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L’uso dei reati associativi per contrastare il conflitto sociale: il processo contro il CSOA Askatasuna (2° parte)

di Claudio Novaro – Avvocato, Torino riprendiamo da Studi sulla questione criminale

Trovi la prima parte dell’articolo qui.

I reati scopo.

Particolare attenzione viene poi dedicata ai reati scopo dell’associazione, individuati nei tanti momenti di scontro avvenuti a Torino e in Val di Susa negli ultimi 15 anni1.

L’operazione interpretativa è chiara: in mancanza di dati specifici sugli elementi costitutivi del reato associativo si cercano supporti probatori attraverso la disamina dei reati addebitati ai suoi partecipanti, con l’evidente rischio di andare incontro ad indebite commistioni: la sussistenza di un’associazione criminosa va verificata attraverso la prova dell’esistenza di un accordo e di un’organizzazione specifica e non attraverso l’esistenza di reati scopo, pena il pericolo che la prima diventi l’eco dei secondi.

In realtà, ancora una volta la ricostruzione storica proposta si dimostra incongrua. Le memorie dei P.M. prendono in esame 5 diverse tipologie di azioni avvenute a Torino e in Val di Susa – rispettivamente, diverse manifestazioni di piazza, i cortei del primo maggio, lo scontro con le fazioni di opposta ideologia politica in ambito universitario, le attività di controllo del quartiere Vanchiglia, la mobilitazione contro il TAV a partire dall’anno 2011 – rilevando come a molte di tali vicende abbiano preso parte alcuni degli imputati del reato associativo, come se questo fosse un dato fruttuosamente spendibile sul piano della responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 416 c.p..

In tutti gli episodi richiamati, e nei relativi procedimenti penali, colpisce, invece, proprio il raffronto (e la sproporzione) tra il numero dei partecipanti ai presunti scontri, con quello degli indagati e/o dei condannati per gli stessi reati e, infine, con quello degli attuali imputati del reato associativo in contestazione. A tali fatti hanno preso parte centinaia, se non migliaia, di persone, tra cui anche molti altri militanti di Askatasuna non coinvolti nel processo. La presenza degli imputati a tali vicende appare, evidentemente, solo sintomatica della partecipazione degli attivisti del centro sociale a momenti di protesta collettiva, unitamente ad una vasta pluralità di altri soggetti.

In particolare, per quanto riguarda la mobilitazione contro il TAV, la memoria precisa che:

la compiuta definizione e promozione del programma criminoso si deve far risalire al 2011, quando gli associati, unitamente all’ala più oltranzista del movimento No Tav, vi hanno dato esecuzione con le prime azioni criminose contro l’opera. Il tutto strumentalmente inserito in manifestazioni di protesta particolarmente violente … in cui il sodalizio criminale ha potuto contare anche sull’appoggio di numerosi militanti antagonisti provenienti da altri contesti territoriali”2.

A fronte dell’ovvia obiezione che una realtà associata che si serva di militanti esterni per realizzare il proprio programma sembra del tutto atipica, questa la si supererebbe con due espedienti dialettici: lo strumentale inserimento dentro le manifestazioni altrui e l’apporto dell’ala oltranzista del movimento No Tav e di militanti provenienti da altre regioni. Non si comprende, allora, perché tali soggetti, continuativamente presenti nelle manifestazioni indicate nei diversi capi di imputazione dedicati ai reati scopo, non facciano anch’essi parte del sodalizio, visto che ne condividono il programma e si spendono per la sua realizzazione.

Anche per quanto concerne le manifestazioni No Tav, gli indicatori sintomatici utilizzati per sostenere l’esistenza di un‘associazione per delinquere e dei suoi elementi strutturali sono costituiti in larga parte  da elementi indiziari (dialoghi intercettati, partecipazione a singoli episodi criminosi, condotte di militanza ecc..) che riguardano persone estranee all’associazione o a fatti che non hanno direttamente a che fare con il suo programma criminoso o, infine, a fatti maggiormente riconducibili alle attività del centro sociale o, addirittura, del movimento valsusino.

E anche in questi casi è, invece, sufficiente la presenza di uno o più imputati nell’ambito di un’attività di protesta, o di conflitto con le forze dell’ordine, perché la stessa venga irragionevolmente rubricata, secondo l’ipotesi d’accusa, come elemento indiziario grave della partecipazione ad un sodalizio criminoso e venga sussunta nell’ambito del suo programma. E ciò avviene addirittura anche quando per il presunto reato scopo non vi sono state condanne per alcuno degli associati.

Di qui l’evidente difficoltà, a meno di specifica argomentazione sul punto che spieghi perché il sodalizio fosse solito rivolgersi anche ad estranei per la realizzazione dei propri progetti, di considerarli alla stregua di fatti ideati e pianificati nell’ambito di un programma comune e tendenzialmente permanente.

Il silenzio che accompagna tale nodo ricostruttivo/interpretativo appare sintomatico dell’arbitrarietà e dell’assenza di consequenzialità tra premesse e conclusioni del teorema accusatorio. Si tratta di una doppia emergenza indiziaria che avrebbe imposto un confronto serrato in chiave argomentativa. Resta del tutto oscuro, invece, il criterio inferenziale che consente, di fronte ai dialoghi intercettati o alle condotte di rilievo penale, di rubricare gli stessi come elementi che sostanziano i presupposti costitutivi del reato associativo.

L’ambiguità di fondo sta in quel maldestro tentativo di enucleare nell’ambito del centro sociale un ristretto nucleo di militanti a cui contestare il reato associativo.

Intercettazioni ed epistemologia.

All’opera, in questi come in altri casi, è un meccanismo che inverte le modalità di valutazione delle risultanze probatorie, che non parte dai dati obiettivi acquisiti per pervenire, sulla base di criteri causali e probabilistici, ad un risultato sul piano della ricostruzione storica, ma che ipostatizza, tautologicamente, l’esistenza del reato associativo, usata come un filtro e bussola di orientamento per decifrare tutte le vicende esaminate e incasellarle in uno schema definito.

Ciò avviene, in particolare, allorché si devono valutare i diversi enunciati verbali contenuti nelle tante intercettazioni.

A sostegno del proprio impianto accusatorio, e del ruolo svolto nel suo ambito dagli imputati, gli inquirenti hanno valorizzato in particolare due conversazioni ambientali intercettate.

Nella prima, che dà addirittura il nome all’intera indagine (chiamata Operazione Sovrano), un militante agli arresti domiciliari discute con la propria compagna, anch’essa attivista di Askatasuna, e dipinge la struttura del centro sociale utilizzando i “concetti di “sovrano”, “nobili”, “corte”, “popolo”, per spiegare che un “sistema”, per mantenersi e durare nel tempo, ha bisogno di molti “nobili”, non tutti però essenziali per la struttura, nell’ambito della quale c’è anche “il sovrano illuminato  … i nobili che servono a mantenere il Sovrano  … che sono la gerarchia” (frase quest’ultima che, secondo la pubblica accusa, costituirebbe “un chiaro riferimento alla ripartizione verticistica dei ruoli all’interno del sodalizio investigato”) “…e poi c’è il popolo… ”3.

Nella seconda, nel dialogo tra due attiviste, si commenta l’esistenza in seno ad Askatasuna di “una struttura, gerarchica, rigida, violenta” e del ruolo che al suo interno svolgerebbero alcune persone.

Leggendo con attenzione e senza pregiudizi le due intercettazioni, appare chiaro come in entrambe ci si riferisca ad Askatasuna e non ad una presunta associazione a delinquere in essa inserita. Nella prima, in particolare, ci sono al suo interno indicazioni metacomunicative inequivocabili che punteggiano il dialogo: i due interlocutori ridono e scherzano, l’uomo dice esplicitamente che sta facendo dell’ironia sui ruoli e le attività del centro sociale, che il suo racconto è tutta una farsa, giungendo ad affermare che sta dicendo “due cazzate”. Le frequenti risate che costellano il colloquio danno la misura del gioco verbale che coinvolge i due protagonisti e lo stesso dialogo è sintomatico della relazione sentimentale intercorrente tra i due (c’è un corteggiarsi attraverso un finto scontro verbale di natura politico/ideologica) e, come sempre avviene, veicola l’immagine di sé che gli interlocutori vogliono dare (l’uomo, in particolare, accreditandosi, seppur scherzosamente, come un militante di lungo corso di Askatasuna).

Nella seconda ci si trova di fronte ad un colloquio riguardante le relazioni interne alla micro-comunità di frequentatori del centro sociale nonché la critica femminista dei ruoli e delle gerarchie anche nei circuiti antagonisti.

Entrambi i protagonisti delle due conversazioni hanno fornito a dibattimento una chiave di lettura appropriata di quanto intercettato ambientalmente, il che non ha in alcun modo scalfito le convinzioni della Procura4. Ciò non toglie che, a prescindere dagli evidenti fraintendimenti, l’idea stessa di colmare il vuoto sull’esistenza di un programma e di un accordo criminosi attraverso parole o frasi estrapolate dalle intercettazioni si dimostra pericolosa e in contrasto con la necessità di distinguere il piano della condivisione delle idee e dall’ambito giuridico su cui incide l’accordo criminoso.

Sempre a proposito di fraintendimenti, sullo sfondo delle argomentazioni della Procura si intravede un deficit di conoscenza profondo della storia dei movimenti radicali nel nostro paese e una evidente difficoltà analitica di rapportarsi ad un’area politica e alla storia di una comunità “militante”, alle sue teorizzazioni come alle sue iniziative, di cui evidentemente poco si sa.

È significativo che in una delle due memorie, dopo aver premesso che:

“l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato l’esistenza di un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti”,

si sostenga che

“Gli stessi imputati hanno rivendicato l’elaborazione di tale progetto in una molteplicità di documenti e nelle dichiarazioni spontanee; in più occasioni, anche i loro testimoni, hanno usato espressioni quali ASPRO DISSENSO, LOTTA, CONFLITTO SOCIALE E TERRITORIALE, VIOLENZA, SABOTAGGIO (in maiuscolo nel testo)”5.

Ciò sembra dimostrare un’assoluta incomprensione del lessico politico dei movimenti sociali, atteso che si finisce per considerare termini di uso comune, presenti in migliaia di documenti, volantini, saggi politici, quali elementi sintomatici del progetto criminoso di un’associazione per delinquere. La memoria del P.M. è piena di tali similitudini, che sembrano rivelare una inadeguatezza di cultura politica, prima ancora che giuridica, nell’affrontare la storia del conflitto sociale di questi ultimi 13 anni a Torino e in Val di Susa.

Il processo e i media.

Subito dopo la discussione delle diverse parti processuali, in prossimità della decisione del Tribunale, si è assistito ad una drammatizzazione del clima attorno alla vicenda giudiziaria, in concomitanza con una accentuata esposizione mediatica, in contrasto con la necessaria riservatezza che dovrebbe circondare un processo penale alle ultime battute.

Vi sono state, anzitutto, due prese di posizione istituzionali nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. La Procuratrice generale presso la corte d’appello, nel suo intervento, ha indicato Torino come capitale nazionale dell’eversione e il centro sociale Askatasuna, costituitosi a suo dire in vera e propria associazione per delinquere, come il centro propulsore di tutte le violenze di piazza avvenute nel corso degli anni6. Poi, un rappresentante del CSM, intervenendo a nome del Consiglio, si è complimentato con l’Avvocatura dello Stato per la richiesta di 6 milioni e 700.000 euro avanzata nei confronti degli imputati.

Tali dichiarazioni, rilanciate con grande risalto dai media7, sono state affiancate nello stesso periodo da 4 trasmissioni televisive (tre nell’ambito del programma Quarta Repubblica di Rete4 e una su Rai3) fortemente ostili nei confronti degli imputati8.

Non si è trattato solo del normale e consueto gioco di sponda tra iniziative giudiziarie e comunicazione giornalistica9. Senza indugiare in ricostruzione complottistiche, sembra evidente che chi ha passato i filmati e gli spezzoni di annotazioni di P.G., contenenti brani dei brogliacci delle diverse intercettazioni, alle televisioni, aveva in mente non solo di rafforzare nella pubblica opinione l’idea di Askatasuna come covo di violenti. La particolare attenzione riservata alle vicende avvenute presso lo spazio popolare Neruda, e le conseguenti ipotesi di reato ad esse connesse, erano funzionali a minare le basi della solidarietà verso gli imputati, descritti come persone spinte da pulsioni razziste, che si arricchiscono sulla pelle dei migranti, a cui chiedono una sorta di pizzo (come ha sobriamente sostenuto una delle commentatrici di una delle trasmissioni di Rete4) per poter permanere all’interno dello spazio abitativo. Il tutto in assoluta sintonia con l’accusa di estorsione formulata prima dalla Digos e poi dalla Procura.

La sentenza.

L’ultimo capitolo di questa complessa vicenda processuale, durata quasi due anni e mezzo (con una sospensione di 9 mesi per la maternità di una giudice del collegio) si è chiuso il 31 marzo scorso, con la lettura del dispositivo da parte del tribunale.

In breve, i giudici di primo grado hanno assolto tutti gli imputati dal reato associativo perché il fatto non sussiste, hanno riqualificato i reati concorsuali di estorsione e sequestro di persona in quello di violenza privata, per non aver permesso al soggetto nigeriano – allontanato dallo spazio popolare perché sospettato di spacciare stupefacenti all’interno dell’edificio e per una serie di condotte moleste e irriguardose verso gli altri residenti – di rientrare all’interno della sua stanza. In tal modo, è stato minato alla radice quel teorema che sosteneva che all’interno del Neruda fosse necessario pagare un affitto, che veniva estorto anche con la violenza ai residenti.

Sono state pronunciate un centinaio di assoluzioni, in relazione ad altrettante contestazioni sia concorsuali che individuali. Infine, diciotto imputati, sui 28 originari, sono stati condannati a pene che vanno da 5 mesi e 10 giorni a 4 anni e 9 mesi di reclusione.

Quanto alle questioni civili, è stata disposta una condanna generica per i danni subiti dalla presidenza del consiglio e dai ministeri dell’interno e della difesa, che dovranno essere liquidati in un separato giudizio civile. È stata, invece, respinta la richiesta di provvisionale di 1 milione di euro avanzata da TELT, che riguardava unicamente gli imputati del reato associativo.

Occorrerà attendere ancora qualche settimana per potere leggere il percorso motivazionale del Tribunale. Fin d’ora però si può prendere atto che l’impianto d’accusa è clamorosamente franato dopo la verifica dibattimentale. Si tratta della seconda importante smentita, nell’arco di un paio di anni, dei teoremi accusatori prodotti dalla Digos torinese – in assoluta sintonia, va detto, con gli uffici della Procura – che puntavano a dimostrare l’esistenza a Torino di ben due associazioni criminali, costituitesi, nello stesso contesto temporale, nell’ambito di due diverse aree politiche (quella anarchica e quella autonoma).


Note e piè di pagina

  1. A dimostrazione, come ho scritto altrove, che il vero imputato del processo è stato il conflitto sociale metropolitano e valsusino, come si è concretamente dato a partire dal 2009 ad oggi, ricostruito dalla Procura e dalla Polizia “secondo uno schema cognitivo per cui le vicende umane non sono il frutto di complesse dinamiche sociali, ma una sequenza di complotti, di ordini e di relative esecuzioni” e la lotta, in particolare contro il progetto del TAV “non è il risultato delle scelte politiche di donne e uomini o di attori sociali collettivi, ma solo un programma delinquenziale, in questo caso sovradeterminato da una struttura verticistica”. ↩︎
  2. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 41. ↩︎
  3. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 124. ↩︎
  4. All’udienza del 23.12.2014, l’imputato ha così dichiarato: “Sono stato ascoltato per oltre due anni. Ogni pensiero detto ad alta voce, ogni discussione fatta, seria o scherzosa che fosse, ogni confidenza personale, ogni pettegolezzo, ogni cosa è stata ascoltata. Il problema è che tutto questo calderone di cose dette è stato scelto: “Questo sì, questo no” e shakerato, sempre senza tener conto delle situazioni, delle birre, dei toni di voce, delle esagerazioni, delle provocazioni, dell’ironia o del sarcasmo”. Quanto alla conversazione intercettata, ha così proseguito: “era una normale chiacchierata in libertà, stupidaggini della buonanotte … e le risate fanno da contorno a tutta quanta la discussione. In poche parole la mia compagna era tornata da una riunione non proprio soddisfatta ed io stavo solo cercando di farla ridere, stuzzicandola e provocandola un po’. È veramente difficile credere che da una chiacchierata di questo tipo sia uscito il nome di un’operazione dove diverse decine di persone rischiano anni di carcere”. ↩︎
  5. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 1. ↩︎
  6. Tale intervento ha sollevato forti critiche tra tutti i difensori degli imputati del processo che, in un a lettera aperta inviata ai giornali, hanno osservato: “stupiscono le parole di un’autorevole magistrata della Procura Generale che, davanti ad una platea composta di giudici dello stesso distretto in cui si svolge il processo, commenta lo stesso con accenti di particolare perentorietà, in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio, entrando nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e anticipandone quasi l’esito. Tutto ciò in contraddizione con un principio assiologico del nostro ordinamento, costituito dalla presunzione di non colpevolezza degli imputati, di regole di galateo istituzionale e anche di specifiche norme di legge, che ci sembra sconsiglino gli interventi pubblici su un processo in via di definizione”. ↩︎
  7. Si vedano, tra gli altri,Musti non fa scontiTorino capitale dell’eversione‘”, su La Repubblica on line del 26.1.2025 e “Torino è la capitale dell’eversione e dell’antagonismo”. L’allarme del Pg su Askatasunasu La Stampa on line del 25.1.2025. ↩︎
  8. Visibili, rispettivamente, sulle piattaforme on line di Mediaset Infinity e Raiplay. ↩︎
  9. Anche in questo caso, per maggiori dettagli si veda https://volerelaluna.it/societa/2025/03/11/conflitto-sociale-repressione-media-ancora-il-caso-askatasuna/, precedentemente citato. ↩︎

Per citare questo post:

C. Novaro, (2025), L’uso dei reati associativi per contrastare il conflitto sociale: il processo contro il CSOA Askatasuna, in Studi sulla questione criminale online al link: 

Trovi la prima parte dell’articolo qui.

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