osservazioni visive, alle misurazioni della resistività elettrica del calcestruzzo ecc… ecc… Il punto è che ci sono tutti gli strumenti per rendersi conto dello stato di salute delle infrastrutture su cui viaggiamo.

Non solo esistono e sono comunemente in uso delle tecniche di manutenzione che vanno dal consolidamento all’applicazione di strutture di supporto e via dicendo.

Dunque la questione è perché queste infrastrutture tanto vitali per un paese come il nostro non sono sottoposte a un monitoraggio efficiente e lì dove necessario non sono stati fatti gli interventi necessari? E qui andiamo ai prossimi punti.

cementificazione

2 – Le privatizzazioni

Le prime autostrade nascono intorno alla metà degli anni venti. Alcune vedono la luce con l’iniziativa dei privati su concessione, altre invece sono costruite direttamente dallo stato. Già nel 1941 tutte il comparto autostradale era gestito dalla stato, salvo le tratte tra Torino e Milano, tra Napoli e Pompei e tra Padova e Venezia. Ma è nel 1955 che, con la promulgazione della legge Romita, viene sancita la costruzione delle autostrade in tutte le regioni d’Italia. Già dal 1950 l’IRI (l’Istituto per la Ricostruzione Industriale del dopoguerra) fonda la società Autostrade di gestione pubblica. Parte dunque il ciclo, insieme ad Anas, di sostanziale infrastrutturazione stradale e autostradale del paese che vede una breve battuta d’arresto nel 1975 quando a causa della crisi petrolifera vengono bloccati i lavori che poi riprendono nell’81.

E’ un’opera mastodontica in cui vengono impiegati moltissimi lavoratori e che stimola gli appetiti di appaltatori, politici e mafie. Le autostrade modificano i territori a volte compromettendo le risorse naturali, le comunità, aumentano la distanza tra un nord ampiamente servito e un sud in cui i lavori procedono a singhiozzi (ma la cementificazione invece no).

Le autostrade italiane sono set di film iconici e vengono propagandate come un modo per riunire il paese dopo le due guerre mondiali.

Poi a fine secolo, nel 1999, in linea con i dettami della sbornia neoliberista viene decisa la privatizzazione della società Autostrade. Precedentemente un 13% della Società era stato quotato in borsa, ma il resto delle azioni erano saldamente nelle mani dello stato. Le privatizzazioni hanno il doppio obbiettivo di ridurre l’influenza statale nell’economia e recuperare risorse per colmare in parte il debito pubblico al fine di rispettare i nuovi parametri europei.

Ad aggiudicarsi la gara che riguarda un nocciolo duro del 30% di azioni (sufficienti a controllare la società) è una cordata costituita dal Gruppo Benetton insieme ad Acesa, Fondazione CRT, Unicredit e Assicurazioni Generali. Nel 2003 poi la cordata consolida definitivamente il controllo sulla società e dunque nasce Autostrade per l’Italia.

Autostrade per l’Italia però non è l’unica azienda concessionaria della rete autostradale italiana, infatti sui 6943,2 km complessivi ben 5978 km sono dati in gestione a gruppi privati o a capitale misto pubblico privato, mentre i restanti 939,8 km sono gestiti direttamente da ANAS.

Un discorso diverso, ma con esiti similari riguarda ANAS. L’azienda pubblica, che è stata “dimagrita” da molte delle strade di sua competenza dalla devolution che ne ha spostato la gestione nelle mani degli enti locali, è stata negli anni al centro di diversi scandali (in tangentopoli ad esempio). E’ ben noto l’utilizzo che il sistema dei partiti faceva delle società di stato, e non è che oggi questo sia cambiato. A cambiare piuttosto è stato il ruolo che queste società avevano nel panorama economico italiano: a prevalere è stato un meccanismo di “aziendalizzazione” che via via ha sfumato le differenze che sussistevano tra pubblico e privato.

Certo non c’è da bersi le favole di certi keynesisti à la page o dei nostalgici della prima repubblica che raccontano di un pubblico orientato al bene comune. Ma i rapporti di forza imposti dalle lotte operaie e sociali da un lato, e dall’altro il quadro di economia mista derivata dagli scenari post bellici, hanno permesso che l’orientamento del pubblico fosse per lo meno un campo di battaglia.

Con le privatizzazioni è chiaro che a prevalere invece è l’unica vera regola del mercato: il profitto.

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La privatizzazione di infrastrutture come le autostrade tra l’altro è peculiare poiché si tratta sostanzialmente di monopoli (non si può scegliere quale autostrada prendere per andare da un punto A a un punto B nella maggior parte dei casi). Dunque viene a mancare uno dei presunti (ormai è sapere comune quanto non sia comunque sufficiente) meccanismi di autocontrollo del libero mercato: la concorrenza. La privatizzazione delle autostrade è dunque totalmente illogica: sicuramente lo è per chi ne usufruisce e ha visto incrementarsi regolarmente il costo dei caselli, naturalmente lo è per il pubblico che ha svenduto delle infrastrutture strategiche, ma in sostanza lo è anche per i privati, per assurdo, perché le condizioni in cui versa la rete autostradale italiana è un ostacolo alla circolazione e all’accumulazione. Gli unici a guadagnarci sono stati i concessionari che hanno fatto utili stratosferici.

Una recente inchiesta di ANAC (l’autorità anticorruzione) ha dedotto che la spesa delle concessionarie per la manutenzione dei viadotti, ponti e cavalcavia è estremamente esigua: solo il 2,2% di quella prevista nei piani economico – finanziari del Ministero. Autostrade per l’Italia ad esempio ha speso in 10 anni oltre 10 miliardi, ma di questi sono stati utilizzati per la manutenzione di ponti e viadotti solo 249.131.000 euro. Il caso del ponte Morandi in questo senso è indicativo, nessun intervento strutturale è stato effettuato dopo la privatizzazione, ma solo interventi marginali che in alcuni casi hanno aggravato la situazione (come la costruzione del nuovo carroponte), nonostante già diversi campanelli di allarme fossero suonati rispetto alla condizione della struttura. Perché quei lavori necessari non sono stati fatti?

Perché la gestione privata è ovviamente orientata al profitto. I lavori di manutenzione diventano ammortamenti e la valutazione sulla loro necessità o meno diventa di carattere economico prima ancora che di sicurezza di chi accede alle infrastrutture.

La follia della gestione privata si legge tutta nei numeri: il bilancio di Autostrade per l’Italia ha visto utili dal 2001 di 43,7 miliardi. Di questi 18,6 miliardi sono stati reinvestiti nella rete: però attenzione, 13,6 miliardi sono stati impiegati per “la realizzazione di ampliamenti, migliorie e nuove opere” e solo altri 5 miliardi per lavori di manutenzione (che poi bisognerebbe andare a vedere in cosa consistono questi lavori, data l’esperienza del ponte Morandi). Perché Autostrade piuttosto che investire gran parte di questi soldi nella manutenzione della rete esistente viste le problematiche, ha deciso di costruire nuove infrastrutture o ampliamenti? Anche qui la risposta è semplice, rende di più costruire nuove autostrade che aggiustare quelle vecchie.

Questo ragionamento non riguarda solo Autostrade per l’Italia, ma tutte le concessionarie. Investimenti di questo genere come si può ben immaginare sono piuttosto redditizi. Secondo i dati del 2016 sono stati incassati dai concessionari 5,7 miliardi di pedaggi netti a fronte di una spesa di produzione di 2,9 miliardi. Ci sono poi molte società in cui la ripartizione dei guadagni “è molto sbilanciata a favore degli azionisti. È il caso di Satap, del gruppo Gavio, o del Traforo del Monte Bianco: entrambi hanno fatto arrivare agli azionisti un quinto della ricchezza prodotta. Ma è soprattutto il caso di Autostrade per l’Italia, dove gli azionisti si sono presi il 31% della ricchezza prodotta, lasciando soltanto l’1% all’azienda.” E ancora: “Autostrade per l’Italia è una macchina da utili per Atlantia e, a ricaduta, per i Benetton. L’Ansa ha ripreso i bilanci 2013-2017: in cinque anni l’azienda ha fatto 4,05 miliardi di utili, distribuendone il 93% (3,75 miliardi) agli azionisti. Nello stesso periodo ha speso per la manutenzione solo 2,1 miliardi. Se ai 3,7 miliardi di utili si sommano gli 1,1 miliardi di euro di riserve che la società ha trasferito ai soci, l’incasso per i proprietari sale a 4,8 miliardi di euro in cinque anni. Se si guarda ai soli Benetton, nel 2017 Sintonia ha incassato 274,8 milioni di euro di dividendi da Atlantia, dopo i 230 del 2016, i 267 del 2015 e i 280 del 204.” [1].

Così… per dire.

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3 – Gli investimenti vengono fatti solo per nuove grandi opere (spesso inutili)

L’abbiamo già detto: rende di più costruire nuove infrastrutture piuttosto che prendersi cura di quelle esistenti.

Anche qui proviamo a fare due conti: per mettere in sicurezza il comparto autostradale nella sua totalità si stima (probabilmente al ribasso) che servirebbero quaranta miliardi di euro, una cifra enorme, di cui attualmente ne sono stati destinati solo un sesto.

Nel frattempo però si prevede di spendere complessivamente quasi 280 miliardi in grandi opere tra quelle considerate prioritarie (25) e quelle ipotizzate per il futuro. 40 miliardi per le ferrovie (naturalmente solo quelle ad Alta Velocità), metropolitane per 14,94 miliardi e nuove strade per 112 miliardi di euro (il 59% del totale, alla faccia della conversione ecologica).

Il perché di questo piano di investimenti quanto meno discutibile è presto detto: tra il 2007 e il 2016 la produzione di cemento in Italia è calata del 59,3%, da 47,5 a 19,3 milioni di tonnellate. [2]

Molte di queste grandi opere sono superflue o sarebbero utili se mai dopo una profonda revisione delle infrastrutture esistenti che siano ferroviarie o autostradali e con un’attenta valutazione dell’impatto ambientale e sociale che avrebbero. Ma da queste grandi opere, fattesi sistema, dipendono gli interessi di politici, imprenditori e varie lobby che non sanno pensare un modello di sviluppo alternativo a quello che ci ha consegnato problemi evidentissimi.

Non c’è nessuna volontà di abbandonare il paradigma della cementificazione e del consumo di suolo che combinato con la crisi climatica avrà conseguenze disastrose sul nostro fragile paese. Oltre all’aspetto del consumo di suolo poi c’è da considerare, in relazione ai problemi del clima, l’emissione di CO2 che la costruzione di una tale mole di grandi opere libererà nell’aria.

Per questo motivo è necessario non pensare le lotte contro le grandi opere inutili come una questione localizzata ai territori dove i movimenti contro di esse resistono, ma bisogna alzare lo sguardo e comprendere che questo nodo è uno dei grandi elefanti nella stanza di questo paese.

E’ urgente come non mai riuscire a far cambiare l’agenda politica di chi comanda e alla sicurezza dei territori antepone gli investimenti che “rendono di più” (sempre per i soliti).

grandi opere 1

Il ritiro delle concessioni risolve il problema?

Sicuramente è un passo avanti. In primo luogo perché riapre un dibattito pubblico sulle conseguenze delle privatizzazioni, che è stato sostanzialmente seppellito dalla condiscendenza dei grandi media rispetto ai gruppi imprenditoriali. Inoltre è, come minimo, logico di fronte alla totale incapacità che hanno dimostrato le concessionarie nel gestire un bene che va ricordato, è stato costruito con i soldi degli italiani. Il problema però è innanzitutto evidenziare che la questione non si risolve al ruolo di Autostrade per l’Italia, ma che riguarda complessivamente il modello di sviluppo. Inoltre, se a guidare il pubblico nella gestione delle infrastrutture sarà lo stesso approccio aziendalista del privato cambierà molto poco.

Se però da una mano si tolgono le concessioni ai privati e dall’altra si continua ad investire unicamente in grandi opere inutili il risultato sarà poco più di uno spot elettorale.

Dal nostro lato, da quello di chi percorre le autostrade ogni giorno per andare a lavoro, dei pendolari che sono incastrati tra i ritardi dei treni e il costante aumento dei biglietti, di chi lavora sui mezzi come camionista o come facchino, di chi ha a cuore l’ambiente e le fragilità nel nostro paese, bisogna pretendere che la decisione su come vengono spesi i nostri soldi, di come vengono investiti i territori dove viviamo, di quali infrastrutture sono prioritarie e quali no, venga posta sotto il controllo popolare, che le informazioni sulle condizioni delle strade, delle autostrade e delle ferrovie esistenti siano a disposizione di tutti e che il modello di sviluppo sia radicalmente ripensato di fronte alle sfide che ci attendono, dal cambiamento climatico a una maggiore e quanto mai urgente giustizia sociale.

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[1] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/chi-paga-e-chi-guadagna-con-i-pedaggi-delle-autostrade

[2] https://altreconomia.it/grandi-opere/

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AUTOSTRADE PER L'ITALIAno tavPONTE MORANDI

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