
TRUMP II: La guerra commerciale si fa globale.
Riprendiamo e traduciamo il contribuito che i compagni di Chuang hanno dato al neonato progetto editoriale “Heatwave”.
Buona lettura.
In questo primo contributo al nuovo progetto Heatwave, rispondiamo alle domande di questo collettivo sull’impatto globale delle ultime ondate di dazi americani. La panoramica completa di questa inchiesta può essere letta sul loro sito web, insieme alle risposte dei compagni di diversi Paesi, che saranno stampate come dossier, intitolato “Madness and Capitalist Civilization: International Perspectives on the MAGA 2.0 Tariffs”, che sarà allegato al secondo numero della rivista.
La guerra commerciale di Trump è tornata: più grande, più rumorosa e in qualche modo ancora più stupida. Alcuni dicono che questa volta è diversa. Ma come per la maggior parte dei sequel, la trama è familiare. I personaggi sono logori. I registi sembrano decisi a girare sempre le stesse scene. Come finirà? Probabilmente in modo molto simile all’originale. Mentre i “Trump I” aveva attaccato i grandi partner commerciali come la Cina e l’Europa, il “Trump II” ha aperto il fuoco contro l’ordine globale stesso e questa volta il sistema ha risposto.
La guerra commerciale, un eterno déjà-vu.
Nel 2018, l’amministrazione ha lanciato una raffica di dazi sulla Cina, sostenendo che avrebbe frenato anni di “abusi” cinesi nei confronti dei lavoratori americani. Pechino ha reagito in modo più limitato e cauto, e l’intera vicenda si è trascinata in negoziati estenuanti. Nel gennaio 2020 è stato firmato l’accordo di “fase uno”, con la Cina che si è impegnata ad aumentare gli acquisti di beni statunitensi, nel tentativo di soddisfare uno dei principi fondamentali della teoria commerciale trumpiana: comprare americano. Un accordo di “fase due” è stato ventilato ma non si è mai concretizzato. Cosa è successo in seguito? Il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è diminuito per un breve periodo… per poi risalire quando Biden è entrato in carica nel 2021, proprio quando la pandemia ha messo a soqquadro i flussi commerciali globali. Biden, da parte sua, ha tranquillamente mantenuto in vigore la maggior parte delle tariffe cinesi di Trump, segnalando una continuità piuttosto che un’inversione di tendenza. In sintesi, la presidenza Trump I si è conclusa con un piagnisteo: due accordi poco convincenti, una manciata di fabbriche dubbiamente “rilocate in patria” (per lo più nei comunicati stampa), gli agricoltori sono stati salvati e il deficit commerciale si è a malapena ridotto. Alla fine, le linee di battaglia sono tornate quasi esattamente al punto di partenza.
Mentre i primi passi del Trump II insistono sulla terra bruciata americana, possiamo aspettarci che il copione sia simile al passato: forti minacce, vaghe speranze di nuovi accordi, modesti cambiamenti nei modelli di acquisto e, nel migliore dei casi, un’ammaccatura marginale in quello che rimane uno sbadiglioso deficit commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questa volta, però, Trump si sta scagliando con più forza non solo contro la Cina, ma contro lo stesso sistema economico globale. Ne sta mettendo alla prova i limiti, si sta scagliando in ogni direzione e sta facendo arrabbiare alcuni funzionari del capitale globale. Tuttavia, a meno che non si verifichi una vera e propria rottura, come l’innesco di un contagio finanziario o l’azionamento del “grande bottone rosso”, il sistema, ancora una volta, assorbirà lo shock e tornerà indietro.
Trump ne ha già avuto un piccolo assaggio dopo aver sparato i primi colpi nel “giorno della liberazione”: i mercati hanno preso una brutta piega e i deficit si sono allargati, finché non ha fatto dei passi indietro, ammorbidendo le minacce tariffarie e promettendo di risolvere le turbolente onde macroeconomiche con una serie di accordi commerciali. Ma i rapporti globali di produzione non possono essere ricostruiti da un giorno all’altro, né con l’innalzamento di barriere commerciali né con una serie di accordi “buy American”. Non si può semplicemente imporre un dazio su una lavatrice e aspettarsi che le catene di approvvigionamento mondiali, costruite nel corso di decenni, invertano le loro correnti a comando.
La saga della soia
Nella stagione Trump I, gran parte dell’azione si è concentrata sulla saga della soia. Dopo l’imposizione dei dazi iniziali, la Cina ha imposto tariffe di ritorsione sui semi di soia statunitensi e ha ridotto drasticamente gli acquisti. Le importazioni dal Brasile sono aumentate, tanto che nel 2018 il Brasile ha fornito l’82% della soia cinese, mentre la quota di mercato degli Stati Uniti è crollata. Ma la storia non è finita lì. I semi di soia americani non sono semplicemente scomparsi. Sono stati dirottati verso altri mercati come Messico, Egitto e Sud-Est asiatico, spesso a prezzi più bassi. La Cina, nel frattempo, aveva ancora bisogno di soia per alimentare la sua enorme industria suinicola e alla fine ha ripreso ad acquistare dagli Stati Uniti, nonostante i. dazi e tutto il resto, soprattutto nei periodi di bassa stagione quando l’offerta brasiliana era scarsa.
La struttura di base del commercio globale non è crollata. I materiali dirottati hanno continuato a fluire nella stessa direzione generale, venduti dagli stessi consorzi di aziende consolidate e acquistati dagli stessi clienti, solo con un maggior numero di intermediari. Il risultato reale è stato un “gioco della sedia” globale, non un disaccoppiamento rivoluzionario. Il “triangolo della soia” tra Stati Uniti, Brasile e Cina si è dimostrato straordinariamente resistente, a riprova del fatto che le profonde catene di approvvigionamento e le dipendenze agricole non vengono annullate da qualche minaccia in conferenza stampa e dall’aumento delle tariffe. La vita è andata avanti. I lavoratori cinesi hanno pagato di più la carne di maiale. Gli americani hanno pagato di più per l’elettronica. L’economia mondiale si è adattata, perché è questo che fa.
Per costruire le reti di produzione che alimentano “Chimerica” ci sono voluti almeno trent’anni. Le fabbriche sono state messe a punto per servire i mercati esteri. Acquirenti e fornitori hanno sviluppato fiducia, contratti e canali logistici che non possono essere facilmente liquidati con un ordine esecutivo. Ad oggi, quindi, possiamo ipotizzare che Trump si accontenterà probabilmente – proprio come ha fatto l’ultima volta – di un modesto aumento degli acquisti e dei prezzi da parte della Cina e degli alleati, concordato attraverso una serie di accordi a Mar-a-Lago. Il copione seguirà probabilmente il regime tariffario delineato dal consigliere Stephen Miran, dividendo alleati e avversari in diversi “cestini” definiti dal loro livello di accesso al mercato (e forse anche dagli accordi di sicurezza) – con la Cina scaricata in quello più punitivo, ovviamente.
In ultima analisi, però, il vero dramma delle guerre commerciali non si svolge tra i container, ma nelle forze sottostanti che li fanno muovere, tra cui le correnti finanziarie basate sul dollaro che trascinano le merci in tutto il mondo, le condizioni di lavoro massacranti che le fanno fluire e i sottili margini di profitto che tengono a galla l’intero sistema. Questi sono i meccanismi profondi del sistema e, quando vengono spinti con sufficiente forza, si ribellano.
Può l’ascesa salariale cinese allontanare la guerra commerciale?
Ancora all’inizio del primo atto, il balbettio dei dazi iniziati, sospesi, reiniziati e nuovamente sospesi stava aggiungendo instabilità alla già traballante economia cinese. Le esportazioni cinesi continuano comunque a sbarcare negli Stati Uniti, anche se a prezzi più alti, o a riversarsi su mercati alternativi in Europa o nel Sud-Est asiatico. Finora, i dazi non hanno esercitato alcun impatto reale sulla struttura di base del commercio globale.
Le turbolenze sono comunque importanti, soprattutto per i lavoratori. Anche una modesta flessione del motore delle esportazioni cinesi minaccia il sostentamento di milioni di persone che dipendono dal suo incessante funzionamento. Come riporta il Wall Street Journal, le esportazioni costituiscono circa il 13% del PIL cinese e le sole esportazioni verso gli Stati Uniti ne rappresentano quasi un quarto, pari a quasi il 3% dell’intera economia cinese. Gli analisti prevedono che le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti subiranno un duro colpo e che le esportazioni totali della Cina diminuiranno fino al 10% quest’anno. Sebbene possa sembrare poco, questo colpo si abbatterà anche sul mercato del lavoro: le tariffe potrebbero mettere a rischio fino a 15,8 milioni di posti di lavoro cinesi nei settori manifatturiero, logistico, delle materie prime e finanziario. Questo si aggiunge a una lenta ondata di fallimenti nel settore manifatturiero negli ultimi anni, che ha portato a un aumento degli scioperi difensivi e dei casi di arbitrato sul lavoro, e a tassi di disoccupazione storicamente elevati, soprattutto tra i giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro.[1]
Un’altra soluzione proposta per assorbire la produzione della vasta base industriale cinese orientata all’esportazione è quella di reindirizzarla all’interno, verso il mercato interno. Le crescenti minacce al motore delle esportazioni cinesi hanno riacceso le richieste, sia all’interno che all’esterno del Paese, di una riforma macroeconomica volta ad aumentare i consumi interni. Sebbene possa sembrare assurdo, vista l’enorme capacità di esportazione della Cina, è proprio ciò che molti esperti di politica economica hanno chiesto. Per alcuni analisti cinesi, incrementare i consumi interni significherebbe rendere l’economia cinese meno dipendente dai mercati esteri. I capitali stranieri sperano anche che la Cina “consumi” internamente almeno una parte dei prodotti che normalmente produce per l’esportazione. Alcuni sostengono addirittura che questo spostamento porterebbe a una crescita dei salari cinesi e aprirebbe ulteriormente i mercati cinesi agli investimenti e ai prodotti stranieri (dai formaggi e i vini europei agli aerei e ai programmi televisivi americani), a spese dei produttori cinesi, mettendo così più soldi nelle mani dell’industria occidentale.[2]
Ma anche gli esperti sanno che si tratta di una chimera che non si è mai avverata, nonostante anni di promesse.[3] Un aumento significativo dei consumi delle famiglie richiederebbe cambiamenti strutturali sistemici, come l’aumento dei salari, l’espansione della sicurezza sociale e lo smantellamento della vasta infrastruttura finanziaria costruita attorno a politiche favorevoli ai produttori. Ma questi cambiamenti intaccherebbero i margini di profitto e rischierebbero di far fallire innumerevoli aziende (già in difficoltà). Dall’inizio degli anni 2010, i tassi di profitto sono diminuiti sia nell’economia cinese nel suo complesso che nei settori industriali in particolare. Il declino è stato particolarmente forte in settori come quello dell’abbigliamento, ad esempio, che ha portato a un flusso quasi continuo di delocalizzazioni nell’ultimo decennio. In settori più difficili da delocalizzare come l’elettronica, la concorrenza spietata ha portato la redditività ai minimi storici. Nel frattempo, in settori come quello dell’acciaio, molte aziende (siano esse nominalmente di proprietà dello Stato o private) sono state tenute in vita solo grazie a sussidi e accordi di acquisto mirati.
Di conseguenza, l’attuazione del tipo di politiche sociali necessarie per elevare i consumi richiederebbe sia uno stimolo impossibile e massiccio per evitare i fallimenti, sia la rapida creazione di catene di approvvigionamento offshore attraverso investimenti diretti da parte delle imprese cinesi, in grado di reimmettere nel mercato cinese beni di consumo a prezzi ridotti. Tuttavia, non esiste una soluzione a breve termine e anche questa trasformazione strutturale a lungo termine rappresenterebbe un rischio enorme, con il rischio di rallentare la crescita e di generare nuove forme di instabilità sociale.[4] In definitiva, è più probabile che lo Stato compri la capacità in eccesso dalle aziende (cosa che ha già fatto per anni con la capacità in eccesso nell’industria siderurgica) prima di spingere per aumenti salariali diffusi e sostanziali.
A titolo di esempio, la Cina sta attualmente elaborando il suo 15° Piano quinquennale. Se si guarda al 13° piano (2016-2020), l’amministrazione si era già impegnata a bilanciare le importazioni e le esportazioni, una mossa salutata come una svolta verso una crescita più sostenibile e guidata dai consumi.[5] Quasi un decennio dopo, tuttavia, il divario delle esportazioni si è solo ampliato. Il mercato interno rimane incapace, allo stato attuale, di assorbire i volumi delle esportazioni e le fantasie dei media sul riorientamento delle merci verso l’interno ignorano per lo più la matematica di base. Prendiamo ad esempio gli ombrelli. Quelli destinati all’esportazione lasciano i porti cinesi a una valutazione media di 3-4 dollari USA per ombrello (21-29 yuan),[6] mentre l’ombrello medio viene venduto dalla fabbrica ai grossisti nazionali a circa 10 yuan.[7] La Cina produce circa 1,2 miliardi di ombrelli all’anno, 900 milioni dei quali vengono esportati,[8] e gli Stati Uniti sono il principale acquirente.[9] Per fare un riferimento all’economia cinese nel suo complesso, la dimensione totale delle esportazioni è pari a circa la metà del consumo domestico annuo.[10]
Nessuno, nemmeno Trump, sta suggerendo che la Cina debba smettere di vendere al mondo. Tuttavia, nonostante anni di retorica ufficiale sul riequilibrio dell’economia verso i consumi interni, le dimensioni del settore delle esportazioni cinese rendono straordinariamente difficile qualsiasi serio cambiamento di direzione, soprattutto in questo precario momento storico. Anche un aumento sostanziale della spesa delle famiglie non sarebbe in grado di sostituire la domanda attualmente fornita dai mercati globali. L’ascesa economica della Cina dipende fondamentalmente dagli acquirenti stranieri e, soprattutto, dalla volontà del mondo sviluppato di continuare ad acquistare beni cinesi. Trump può inveire contro lo squilibrio quanto vuole, ma al massimo otterrà piccole concessioni, qualche acquisto simbolico di beni americani e una nuova serie di promesse televisive.[11]
Affondare o servire
La guerra commerciale probabilmente scatenerà una nuova ondata di scioperi e agitazioni dei lavoratori in Cina, se non lo ha già fatto. Ma l’impatto non sarà limitato alla manodopera cinese. Dovremmo anche aspettarci che acceleri i piani delle aziende per diversificare le loro catene di approvvigionamento in tutta l’Asia, con nuovi hub in Vietnam, Indonesia e persino in India. Di conseguenza, si verificheranno nuove ondate di scioperi tra i lavoratori più giovani, proprio come quelle che hanno seguito ondate simili di delocalizzazione industriale nel corso del XX secolo in luoghi come l’Italia, la Corea del Sud e, naturalmente, la stessa Cina. Ma non si tratta di spostamenti notturni. Si sviluppano lentamente, come una marea mutevole che scolpisce nuovi contorni in un vecchio litorale. Allo stesso modo, non c’è alcuna garanzia che anche queste soluzioni di “friendshoring” (rilocalizzare la produzione in paese “amici”) siano considerate accettabili in un ambiente politico sempre più instabile. Si guardi al caso di Apple, che ha avviato investimenti in India nel 2016 spinto dalle pressioni del Trump I per poi sentirsi dire dallo stesso Trump nel 2025 “Non voglio che tu costruisca in India” [12]. La struttura generale della produzione globale può rimanere in gran parte intatta, ma le linee di frattura si stanno allargando.
Allo stesso tempo, mentre la situazione economica della Cina peggiora, la condizione proletaria cinese sembra simile a quella degli Stati Uniti, anche se forse si sviluppa a un ritmo più veloce: lavori di servizio senza senso e vite isolate con poche speranze per i figli, la famiglia o la comunità. Nessun futuro. Quando il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile urbana della Cina ha recentemente raggiunto il 16,9% (molto più alto se si considerano le popolazioni rurali), il governo ha subito invitato i giovani cinesi a lanciarsi nel volontariato e a dedicarsi alla modernizzazione della Cina, senza alcuna retribuzione.
Questo è il classico paternalismo dello stato, solo uno dei tanti “vaffanculo” alla sofferenza vissuta dai giovani cinesi negli ultimi anni, emersi dall’incubo della pandemia solo per non trovare alcun sollievo, ma piuttosto una crisi economica ad attenderli dall’altra parte. Durante la pandemia, i giovani cinesi hanno coniato termini come neijuan (内卷 o “involuzione”), una reazione di disgusto paralizzante verso l’infinito e competitivo criceto-lavoro, e tangping (躺平 o “sdraiarsi”), un rifiuto passivo di partecipare al gioco. Il governo ha risposto direttamente alla diffusione di questi slogan in discorsi e altre dichiarazioni pubbliche, e la replica è stata brutale: non ci sarà nessuno che si sdraia. Alzatevi, e tornate al lavoro. Eppure, il problema di fondo rimane: che aspetto avrà il lavoro per questa generazione, mentre la deindustrializzazione accelera e la crescita continua a rallentare?
Contro la marea dei dollari
Una delle caratteristiche più strane della rottura aggressiva di Donald Trump con le norme egemoniche degli Stati Uniti è quanto essa metta in evidenza la forza del sistema globale che lui stesso afferma di voler contrastare. Nonostante tutto il parlare del declino americano, i dazi e le minacce di Trump non hanno fatto altro che sottolineare quanto siano profondamente radicate le fondamenta del dominio statunitense. Questo è particolarmente evidente nel ruolo del dollaro. Il capitalismo globale non funziona senza una valuta guida: l’oro nel XIX secolo, la sterlina all’inizio del XX, il dollaro oggi. Ma questo pone un dilemma: gestire la valuta globale significa, per così dire, lasciare entrare il resto del mondo in casa propria. Gli Stati Uniti aprono il loro sistema finanziario — i mercati, il settore immobiliare, i titoli di Stato — a chiunque abbia dollari da spendere. È il prezzo da pagare per emettere la valuta di riserva globale. Significa accettare un’estrema apertura, convertibilità legale e flessibilità dei conti capitali che nessun altro Paese è disposto a tollerare.
Sicuramente non la Cina. Pechino non permetterà agli investitori stranieri di muoversi liberamente nella propria economia, acquistando terreni, aziende o debito a piacimento (come gli Stati Uniti consentono più o meno). Il governo cinese vuole ottenere surplus commerciali senza l’esposizione strutturale che comporta essere un hub finanziario globale. Ed è per questo che — anche mentre Trump lancia minacce di dazi — la banca centrale cinese continua silenziosamente a reinvestire i dollari delle esportazioni in titoli del Tesoro statunitensi, senza fare alcuna mossa per offrire il renminbi come valuta di riserva alternativa. Non perché ami l’America, ma perché non c’è nessun altro posto dove parcheggiare quella quantità di denaro in modo sicuro e su larga scala. Anche se i BRICS escogitassero un nuovo meccanismo di compensazione, sarebbe poco più di una piccola isola in un oceano di dollari — utile per gestire alcuni flussi intra-blocco, ma impotente contro il richiamo della marea del sistema globale del dollaro, che ancora domina commercio, finanza e riserve. Il sistema del dollaro resta l’unica opzione e, per di più, c’è Trump là fuori a difenderlo. Infatti, ha minacciato dazi del 100% contro i Paesi BRICS quando la Russia ha proposto un’alternativa valutaria BRICS per bypassare il dollaro.
Un recente studio cinese prevede che, anche entro il 2050, il renminbi potrebbe rappresentare solo circa il 10% delle riserve globali, rimanendo ben lontano dal dollaro. Alla fine del 2024, il dollaro rappresentava ancora quasi il 58% delle riserve valutarie mondiali, seguito dall’euro con circa il 20%, dallo yen giapponese con quasi il 6% e dal renminbi fermo poco sopra il 2% (più o meno al pari del dollaro australiano e canadese). In altre parole, anche dopo decenni di discorsi sulla multipolarità e sull’internazionalizzazione, il dollaro resta onnipresente, lasciando il sistema finanziario mondiale immerso in un mare di dollari ancora per molto tempo. Senza una seria alternativa all’orizzonte, l’intera economia globale — inclusi gli stessi Stati Uniti — rimane in balia delle maree volatili dei flussi valutari (in gran parte basati sul dollaro). Anche Trump lo ha capito: quando ha iniziato a scuotere troppo i mercati, in particolare quello dei titoli del Tesoro, i suoi alleati più ricchi gli hanno fatto capire che stava facendo oscillare troppo la barca, e lui ha fatto marcia indietro. Trump potrebbe anche essere tornato al timone della nave, cercando di manovrare il gigantesco e lento vascello dell’economia statunitense, ma sta comunque navigando in un oceano di dollari che obbedisce a correnti più profonde di qualsiasi timoniere.
Ribaltare il copione
Come in ogni sequel, una campagna pubblicitaria appariscente piena di azione è di solito un segnale sicuro che il prodotto finale prometterà troppo e manterrà poco. Per i comunisti, c’è almeno una lezione semplice: non bisogna scambiare il caos delle élite per un cambiamento trasformativo. Le guerre commerciali possono scuotere il sistema, ma spesso si concludono con compromessi parziali e accordi dietro le quinte. Il nostro lavoro è altrove — sul terreno, costruendo reti di amici e compagni oltre i confini, e sviluppando un’intelligenza collettiva orientata alla creazione di un altro mondo. Mentre il sistema prosegue a fatica, passando dalle minacce di dazi alla guerra vera, non ci basterà resistere: ci servirà immaginazione. Se Trump può cercare di riscrivere l’ordine globale da un resort di golf, allora possiamo sicuramente osare di immaginare qualcosa di meglio. Il futuro non è loro per diritto acquisito. È uno spazio conteso, e dovremmo trattarlo come tale.
Note:
[1]
La disoccupazione giovanile urbana ha raggiunto il picco nel 2023, attestandosi intorno al 20%. Tuttavia, questa misura non escludeva sistematicamente tutti gli studenti ed è stata sospesa nell’estate del 2023. È stata poi sostituita, all’inizio del 2024, da un nuovo indicatore con fasce d’età più dettagliate e un’esclusione più rigorosa degli studenti. Secondo questa nuova misura, il tasso di disoccupazione per i non studenti tra i 16 e i 24 anni è inizialmente diminuito per poi tornare a salire nel 2024, raggiungendo il 18,8% nell’agosto 2024 e scendendo leggermente al 16,5% nel marzo 2025. Analogamente, il tasso di disoccupazione per i non studenti tra i 25 e i 29 anni è passato dal 6,1% nel dicembre 2023 al 7,3% nel febbraio 2025. Tutti i dati citati provengono dalla serie mensile “Tasso di disoccupazione rilevato nelle aree urbane” (城镇调查失业率) pubblicata dall’Ufficio Nazionale di Statistica, disponibile in inglese e in cinese.
[2]
The Economist, ad esempio, ha sostenuto che gli sforzi del governo cinese per stimolare il consumo interno avrebbero riacceso l’interesse degli investitori stranieri: “Can foreign investors learn to love China again?” (27 marzo 2025). Analogamente, la Camera di Commercio Europea in Cina considera l’aumento dei consumi cinesi come un’opportunità per i marchi stranieri, affermando che l’incapacità di stimolare la domanda interna “è diventata una delle principali preoccupazioni per le aziende europee, le cui conseguenze si stanno ormai ripercuotendo sul resto del mondo”: European Business in China Position Paper 2024/2025 (p. 13). Nel frattempo, anche il governo cinese e i media ufficiali promuovono frequentemente l’aumento del potere d’acquisto interno come occasione per i marchi stranieri di trarre profitto, ad esempio nell’articolo di Fan Feifei, “Consumers pull out all stops for high-quality, foreign brands”, China Daily Global (16 settembre 2024).
[3]
Uno dei tanti esempi risale all’amministrazione Hu–Wen di oltre un decennio fa: Kevin Yao e Aileen Wang, “China bets on consumer-led growth to cure social ills”, Reuters (5 marzo 2013).
[4]
Proprio per questo motivo, importanti teorici del Partito come Wu Zhongmin, economista e professore di punta presso la Scuola Centrale del Partito (dove si formano i funzionari di più alto livello), hanno ripetutamente messo in guardia contro i pericoli di una spesa eccessivamente egualitaria per i servizi sociali, esortando i leader ad evitare il percorso seguito dall’Europa. In un recente libro, Why is Social Justice Possible? Social Justice Issues during China’s Period of Transition(Springer Nature, 2024), Wu afferma: “In alcuni paesi sviluppati europei, l’egualitarismo si manifesta sotto forma di sistemi di welfare che superano di gran lunga ogni limite ragionevole” (p. 299); e: “Anche nei paesi sviluppati europei e americani, la crescita dei servizi pubblici ha prodotto problemi sociali irrisolvibili… Durante quest’era di spesa pubblica, la crescita economica dei paesi europei è stata molto più lenta” (pp. 368-369). Se una politica simile fosse adottata in Cina, Wu avverte che “le persone diventerebbero generalmente apatiche nei confronti del lavoro. Alla fine, la società perderebbe la propria vitalità e il potenziale di sviluppo sociale” (p. 369).
[5]
L’incremento del consumo interno è da tempo un obiettivo dichiarato della politica cinese, e il 13° Piano Quinquennale è solo uno dei tanti documenti che riflettono questa intenzione. In quel piano, il governo menziona esplicitamente l’obiettivo di bilanciare importazioni ed esportazioni, sebbene in termini vaghi e flessibili. Vi si fa riferimento a un “raffinamento della composizione delle importazioni ed esportazioni” e al mantenimento di un “equilibrio di base nei pagamenti internazionali”, lasciando aperte le modalità di attuazione. Vedi: Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, 13° Piano Quinquennale per lo sviluppo economico e sociale della Repubblica Popolare Cinese (2016–2020)(Central Compilation & Translation Press, 2016).
[6]
“2024年中国伞出口数量、出口金额及出口均价统计分析” [Analisi statistica delle esportazioni cinesi di ombrelli nel 2024: quantità, valore e prezzo medio all’export], 华经情报网 (25 febbraio 2025).
[7]
È difficile determinare con precisione il prezzo di fabbrica degli ombrelli venduti sul mercato interno, ma questa è la nostra migliore stima. I prezzi esatti e i margini di profitto in ciascuna fase della filiera – dalla fabbrica al rivenditore finale – sono informazioni altamente riservate e inferiori ai prezzi di listino online. Questa stima di 10 yuan si basa su un breve sondaggio tra i siti di vendita all’ingrosso come Made-in-China, 1688 e Alibaba, integrato da conversazioni con persone del settore import-export. Uno di questi interlocutori ha anche osservato che molti produttori cinesi adottano un approccio rudimentale “costo più margine”, solitamente pari al costo + 5–10%. Questo approccio, pur considerato elementare nei mercati più sviluppati, riflette la forte concorrenza e le strategie improvvisate che caratterizzano il settore manifatturiero cinese, duro e volatile.
[8]
“雨伞市场数据深度调研与发展趋势分析报告” [Rapporto di ricerca approfondita e analisi delle tendenze di sviluppo del mercato degli ombrelli], 先略研究院 (21 maggio 2024).
[9]
“Umbrellas in China,” Observatory of Economic Complexity (s.d.).
[10]
Secondo i dati della Banca Mondiale per il 2023, la spesa finale per consumi delle famiglie in Cina ha rappresentato circa il 39,1% del PIL, mentre le esportazioni ammontavano al 19,74%.
[11]
Poi c’è l’altro lato della medaglia, quello finanziario del commercio, che spesso riceve meno attenzione. I profitti derivanti dalle esportazioni cinesi vengono incanalati attraverso le banche cinesi, trasferiti alla banca centrale e infine reinvestiti nel sistema finanziario statunitense tramite l’acquisto di titoli del Tesoro e altri asset denominati in dollari, completando un circuito strettamente interconnesso di commercio e finanza che funziona da decenni. È solo un altro fronte del conflitto USA–Cina, che coinvolge anche i banchieri americani – un fronte che Trump ha già provato a forzare, con scarso successo. Per ora, tuttavia, la struttura di fondo di questo sistema probabilmente resterà intatta: le merci continuano a fluire e il denaro torna alla Banca Popolare Cinese dagli Stati Uniti, con tanto di interessi.
[12]
Arjun Kharpal, “Trump dice di non volere che Apple produca in India: ‘Ho avuto un piccolo problema con Tim Cook’,” CNBC (15 maggio 2025).
[13]
Allo stesso modo, al governo statunitense non importa nulla delle condizioni lavorative generali (o della loro assenza) del cittadino medio americano. Trump e i suoi hanno usato ogni leva dello Stato per tagliare la spesa pubblica e arricchire chi è già scandalosamente ricco, senza muovere un dito per affrontare crisi come la precarietà lavorativa, l’alloggio o l’assicurazione sanitaria. In effetti, mentre il secondo mandato di Trump è iniziato con la dichiarazione di una “età dell’oro” per i ricchi, le sue istruzioni per la classe lavoratrice americana si sono sostanzialmente ridotte ad aspettare qualche anno dopo l’inizio della sua campagna tariffaria affinché si materializzasse una grande rinascita manifatturiera. Vedi: Alexandra Hutzler, “Trump says it could take 2 years before tariffs result in American manufacturing boom,” ABC News (4 aprile 2025).
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