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Los Angeles, o la fine dell’assimilazione

Traduciamo questo articolo di Victor Artola del 15 giugno 2025, tratto dal sito illwill. Lo facciamo nello spirito di restituire il dibattito del movimento d’oltre oceano, ma anche per aiutarci a fotografare l’importanza storica di quanto sta succedendo negli USA.

Col passare dei giorni, quello che ci sembrava di intravedere dai report della caotica infosfera, sembra confermarsi, i fatti di Los Angeles rappresentano diversi punti di svolta, in alto e in basso. Nel particolare l’autore ci sembra cattutare alcuni elementi importanti: l’iquadramento della forntiera esterna e interna nella materiale organizzione della forza lavoro nell’ordine capitalista Usa, la vera natura della riorganizzazione trumpiana della forntiera e come essa si inquadra nel suo progetto complessivo, con una eclettica capacità di individuare i “modi” trumpiani nella gestione delle rivolte senza scadere nei luoghi comuni della left. Inoltre, dopo una prima parte di analisi generale, ci offre una puntuale e ragionata ricostruzione delle rivolte attraverso il prisma materialista di classe della rivoluzione. Le domande poste al movimento sembrano puntuali e situate, date da precise dinamiche “geografiche” dettate dal processo materiale del movimento. Avvertendoci della possibile frattura istituzionale e della conseguente “guerra civile”, l’articolo ammonisce chi si pone il compito della trasformazione “di questo stato di cose presesenti”, ricordandoci e focalizzando quali sono i compiti e i luoghi in cui la pratica comunista forgia il suo verbo. Buona lettura!

Quando siamo entrati nel quinto mese della seconda era Trump, gli esplosivi movimenti sociali che hanno segnato la fine degli anni 2010 sembravano un lontano ricordo. Il quinto anniversario dell’incendio del Terzo distretto di Minneapolis è passato quasi inosservato e nelle settimane precedenti le voci di una grazia per Derek Chauvin si sono rincorse tra i giornali. Il conflitto sembrava relegato ai tagli al personale dei dipartimenti e ai rimpasti di bilancio, mentre gli intrighi di palazzo dell’affare Musk offrivano un divertimento surrettizio in assenza di quello reale. Tuttavia, la mobilitazione di massa anti-ICE di Los Angeles – innescata dall’apertura di una nuova fase della strategia di deportazione dello Stato – ha riacceso quella vecchia sensazione estiva. Privata per il momento della “resistenza”, la ribellione è di nuovo nell’aria.

Uno stato adeguato al suo tempo

Cogliere la portata del cambiamento sismico avvenuto nell’ultima settimana richiede una riconcettualizzazione di ciò che forse smentisce la raffica di scandali, truffe e rovesci che compongono qualsiasi osservazione puramente empirica dei primi cinque mesi della seconda presidenza Trump. Mentre le macchinazioni di bilancio e i licenziamenti di massa del DOGE hanno dato volume a quella che è stata definita la strategia di “allagamento della zona”, le manovre chiave all’interno dell’esecutivo lasciano intendere un progetto più ampio di trasformazione dello Stato.

Scommettiamo che si tratta di un progetto di modernizzazione dello Stato. Sebbene il capitale abbia da tempo espulso la riproduzione totale del suo presunto altro, il lavoro, dalla sua dinamica interna di accumulazione, lo Stato americano che è persistito è vecchio quanto il capitale fisso incolto che infesta la rust belt. Un intero apparato, con le sue origini nell’intervento positivo dello Stato nella vita di una classe operaia nazionale considerata come oggetto civico primario, è rimasto in piedi. In quest’ottica, il DOGE è forse solo una forma di distruzione creativa e di “riattrezzamento”, appropriata per modellarsi sull’orientamento manageriale “move fast and break stuff” del capitale fintech della Silicon Valley.

Se ogni progetto positivo dello Stato dipendente dall’integrazione di una classe operaia di massa in un “corpo civico operante” (corpo intermedio ndt) appartiene al passato, cosa rimane? Si potrebbe naturalmente rispondere invocando la vecchia ortodossia weberiana: lo Stato è ciò che detiene il monopolio della violenza. Ed è vero che, se guardiamo oltre le confusioni provocate dall’austerità sotto le vesti del DOGE e dalla politica commerciale condotta come una negoziazione immobiliare commerciale, c’è una chiarezza di intenti negli eventi recenti: rimodellare il lato disciplinare dell’esecutivo. Mentre altri potrebbero aver dimenticato le lezioni della rivolta di George Floyd, Trump e la sua cricca sicuramente no. La ribellione del 2020 è la scena primordiale dell’umiliazione e dell’impotenza che ha portato al fallimento dei suoi sforzi di rielezione. Sebbene la Guardia Nazionale abbia infine ristabilito l’ordine in ventitré Stati, gli integralisti di Trump non hanno mai placato la loro sete di sangue, ostacolati da burocrati di carriera come il generale Mark Milley e il procuratore generale William Barr che hanno rifiutato di inviare l’esercito.

Vista in quest’ottica, l’attuale riconfigurazione dell’apparato esecutivo disciplinare americano si mostra come uno sforzo piuttosto chiaro per evitare un altro momento del genere. Adeguata alla nostra epoca contemporanea, una ristrutturazione profondamente consequenziale si rivela il meschino progetto di un indegno raket. Trump ha occupato le posizioni chiave di questo guscio duro dello Stato in gran parte con personalità mediatiche di terzo livello che difficilmente potranno attenuare la natura antidemocratica dello zoccolo duro dell’amministrazione. La riconfigurazione è avvenuta anche al Dipartimento di Giustizia, all’FBI e al Dipartimento della Difesa, con l’epurazione di elementi percepiti come “bidenisti” e l’assoggettamento del personale rimanente a test di fedeltà. Come prodotto dell’era della Guerra al Terrore, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale, e con esso l’ICE, è sempre stato un solido baluardo del progetto reazionario più profondo.

Se a ciò si aggiunge l’ambivalenza nei confronti dell’intervento straniero e la percezione di un mandato popolare per realizzare rapidamente il programma anti-immigrati della classe operaia bianca revanscista, non sorprende che il monopolio della violenza si sia concentrato all’interno e si sia rivelato in tutta la sua bassezza. Se i proletari non devono più essere necessariamente anche cittadini, ne consegue che, per la massa di immigrati dall’America Latina arrivati dopo le ristrutturazioni degli anni Settanta, non ci sarà un’integrazione finale come quella che ha seguito le precedenti ondate di sottoproletariato europeo. Il licenziamento di massa trova il suo analogo politico nella deportazione di massa.

La costruzione del muro

L’analisi abbozzata di seguito non esclude le contingenze e le particolarità della storia e della politica che sarebbero necessarie per un’analisi a grana più fine dell’apparato di deportazione contemporaneo e della sua strategia a lungo termine. Il nostro obiettivo è quello di dimostrare che ciò che si presenta a molti come un dibattito politico è, in realtà, legato a una più ampia trasformazione del modo in cui lo Stato compone e media la sua riserva nazionale di forza lavoro. La riproduzione del proletariato nella nostra epoca è stata soggetta a una profonda ristrutturazione che la esteriorizza sempre più dalla dinamica di accumulazione del capitale. Questa tendenza più generale è cruciale per spiegare perché la lotta per l’immigrazione che sta prendendo forma oggi ha tratto i suoi contorni dalla sequenza del BLM, piuttosto che dal precedente movimento politico verso l’assimilazione e la legalizzazione emerso durante il dibattito pre-crisi finanziaria globale (GFC) sulla “riforma globale dell’immigrazione”.

Crediti immagine: Jesse Rodriguez

Sebbene sottolineare le continuità tra i regimi di deportazione di Obama, Trump e Biden sia diventato una sorta di ritornello di sinistra, è stata prestata meno attenzione a ciò che rivelano le specificità della logica spaziale e legale dell’esecuzione. Se si considerano le categorie di fermi interni e di fermi al confine, si può scorgere una logica più profonda, che ha meno a che fare con gli orientamenti dei partiti politici. Nel crepuscolo del progetto di “riforma globale dell’immigrazione”, che apparteneva al boom edilizio e finanziario dell’inizio e della metà degli anni Duemila, l’emergere di una brusca flessione del mercato del lavoro con la crisi finanziaria del 2007-2008 ha coinciso con il rafforzamento della macchina delle deportazioni interne sotto l’amministrazione Obama, ma questa volta con una nuova svolta.

La migrazione messicana di metà secolo tendeva a essere caratterizzata dalla stagionalità e dalla flessibilità degli spostamenti attraverso il confine. Al contrario, sostenuto dall’inondazione di finanziamenti al DHS nei primi anni della guerra al terrorismo, il regime istituito dall’amministrazione Obama si è basato sull’allontanamento permanente di una classe lavoratrice transnazionale attraverso procedure formali piuttosto che volontarie, che limitano fortemente le possibilità di ritorno dei migranti negli Stati Uniti.

Con lo sfruttamento transfrontaliero della manodopera saldamente stabilito dal NAFTA e dalle successive riconfigurazioni della catena di approvvigionamento, un confine poroso che potesse assorbire ed espellere la manodopera migrante con flessibilità è diventato una condizione meno necessaria per il capitale americano. Con la ripresa del mercato del lavoro a metà degli anni ’90, gli arresti all’interno del Paese sono diminuiti (in gran parte grazie alla diminuzione dei rimpatri volontari), mentre quelli alla frontiera sono aumentati sensibilmente. Il capitale poteva mantenere qui la manodopera di cui aveva bisogno, ma le prospettive di accumulazione a lungo termine richiedevano ancora una fortificazione dell’ingresso nel contenitore nazionale della classe operaia.

Un confine rigido, fisico alla frontiera e virtuale all’interno del Paese, è diventato la struttura centrale attorno alla quale la macchina delle deportazioni ha manifestato la sua “legge e ordine”. Lo slogan di Trump del 2016, “Costruite il muro”, non era tanto una controreplica alla politica democratica, quanto piuttosto una cooptazione della prassi esistente. Tuttavia, il regime di deportazione della prima amministrazione Trump ha portato solo aumenti modesti, senza nemmeno avvicinarsi ai livelli del 2008-2011. Sebbene le ragioni siano complesse e la mancanza di competenze burocratiche dell’amministrazione abbia giocato un ruolo importante, si può ipotizzare che la ripresa del mercato del lavoro, iniziata sotto Obama, sia stata una variabile esplicativa importante.

Sebbene il precipitoso calo dei livelli di migrazione durante la pandemia abbia fatto sì che Biden abbia presieduto all’inizio a una massiccia diminuzione degli arresti totali, la normalizzazione di un regime di deportazione incentrato sulle azioni al confine è ricominciata seriamente nel 2024. Anche in questo caso, assistiamo a uno schema in cui Trump si limita ad articolare politicamente in modo esplicito il controllo tecnocratico del confine già esistente e a portare a compimento il compito storico delle deportazioni di massa, da sempre implicito.

In sintesi, il secondo mandato di Trump rappresenta la continuazione e il culmine di un particolare orizzonte. Uno sguardo più attento agli spostamenti interni e di confine degli ultimi mesi rivela che la disciplina e la militarizzazione della frontiera si sta estendendo sempre più all’interno. Con le retate nei luoghi di lavoro e nei quartieri, iniziate seriamente a maggio – l’obiettivo è di 3.000 arresti giornalieri – la violenza statica al confine è stata spettacolarmente rivolta verso l’interno. La disciplina di una forza lavoro considerata esterna e sacrificabile dal capitale per mano dello Stato trova ora la sua forma adeguata nello scatenamento dell’intero apparato del monopolio statale della violenza nelle zone di lavoro formali e informali che costellano la metropoli.

72 ore a Los Angeles

Non staremo a raccontare i dettagli delle varie strade percorse dalla seconda amministrazione Trump per raggiungere il suo obiettivo di deportazioni di massa nei primi cento giorni. Basti dire che prima della recente offensiva nella tentacolare metropoli gestita dai democratici, le operazioni oscillavano tra lo spettacolo (il “reportage” incorporato del Dr. Phil all’interno dei raid) e le scommesse che sondavano e provocavano sfide legali (l’affare CECOT, la fine della cittadinanza per diritto di nascita tramite ordine esecutivo, ecc.) Una dinamica che rievocava quella della prima amministrazione Trump stava apparentemente andando al suo posto – salti improvvisi che altrettanto improvvisamente portavano a ritirate.

La recente incursione a Los Angeles, nonostante le apparenze, ha invertito la tendenza. Piuttosto che ritirarsi, la macchina delle deportazioni si è insediata, radicandosi nel tessuto della vita quotidiana. Raid e sequestri avvengono a caso, in accordo con l’informalità e la dislocazione del lavoro degli immigrati all’interno della più ampia zona economica di Los Angeles. Iniziata con una task force congiunta di DHS, FBI, DEA e ATF, il 5 giugno la forza d’invasione ha rapidamente aggiunto un’ala militare formale con la federalizzazione di 700 soldati della Guardia Nazionale della California. Giorni dopo, con l’aumentare della resistenza, il numero è salito a 4.000 soldati della Guardia Nazionale con 700 Marines in attesa, che hanno seguito un corso intensivo di controllo delle rivolte nei campi da calcio appena fuori dal centro.

Come per tutti i cambiamenti strategici dell’amministrazione Trump, la chiarezza iniziale ha rapidamente ceduto alla sovradeterminazione, la precisione tattica ha lasciato il posto al caos opportunistico. Per iniziare ad affinare una visione precisa del nostro attuale momento politico e della direzione che potrebbe prendere, vale la pena osservare da vicino i luoghi iniziali di lotta nelle prime 72 ore dell’incursione di Los Angeles.

Gli attacchi dell’ICE a Los Angeles sono iniziati in sordina, con la detenzione degli immigrati che si presentavano alle udienze di routine per l’immigrazione nella settimana precedente all’escalation aperta. Tuttavia, un presagio delle incursioni di strada a venire poteva essere visto nelle esplosioni di polemiche che hanno segnato il passaggio da maggio a giugno (a Chicago, San Diego e Minneapolis).

L’invasione federale di Los Angeles è iniziata seriamente venerdì 5 giugno. L’ICE e altre agenzie federali hanno scatenato una serie di grandi incursioni a sorpresa, pesantemente armate, in luoghi mirati della città. Intorno alle 9 del mattino, hanno fatto irruzione in un Home Depot a Westlake/MacArthur Park, una delle enclave di immigrati della classe operaia più densamente popolate del centro di Los Angeles. Quando i membri della comunità ne sono venuti a conoscenza attraverso le reti di risposta rapida, si sono affrettati a raggiungere la scena nel tentativo di fermarli, ma sono arrivati troppo tardi – un limite spaziale alla zona di lotta che è diventata chiara fin da subito.

La notizia di queste incursioni si è diffusa, così come la risposta. Intorno alle 11, l’ICE è arrivata con i mandati in due diverse sedi della Ambiance Apparel, un’azienda di abbigliamento del Fashion District della città – un’industria che dipende quasi totalmente dalla manodopera immigrata latina. Non molto tempo dopo, sono arrivati sul posto anche centinaia di manifestanti, che hanno circondato gli ingressi di entrambe le sedi. Uno era un negozio nel mezzo del vivace quartiere della moda, l’altro un magazzino a un chilometro di distanza, nel vicolo industriale e logistico lungo il fiume LA.

Questi confronti segnano il riemergere della dinamica spaziale conflittuale dei momenti più interessanti della Rivolta di George Floyd (e della precedente ribellione di Ferguson). Al posto del centro storico, per lo più vuoto, e dei suoi simboli di potere politico locale, le incursioni hanno aperto una zona di conflitto nell’arcipelago industriale e logistico periferico che costituisce l’attuale realtà materiale di Los Angeles.

Mentre gli agenti dell’immigrazione trattenevano i dipendenti all’interno del Fashion District, la folla militante si è confrontata con la task force federale. Nella sede periferica del magazzino, l’ICE ha caricato i veicoli con i lavoratori catturati, mentre i manifestanti hanno messo in campo una azzardata risposta che ha portato all’arresto del presidente del SEIU David Huerta.

La folla era composta da attivisti esperti, lavoratori vicini e passanti, familiari di lavoratori detenuti, rappresentanti della macchina politica liberale locale e giovani latinos indisciplinati della classe operaia. Questa composizione eterogenea forse spiega alcune delle carenze della risposta iniziale: i manifestanti che hanno compreso la necessità di uno sforzo coordinato hanno esitato tra l’agire come testimoni e garanti dei diritti legali e l’essere determinati nei loro tentativi di bloccare i tentativi di detenzione. Il coordinamento di questi ultimi, quando è arrivato, è stato confuso e ritardato.

Al magazzino Ambiance, il DHS è riuscito ad andarsene per lo più senza opporre resistenza attraverso un’uscita laterale non difesa. Mentre gli attivisti hanno insistito nel controllare moralmente la polizia locale che si è posta come mediatore statico tra la folla e il magazzino, non è stato stabilito un vero senso strategico delle reali possibilità di difesa. Dato che queste incursioni sono avvenute e continueranno ad avvenire in spazi sconosciuti ai soccorritori, acquisire e condividere rapidamente una consapevolezza spaziale sarà fondamentale per il futuro.

Data la sua posizione nel fitto reticolo del quartiere della moda, l’irruzione nel negozio ha favorito un conflitto più intenso tra militanti e agenti federali, che si è protratto per ore. Solo l’uso estremo della forza e le misure di controllo della folla da parte di una combinazione di agenti del DHS e dell’FBI hanno permesso ai veicoli di fuggire.

Sebbene le esigenze tattiche di queste incursioni diano la priorità a un confronto familiare con lo Stato disciplinare, esse pongono anche una domanda che non può che portare alle prime crepe del cosiddetto “pavimento di vetro” della produzione. Qual è la natura di questi spazi di lavoro e di accumulo di ricchezza materiale sotto forma di merci da cui la comunità “esterna” è attratta? Che cosa occorre per difendere il luogo di lavoro e i lavoratori dagli attacchi dello Stato? Qual è il potenziale della lotta alle porte per riflettere sul luogo del lavoro, ora che la sua stessa composizione è diventata un luogo di contesa pubblica? Queste domande chiave, che costituiscono il nocciolo di ogni futuro movimento verso misure comuniste, sono già in gioco in ogni difesa contro un’irruzione sul posto di lavoro.

La fase successiva della lotta ha seguito la macchina delle deportazioni. Poche ore dopo, i manifestanti si sono riuniti in gran numero per una manifestazione indetta dal SEIU davanti al Centro Federale di Detenzione (a pochi chilometri a nord dei luoghi del raid), dove i lavoratori catturati venivano processati. La folla, composta da circa 500 persone, presentava un’ampia varietà di obiettivi politici e tattiche. C’erano membri di gruppi comunitari, sindacati professionali e organizzazioni non profit. Alcuni si sono espressi a favore di una protesta pacifica in stile “sit-in”, avvertendo la folla del rischio di essere arrestati nella proprietà federale. Altri attori più radicali si sono concentrati sul blocco diretto degli ingressi del centro di detenzione con i loro corpi, per poi erigere barricate fatte di cassonetti, pezzi di automobili, sedie da ufficio, scooter, coni stradali e qualsiasi altra cosa si potesse racimolare nelle vicinanze.

Lo status di Los Angeles come “città santuario” ha creato confusione tattica e politica da parte dello Stato, permettendo al confronto di prolungarsi per ore. La polizia di Los Angeles è rimasta per lo più a distanza, mentre dall’interno dell’ingresso del garage la polizia del DHS ha iniziato a reagire, elargendo bombe flash, proiettili meno letali, gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Questo ha indotto alcuni dei manifestanti più passivi a sgomberare, ma più di un centinaio di altri sono rimasti in piedi, distruggendo la guardiola di fronte al parcheggio e mandando in frantumi i dissuasori di cemento per poter scagliare pezzi contro la polizia. Questi manifestanti hanno mantenuto la linea per altre ore, fino a quando il gruppo più numeroso della polizia di Los Angeles ha finalmente disperso la folla lungo il viale. Ma la notte non era ancora finita.

Intorno alle 21, sono iniziate a circolare notizie di una massiccia task force federale in un parcheggio privato nella vicina Chinatown, dove erano radunati orde di agenti dell’HSI, dell’ICE e dell’FBI insieme a decine di veicoli governativi. I manifestanti si sono diretti verso questo luogo ed è iniziato un altro teso stallo. Mentre gli agenti cercavano di far rientrare i veicoli nel lotto, la folla ha tentato di bloccarli fisicamente con i loro corpi, spingendo il contingente dell’FBI ad attivare due massicci veicoli blindati dotati di cannoni sonori e luci di segnalazione. Bloccati dai carri armati e dalle file di agenti di frontiera pesantemente armati, i veicoli governativi sono stati fatti uscire dal parcheggio e alla fine sono fuggiti dalla scena. Un altro marcatore geografico della lotta, la forza d’invasione a riposo, è entrata nel regno dell’intervento immaginabile (che continuerà nei giorni successivi con le proteste negli hotel che ospitano gli agenti del DHS).

Sabato mattina, l’assalto dell’ICE a Los Angeles è proseguito, con la messa in scena di un parcheggio di Home Depot per un’apparente incursione nella città di Paramount, una comunità operaia a maggioranza latina nella periferia industriale della contea. È qui che è emerso il conflitto più imponente e ampio di sabato, che si è protratto fino alle prime ore del mattino di domenica, riecheggiando alcuni dei momenti più dinamici delle rivolte di Ferguson e poi di George Floyd. L’architettura incentrata sulle automobili che caratterizza gran parte di Los Angeles – e dell’America in generale – è spesso vista come un limite negativo all’insurrezione. Tuttavia, la lotta nel sud-est di Los Angeles dovrebbe indurci a considerarla come una forma particolare, che crea un terreno quasi impossibile da controllare per i federali. Il conflitto ha evocato il classico ritmo del traffico di Los Angeles, con i blocchi statici su alcune linee di schermaglia mentre altri scorrevano liberamente lungo i viali verso la vicina Compton.

Domenica, quando è stato chiaro che la militarizzazione del centro di detenzione federale sarebbe rimasta e che la vicenda si era trasformata politicamente in uno stallo tra funzionari statali e comunali e l’amministrazione Trump, la lotta si è estesa al centro della città. Una manifestazione di migliaia di persone di fronte al municipio si è rapidamente estesa oltre l’area di allestimento per i discorsi del PSL e dei partner della coalizione e si è unita a gruppi militanti più piccoli, anche se ancora numerosi, intorno al centro di detenzione. Le linee della Guardia Nazionale all’ingresso del garage assediato del centro hanno respinto i primi piccoli gruppi di manifestanti, ma le forze dell’ordine prima linea sono presto diventate la LAPD, polizia di Los Angeles.

Probabilmente nel tentativo di smentire le affermazioni dell’amministrazione Trump, secondo cui l’insurrezione avrebbe sopraffatto le capacità della città e dello Stato, i reggimenti di polizia locale hanno avuto il via libera per colpire aggressivamente i manifestanti. La giornata è esplosa in una prevedibile rivolta contro la polizia, con gruppi di diverse centinaia di persone che hanno assediato le linee di poliziotti in più isolati, divisi dalla superstrada 101. Mentre la distinzione immaginaria tra gli “anarchici professionisti” e i manifestanti pacifici ha spesso la sua espressione reale nella separazione spaziale e temporale tra la manifestazione di massa e il blocco militante minoritario, la massa che ha agito quel giorno ha definitivamente trasceso questa dicotomia.

Se una vera consapevolezza spaziale e tattica è riuscita a cristallizzarsi, è in parte perché il terreno stesso forniva obiettivi chiari. Qui c’è il punto in cui le persone entrano ed escono, qui c’è un punto nodale nella macchina della deportazione senza il quale il passo successivo non può procedere e quello precedente non può contare. La diffusione capillare della consapevolezza di strada e della chiarezza su chi sia il nemico testimonia l’esperienza collettiva acquisita da una coorte di giovani militanti nel 2020 e dal movimento di solidarietà palestinese. E a differenza della Rivolta di George Floyd, che è emersa all’apice della distanza sociale e tendeva a essere caratterizzata da un’assenza di comunicazione sul campo, qui c’erano gli inizi di un’apertura creativa e di un coordinamento ad hoc. Gli attivisti e i pro-rivoluzionari, pur non dissolvendosi in blocchi distinti, si muovevano tra e di concerto con una classe operaia militante composta da giovani latinos di Los Angeles il cui mondo di vita era direttamente sotto attacco.

Il compito del vero santuario

Mentre scriviamo, è trascorsa una settimana dall’inizio dell’incursione federale a Los Angeles. Le incursioni sono continuate a ritmo serrato, senza alcuna logica apparente se non quella dell’opportunismo. Autolavaggi, parcheggi di Home Depot, aziende di autotrasporti e chiese sono diventati un bersaglio facile nel tentativo di distruggere materialmente qualsiasi politica di “città santuario” presente nei libri di diritto. Anche se resta da vedere fino a che punto il Partito Democratico sia disposto o in grado di far fronte alla situazione, per l’amministrazione Trump tutto ciò che manca al sostegno materiale diretto e aperto alle operazioni di deportazione di massa fa parte dell’insurrezione immaginata. Non bisogna scartare la possibilità concreta di una drammatica rottura costituzionale, soprattutto se il governo federale mantiene la promessa di portare la guerra alle città santuario in altri Stati.

Non è nostro compito inventare strategie che potrebbero permettere al Partito dell’Ordine di respingere il diluvio. Il nostro compito è piuttosto quello di individuare quali compiti necessari ci vengono assegnati giorno per giorno, quali forze di creatività, determinazione e solidarietà vengono chiamate in causa, e quali forme di azione appaiono ora ovvie a tutti. Già, oltre alle manifestazioni e agli scontri nel centro cittadino, si è sviluppata una pratica auto-organizzata di proteste notturne davanti agli hotel sospettati di ospitare agenti del DHS. Contemporaneamente agli scontri con la polizia di Los Angeles scoppiati domenica, i manifestanti a Pasadena sono riusciti a cacciare gli agenti dell’ICE dall’hotel AC. Oltre a questi sforzi visibili, alcuni militanti si sono organizzati per colpire clandestinamente i mezzi inutilizzati della macchina delle deportazioni in diversi parcheggi.

La prossima fase richiederà la reale estensione di un’infrastruttura quotidiana di difesa. Le basi sono evidenti: si trovano ovunque i lavoratori immigrati si riuniscano apertamente, prede in ogni momento delle retate del DHS. Il compito immediato è costruire delle vere e proprie zone di santuario all’interno della metropoli tentacolare, andare incontro ai lavoratori e presentare chiaramente la crescente costruzione di una pace reale, fraternizzare e iniziare a dissolvere le differenze sociologiche che strutturerebbero questa lotta come composta da alleati da una parte e soggetti a rischio dall’altra.

L’esistenza di queste zone disperse di difesa, se portata avanti fino in fondo di fronte a un nemico che non ha ancora fatto marcia indietro, pone l’inizio di una risposta a una domanda non ancora formulata. Nella loro riproduzione quotidiana, nella loro crescita e trasformazione, esse ci spingono a immaginare la creazione di una vera comunità umana — il comunismo — come un compito sempre più evidente per tutti i soggetti coinvolti, riducibile a problemi concreti e a riconfigurazioni del territorio e della vita quotidiana.

Giugno 2025

Immagine di copertina: Gabriela Bhaskar

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