
Più conflitti, meno conflitti di interesse
“Le mie mani sono pulite” ha detto il sindaco Sala nella seduta del consiglio comunale dove ha sacrificato il suo capro – l’assessore all’urbanistica Tancredi, coinvolto nelle indagini della procura milanese su alcuni (parecchi) progetti di trasformazione urbana.
di Lucia Tozzi, da Effimera
E con questa affermazione ha confermato la sua linea politica sullo sviluppo: privatizzazione feroce dei servizi e beni pubblici e facilitazione degli interessi finanziari con ogni mezzo. Si accanisce sulla vendita di San Siro (anche se ha dovuto mediare rimandandola a settembre) e vuole affiancare all’assessore all’urbanistica un superconsulente per la legalità e la trasparenza, capace di dialogare con la procura, per proseguire senza ulteriori intralci.
Il nome che è spuntato per questo ruolo è Federico D’Andrea, ex guardia di finanza che si era distinto per le indagini di Tangentopoli e poi era passato al privato, specializzandosi nella ricerca di buchi di bilancio per aziende e società partecipate: Telecom, Olivetti, A2A, MM, Fondazione Fiera, qualche anno fa già membro della commissione comunale per la trasparenza e da pochi giorni presidente di Principia, ex Arexpo, la società proprietaria dei terreni di EXPO – oggi MIND – in prima linea nel campo della “rigenerazione urbana”.
Questi dimenticabili fattarelli di cronaca – il vacuo discorso di un politico mediocre in crisi reputazionale, le misere strategie per conservare il suo posto o la continuità dei suoi affari – sono interessanti come sintomi, come figure della sinistra resilienza dell’ideologia neoliberale che ci opprime, che non vuole battere in ritirata di fronte a nulla: al dissenso politico manifestato dai cittadini, alle analisi critiche sui suoi principi e sui suoi effetti e alle vicende giudiziarie, appunto.
Rievocare Tangentopoli, e blindare le operazioni immobiliari future assumendo un consulente che di Tangentopoli fu un protagonista e che è passato al servizio del privato – o del pubblico-privato, o del pubblico aziendalizzato – significa più o meno: “Non rialzate la testa, non cambierete nulla come non cambiò nulla allora. Abbiamo avvocati migliori, consulenti migliori, alleati migliori dei vostri. Siamo più potenti e più ricchi e andiamo avanti”. Dove “voi” siamo noi, i dissenzienti, e “noi” sono non solo sindaco e politici, ma i fondi immobiliari che manovrano e i media che obbediscono, più quella piccola parte di cittadinanza che realmente beneficia del governo neoliberale, dell’attrattività e della competitività e quella più ampia che pure ne subisce le conseguenze ma a cui fa ancora comodo non capire per non ammettere i propri errori, per non rinunciare agli automatismi con cui ha scansato le contraddizioni che si aprivano come baratri in questi anni di liberismo progressista.
Le “questioni morali”
Chiunque abbia l’età per ricordare l’effetto politico del dopo-Tangentopoli prova oggi un brivido, ripensando alla triste entrata in scena di partiti fondati sull’onestà e alla discesa in campo di Berlusconi che fondò il suo successo sulla retorica liberatoria della trasgressione, contro i bacchettoni. Il dibattito pubblico diventò così scadente, inquadrato dalla questione della moralità e della presentabilità, da distogliere l’attenzione dal fenomeno politico di maggior rilievo: la penetrazione dell’ideologia neoliberale – e dei suoi agenti, attivi esponenti della finanza globale – nel campo progressista. Fu questa metamorfosi a rendere possibili, negli anni successivi, le peggiori riforme contro i lavoratori, i territori e la società tutta, a distruggere l’impianto redistributivo già traballante delle istituzioni e dell’economia. Naturalmente fu un fenomeno globale, ma in Italia è innegabile che sia stato facilitato dall’esito di Tangentopoli – e dallo stesso Di Pietro che scese a sua volta in campo con tutta la sua carica reazionaria e oggi tuona contro le attuali inchieste giudiziarie.
Ma quanto ha senso questo parallelo, oggi? Negli anni Novanta l’ascesa dell’ideologia neoliberale era irresistibile, oggi è in crisi. Naturalmente nel frattempo ha prodotto una gigantesca centralizzazione della ricchezza e del potere reale, ma la sua natura mortifera è infinitamente più leggibile, i limiti evidenti ai suoi stessi apologeti, diventa sempre più difficile sostenere la sua compatibilità con i processi democratici e la dimensione della giustizia sociale. Negli anni Novanta la sinistra, come ben argomenta Marco D’Eramo in Dominio, ha rimosso dal proprio vocabolario la parola ideologia, lasciando che a servirsene in maniera esclusiva fossero i think tank avversari, mentre oggi torna al centro delle analisi la necessità della redistribuzione della ricchezza materiale – una questione squisitamente ideologica, legata al concetto di classe sociale anche nelle sue declinazioni più moderate.
Agli anni della contrapposizione tra giustizialismo e berlusconismo sono seguiti anni di sintesi, in cui l’ideologia neoliberale ormai totalmente egemone ha assunto l’aspetto di una questione morale, l’imposizione dell’austerity attraverso la colpevolizzazione del debito. Il welfare pubblico è diventato così uno spreco da eliminare, e i paesi troppo generosi dei dissipatori da punire.
Ma questo non è l’unico travestimento morale assunto dalle forze del capitale: una delle evoluzioni più insidiose è stata la sussunzione delle politiche del riconoscimento, la nascita dell’ESG (Environment, Social, Governance). Per liquidare definitivamente il piano materiale della redistribuzione era necessario diventare l’incarnazione della virtù sul piano simbolico. L’economia si è dipinta di verde, di rosa, di tutti i colori dell’arcobaleno per guidare la rivoluzione dell’inclusività. Finanziando le cause ambientaliste, la cultura della diversity, gli attivisti contro le discriminazioni, e diffondendo codici di comportamento neovittoriani e deliranti criteri di valutazione “etici” nel mondo imprenditoriale, nelle società finanziarie, ma anche nelle istituzioni pubbliche e private, si puntava a frammentare i conflitti e a catturare le loro energie.
Questa orgia di moralità sembra oggi sciolta come neve al sole: il capitalismo nelle sue varie declinazioni ha abbandonato greenwashing e posture inclusive e finanzia apertamente e generosamente armi, guerre genocide e città vecchie e nuove, purché nel segno del lusso e della disuguaglianza. Vengono ridicolizzate le regole del diritto internazionale, ignorati i risultati elettorali e i procedimenti giudiziari, apertamente repressi i conflitti, violati i trattati commerciali. Ma restano ancora da smantellare definitivamente le leggi urbanistiche in alcuni paesi, un ostacolo intollerabile per un settore chiave dell’economia finanziarizzata.
Il partito della deregolamentazione urbanistica, della legalizzazione di progetti speculativi, di liberalizzazione dello sfruttamento immobiliare intensivo è sempre esistito ovunque, ma la pressione sull’impianto normativo ha raggiunto nuovi livelli negli ultimi anni, e senz’altro Milano è stata oggetto di sperimentazione avanzata – nell’area europea seconda solo a Tirana. Come in Albania, lo smantellamento dei vincoli non ha arginato la forzatura delle norme sopravvissute, sommando ingiustizia a ingiustizia.
Lottare uniti
Brucia quindi l’arroganza con cui chi detiene (ancora, ma per quanto?) il potere sbeffeggia chi non ne ha, negando ogni responsabilità politica e ogni sostanza alle indagini: la protervia di Sala o di Boeri, ma anche di chi li legittima. I partiti di centrodestra e centrosinistra, gli opinionisti dei media servili, gli avvocati d’affari, i gestori di fondi, i costruttori, gli intellettuali e architetti compiacenti e come al solito un esercito di benpensanti esibiscono un garantismo d’accatto, separando rigorosamente la critica politica al Modello Milano (che sarebbe ineffettuale, perché “Milano è più bella grazie ai grattacieli”) dalle indagini (che sarebbero inconsistenti, i reati difficili da provare, “pesca a strascico” secondo Di Pietro e “non si vedono i piccioli”, nelle parole di Claudio Martelli).
Bruciano ancora di più le riserve e le prese di distanza da parte di chi appartiene in un modo o nell’altro ai movimenti, agli spazi, al pensiero critico, di chi normalmente si intesta le lotte, perché minimizzare il ruolo delle indagini significa buttare a mare il lavoro indefesso dei comitati che hanno combattuto, soli, senza sostegno politico, senza rilievo mediatico, contro le centinaia di progetti che l’amministrazione e i privati hanno calato sulla città, e in gran parte purtroppo realizzato. I comitati hanno raccolto notizie spesso difficili da ottenere, hanno documentato la distruzione di aree rinaturalizzate e parchi, hanno fatto rete tra loro, hanno scambiato informazioni, hanno studiato, scritto libri, hanno manifestato sempre in pochi, ignorati dagli attivisti di area più propriamente politica – eccetto Off Topic e qualche altro – ma anche dai movimenti ambientalisti più mediatici. Sono stati chiamati nimby, signor no, ridicolizzati, ma sono andati avanti nel tentativo di ostacolare la maledetta rigenerazione urbana alla milanese, caso per caso, producendo quegli esposti che hanno dato origine alle indagini.
E le indagini hanno rivelato, oltre ai presunti reati, nuove dimensioni del problema: hanno descritto in modo sempre più circostanziato e stupefacente in quali modi sono stati facilitati gli interessi degli investitori, quali strumenti sono stati usati per aggirare le procedure democratiche a scapito degli abitanti e quanto denaro è stato sottratto agli abitanti. Hanno cioè dato consistenza materiale alle critiche di questo modello di sviluppo urbano, hanno mostrato nel dettaglio come funziona l’articolazione del sistema immobiliare contemporaneo con le istituzioni locali, ovviamente distante anni luce dai tempi di Berlusconi e Ligresti con le valigette e l’assegno in bocca.
E il fatto che sia emerso il versante illegale di questa articolazione è molto importante, semplicemente perché rappresenta uno dei pochi ostacoli materiali al vorticoso ciclo della rigenerazione. Nell’immediato ha bloccato pochissimi cantieri, ma ha costretto il Comune a rinunciare alle procedure più disinvolte e ad aggiornare gli oneri di urbanizzazione, e ha minato la reputazione di Milano come paradiso immobiliare semigratuito, dove tutto è permesso. Il tentativo quasi riuscito di legalizzare ed estendere all’intero territorio italiano le procedure milanesi – la cosiddetta Salvamilano – si è rivelato poi un boomerang, non solo perché è stato sventato, ma perché ha finalmente mobilitato una parte di urbanisti e giuristi fino ad allora silenti, e riaperto un dibattito sullo sviluppo urbano che latitava da anni.
Nuovi tentativi di legalizzazione sono già pronti: la legge nazionale sulla rigenerazione urbana e quella sul Testo Unico dell’edilizia, che ripropongono sempre gli stessi contenuti. Ma ora, a Milano, sono in gioco partite grosse come la vendita di San Siro e i cantieri Olimpici, gli scali e la trasformazione di Piazzale Loreto in un centro commerciale, la cessione delle piscine pubbliche ai privati e il mostruoso FILI, cioè l’edificazione di migliaia di metri cubi sui binari di Cadorna. Sala vuole andare avanti con il suo superconsulente e tutto il peso del blocco economico e politico che lo sostiene. È fondamentale che questa volta la lotta contro questo modello iniquo e urbicida e questi progetti sia ampia e generosa, movimenti e comitati e spazi uniti, senza cavillosi distinguo tra il piano locale e materiale e il piano teorico e globale, e con ogni mezzo.
Immagine in apertura: opera di aleXsandro Palombo intitolata “Milano Murata” apparsa sulla sulla facciata della Galleria d’Arte Moderna di Milano
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