
STOP RIARMO “Se la guerra parte da qua, disarmiamola dalla città!”
Prima tappa del percorso torinese Stop Riarmo: ritorno sulla giornata del 5 luglio
Riprendiamo e pubblichiamo il documento uscito sul canale telegram del percorso @STOPRIARMO che a Torino ha organizzato una prima iniziativa qualche settimana fa. Il documento traccia un quadro composito del sistema guerra nei vari ambiti della produzione e della riproduzione sociale oltre a lanciare alcuni spunti rispetto a ipotesi di attivazione.
Buona lettura!

INTRODUZIONE
L’assemblea di Stop Riarmo è nata pochi mesi fa a Torino con l’intento di costruire un percorso cittadino contro il riarmo, contro la guerra e contro il genocidio in Palestina.
Una prima risposta all’esigenza di incontrarsi e organizzarsi di fronte alla corsa alle armi in atto, per contrastare chi la sta portando avanti.
Di fronte al partito della guerra è necessario trovare delle forme praticabili da tutti coloro che non intendono stare a guardare mentre si delinea all’orizzonte un futuro – e un presente – di militarizzazione e guerra.
Le numerose e partecipate mobilitazioni a sostegno della resistenza palestinese hanno chiarito già da tempo la volontà di non rendersi complici della macchina bellica che ha le sue radici alle nostre latitudini.
Torino in particolare in questo panorama ha un ruolo fondamentale: le aziende belliche come Leonardo, Collins, Thales, ma anche attori come il Politecnico di Torino e Intesa San Paolo testimoniano come la città sia legata sempre di più alla filiera militare.
I continui investimenti sul riarmo in Italia e in Europa esprimono esplicitamente la volontà dell’occidente di nutrire questo apparato militare in nome della sicurezza e del diritto alla difesa.
In Italia il picco arriverà al 5% del PIL, andando ad arricchire aziende e banche che tengono le redini del settore delle armi.
Di fronte a questo scenario l’assemblea di Stop Riarmo si propone come percorso ampio ed allargato, che vuole rendersi capace di incidere concretamente per arrestare la macchina della guerra. L’obiettivo è quello di riuscire ad essere all’altezza della situazione che si palesa di fronte: se gli investimenti vengono dirottati sulle armi bisogna opporsi a questo in difesa di tutti quelli che sono i bisogni reali dalla sanità all’educazione, dalla formazione ai territori.
La propaganda della controparte, sempre più pervasiva, prepara un terreno di guerra, la diffonde in tutti gli ambiti della vita.
L’avvio di questo percorso intende portare avanti una contro-propaganda che contrasta le logiche bellicistiche messe in atto. Soprattutto, intende praticare quello che è l’obiettivo che tiene unite tutte le realtà e le soggettività che partecipano: fermare concretamente il riarmo.
Il 5 luglio si è tenuta una giornata contro il riarmo organizzata dall’assemblea: un primo momento di presentazione del percorso dove condividere i diversi motivi che rendono urgente la mobilitazione.
La giornata del 5 luglio è iniziata sabato mattina con un’iniziativa dentro la fabbrica di Leonardo presso l’aeroporto di Caselle. Un piccolo corteo si è snodato tra gli stabilimenti sventolando bandiere palestinesi al grido di «Fuori la guerra dalle nostre città».
Leonardo, con la sua produzione bellica, rappresenta uno degli attori principali della filiera militare, bloccare la sua produzione significa bloccare concretamente la guerra.
Per questo l’azienda rappresenta uno dei bersagli contro cui battersi, ricordando e sostenendo al tempo stesso le lotte e gli scioperi operai per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. A conclusione è stato poi srotolato dal tetto un enorme bandierone palestinese e uno striscione con scritto “Stop Riarmo”.
Nel pomeriggio, la giornata è continuata al Parco del Valentino con la tavola rotonda “Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile”. Ripercorriamo, attraverso i vari interventi, ciò che è emerso: un punto di vista comune per il proseguimento della mobilitazione.
Per prendere parte al percorso STOP RIARMO
Canale Telegram t.me/STOPRIARMO
Parte I
A partire da un’analisi del complesso militare-industriale che diventa il paradigma in base al quale strutturare l’organizzazione sociale, produttiva e non, individuiamo chi guadagna dalla finanziarizzazione della guerra e dalla riconversione industriale prendendo ad esempio la città di Torino.
Il complesso accademico-militare-industriale
Michele Lancione, Professore di geografia economica e politica del Politecnico di Torino
Per riflettere sulla direzione nella quale stiamo andando e per capire quale sia questa direzione, bisogna guardare a Israele, bisogna guardare agli Stati Uniti d’America, in termini analitici oltre che con disgusto. In questi due paesi l’università e il mondo militare non sono più distinti, oltre al complesso militare industriale – ovvero l’insieme delle industrie che lavorano per la difesa, per la sicurezza e per il militare – esiste il cosiddetto complesso accademico-militare -industriale. In questi due paesi si è creata da molti anni una sinergia fondamentale e fondante tra la ricerca universitaria pubblica e il servizio alle industrie di morte.
Questo è un problema per tutte e per tutti, non soltanto per chi lavora nelle università e per chi nelle università studia: in questi due paesi le università non sono più spazi di pensiero critico perché non possono esserlo. Non esiste un’università pubblica israeliana che abbia detto istituzionalmente qualcosa contro il genocidio del popolo palestinese, non esiste un’università statunitense che a livello istituzionale abbia preso una posizione contro il genocidio del popolo palestinese.
Nel contesto israeliano nessun accademico ha preso una posizione pubblica, a partire dall’università, contro il genocidio del popolo palestinese. Nelle università di alcuni stati americani, come la Florida, (anche da prima di Trump), esistono delle liste di prescrizione di libri che non si possono usare a lezione, accademici e accademiche che non si possono invitare a per tenere dei seminari.
Uno dei fattori principali che ha portato a questa situazione, da un lato, è la privatizzazione dell’università, dall’altro è che attraverso questa privatizzazione si va incontro a una relazione sempre più forte tra il mondo universitario e quello del militare. Se il militare entra in università, allora questa diventa l’anello debole di quella catena.
In Italia si spende lo 0,5% del PIL per il finanziamento pubblico e la ricerca: non facciamo ricerca pubblica in Italia. Il motivo per cui il militare entra nelle università è perché è il miglior offerente. Se però da un lato finanzia la ricerca, dall’altro consegna anche i termini nei quali la ricerca deve essere svolta. Più il mondo militare entra dentro le porte della formazione, più l’assetto culturale dell’università cambia.
Non si tratta solo di dipendenza economica: l’università perde la propria capacità di coltivare pensiero critico. Un esempio nostrano: il Politecnico non può dire di essere contrario alla guerra, perché in casa si è portato Frontex e Leonardo.
Questo è uno shift culturalmente inaccettabile perché l’università ha una valenza sociale che altre istituzioni nel nostro paese non possono avere. L’università è un posto dove delle persone entrano potendo essere libere di criticare il mondo. Ma se quel mondo è snaturato, legato a doppia mandata con l’industria (che ha un altro modo di vedere il mondo), non possono più criticarlo. Il mondo dell’industria è gerarchico, militare, dell’ordine e della produttività.
Dobbiamo tornare a difendere lo spazio universitario perché se lo perdiamo andiamo nella direzione di quello che vediamo in Israele, negli Stati Uniti: il complesso accademico-militare-industriale. Come si compone questo complesso? Non si tratta di una mera questione di soldi, ma di una questione culturale. L’università cerca Leonardo, Thales e lo fa perché mossa da un’idea positivista della scienza, con l’idea che la scienza debba risolvere problemi concreti nel mondo. L’università tecnica è spinta a cercare validazione culturale con questi grandi players della sfera tecnica del nostro tempo.
A loro volta le aziende come Leonardo cercano di fare technowashing nell’associazione con il Politecnico. Le grandi industrie non hanno bisogno di far ricerca nei dipartimenti, ma li sfruttano per legittimare il loro operato politico, per avere una validità epistemica culturale.
Un esempio: Leonardo pubblicizza il nuovo master in cybersecurity aperto a Pomigliano d’Arco con l’università locale. Però Leonardo non è un’industria che fa master, rimane un’industria che per l’85% del suo budget fa armi: l’università dà la sponda per fare una sorta di technowashing, uguale al greenwashing che fa Eni con i Master sulla sostenibilità. Così facendo, come università, perdiamo la nostra libertà, la nostra capacità di mettere in seria questione cosa fa Leonardo nel mondo.
Si tratta di una crisi profonda di identità dell’università nella nostra società.
Una delle ultime notizie è che il Politecnico di Torino è pronto a prendersi i soldi di ReArm EU: nonostante l’Ateneo abbia sempre lavorato con chi produce armi, c’è una differenza sostanziale, perché ci parla di un’accelerazione che viviamo negli ultimi mesi. Il rettore del Politecnico non si è mai vantato su un quotidiano nazionale di prendere i soldi da Leonardo. Si è fatto un passaggio culturale fondamentale per il quale ci si vanta di questi accordi. Il Politecnico è pronto, va alla guerra e lo scrive sul giornale. Per fare questa mossa il Politecnico ha cambiato il Regolamento per l’etica e l’integrità della ricerca, uno dei regolamenti fondanti di ogni università, in cui scrivono di ripudiare la guerra, e poi tre righe sotto riportano «a meno che questo non sia relativo alla difesa della patria».
Qualunque cosa dall’11 settembre 2001 (ma anche prima) è difesa della patria.
Noi, come Occidente, abbiamo invaso l’Iraq con l’idea preventiva della difesa. La stessa cosa è stata fatta due settimane fa con l’Iran. Il ReArm EU è fondato sull’idea della difesa preventiva di un attacco che non c’è stato (Putin non ci ha tirato delle bombe in testa).
Il framework di oggi è quello della difesa della patria.
Questa cosa riguarda tutte e tutti perché, se l’università si piega, allora diventa parte integrante del complesso accademico militare industriale e se volete vederne gli effetti guardate Israele, guardate gli Stati Uniti d’America.
La guerra nel mondo del lavoro: inceppare la macchina di morte
Gianni Aliotti, Sindacalista e membro dell’Osservatorio The Weapon Watch
Io vorrei parlare di come entra la guerra nelle nostre vite e soprattutto nel mondo del lavoro. Inizierò citando alcune lotte che in questi anni si stanno realizzando soprattutto nella logistica della guerra attraverso le iniziative dei portuali, ma anche degli aeroportuali.
All’aeroporto civile di Montichiari la settimana scorsa è arrivato un aereo destinato a ripartire per Riad, capitale del Qatar, per trasportare dei missili, missili che non sono mai stati imbarcati al suo interno grazie allo sciopero indetto dall’Unione Sindacale di Base di Brescia.
Il volo è stato annullato, quei missili sono stati bloccati. È intervenuto il garante per gli scioperi che ha aperto una procedura sanzionatoria nei confronti dei lavoratori e del sindacato, sostenendo come il trasporto di armi rientri nei servizi pubblici essenziali, il che presuppone – in alcuni casi – l’impossibilità di dichiarare lo sciopero. La procedura di comunicazione rende lo sciopero in questo specifico caso, impossibile, perché i lavoratori erano stati avvisati di questo carico il giorno prima. Di fronte a servizi pubblici essenziali le procedure previste avrebbero escluso automaticamente lo sciopero.
Le azioni che i lavoratori stanno realizzando nei porti e in alcuni aeroporti sono l’unico presidio al rispetto dei trattati internazionali o delle norme che regolano il commercio internazionale di armi e il transito di armi ad altri paesi. Le istituzioni preposte, Guardia di Finanze, Carabinieri, polizia, non sono lì per far rispettare le norme della legge 185 del 90 che regola il transito di armi (non soltanto l’esportazione), ma sono lì per garantire che quel transito di armi sia assicurato.
L’Osservatorio Weapon Watch nasce a Genova nel 2019 proprio su un’esperienza simile di azione diretta mossa dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, in seguito a uno sciopero indetto per impedire il trasporto di equipaggiamenti elettronici ed elettromeccanici sulla Bahri Yanbu, nave saudita nota per il trasporto di munizioni, esplosivi e soprattutto grandi sistemi d’arma. Il rispetto della norma esclude che si possano esportare o trasferire armamenti verso paesi in guerra. In quel caso gli armamenti andavano in mano agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita che che le utilizzavano nella guerra in Yemen. L’efficacia di quel blocco fu garantita dal fatto che, sia a livello sindacale che in quanto ricercatori o attivisti, ci si era occupati di industria militare, di tecnologie militari, per cui si sapeva esattamente a cosa sarebbero serviti gli apparecchi che si voleva caricare.
Nel tempo si è creata una rete con i lavoratori di altri porti europei e del Mediterraneo che ha dimostrato la sua efficacia. A Marsiglia, qualche settimana fa, i lavoratori portuali e aderenti alla CGT francese hanno bloccato un carico di 14 tonnellate di pezzi di ricambio di componenti destinate a mitragliatori per le industrie militari israeliane. Questa azione è stata possibile grazie al collegamento che si è creato in questi anni tra alcune ONG, giornalismo investigativo e centri informali di studio e ricerca, in grado di trasmettere in tempo reale l’informazione. I portuali marsigliesi e genovesi si sono messi in contatto dal momento che dopo Marsiglia, gli scali erano previsti a Genova e Salerno: è scattata un’organizzazione finalizzata a bloccare il trasferimento di armi. C’è bisogno quindi di organizzazione, c’è bisogno di intelligenza operaia. Queste lotte hanno messo insieme i portuali di Genova con quelli di Livorno, di Salerno, di Ravenna, Marsiglia, Barcellona, Tangeri, Anversa, lavoratori con appartenenze sindacali diverse per matrice e orizzonte culturale politico. Il controllo democratico dal basso e l’azione diretta sono gli unici strumenti utili. Negli anni ‘70 a partire dalla lotta dei lavoratori in Val di Susa che, pur essendo in cassa integrazione, rifiutarono di passare dalla produzione per il settore ferroviario alla produzione militare, dando un grande esempio di coscienza politica, di coscienza etica.
L’ingranaggio nascosto: la finanza prepara la guerra
Susanna De Guio, ReCommon, associazione che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella società, in Italia, in Europa e nel mondo
È importante parlare di Intesa San Paolo oggi, qui a Torino, la sua sede principale. È la prima banca italiana, nonché la banca europea che nel 2024 ha avuto la più grande capitalizzazione di mercato, si trova tra le prime 50 banche a livello mondiale. È un attore enorme e profondamente connesso al settore bellico, uno dei grandi finanziatori di Leonardo.
Dal genocidio in Palestina (fine 2023) c’è stato un incremento enorme degli investimenti della Banca, ma già nel 2022 era visibile l’aumento, in concomitanza con l’inizio della guerra in Ucraina. Un aumento del 52% degli investimenti della banca in generale e in particolare nel settore delle armi e dei combustibili fossili, due ambiti strettamente collegati tra di loro e che utilizzano i momenti di guerra come un’opportunità di business.
Analizzando la relazione annuale del Senato sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, l’importazione e il transito di materiali di armamento, abbiamo estratto i dati di Intesa San Paolo. Nel 2024 in Italia sono state effettuate transazioni bancarie per operazioni legate al trasporto di materiali di armamento per un importo di circa 12 miliardi di euro in totale.
Nel 2024 Intesa San Paolo da sola ha gestito 1 miliardo e 600 milioni di euro nel settore import-export, un altro miliardo e 8 nel 2023, altri 2 miliardi nel 2022. Quindi c’è un impegno costante nel tempo con numeri alti in questi anni solo per quanto riguarda il settore dei finanziamenti e delle garanzie relativi alle transazioni sui materiali di armamento.
Abbiamo poi analizzato il settore dell’aerospazio e della difesa in generale: investimenti e finanziamenti nelle imprese, nell’industria bellica. Dal 2016-2024 l’esposizione finanziaria di Intesa è stata di quasi 2 miliardi e mezzo di dollari, di cui il grosso sono finanziamenti e c’è una porzione di 650 milioni di investimenti che sono raddoppiati nell’ultimo anno. Ovviamente tra i beneficiari ci sono i big dell’industria bellica a livello mondiale, molti sono anche diretti fornitori di armi a Israele ed è presente con grande forza la Leonardo che è stata la beneficiaria del 56% dei finanziamenti totali di Intesa San Paolo durante tutto questo arco di tempo.
Prendiamo il 2016 solitamente come margine di riferimento perché quello è il momento in cui entrano in vigore gli Accordi di Parigi e quindi a livello di policy climatica, le banche da quel momento avrebbero dovuto cominciare ad adeguarsi a degli altri standard, invece hanno continuato con il loro business as usual.
C’è uno stretto legame tra la San Paolo e Leonardo. Leonardo nel 2024 è stata la seconda società per ricavi derivanti della vendita di armi in Europa e la 14ª a livello mondiale. Ha avuto ricavi per 17.8 miliardi di euro l’anno scorso, con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente e con prospettive di crescita per il 2025: un’industria florida quella della guerra in questo momento. Dal 7 di ottobre del 2023, Leonardo ha fatto grandi profitti con il genocidio in Palestina.
Il report della special reporter per le Nazioni Unite Francesca Albanese, From Economy of Occupation to Economy of Genocide, analizza le implicazioni del settore economico nello sforzo bellico di Israele contro Gaza e contro i palestinesi. Leonardo appare ovviamente tra le imprese che contribuiscono a rafforzare la capacità militare di Israele, ma c’è un grande capitolo dedicato al settore finanziario. Senza i fondi e gli investimenti, senza chi mette le garanzie, non ci sarebbe l’industria della guerra. Quindi stiamo parlando di un anello che è profondamente importante e che passa spesso sotto silenzio. Secondo il report, il settore finanziario ha comprato i buoni del tesoro di Israele sostenendo l’economia nazionale.
Le banche hanno un codice etico, anche Intesa San Paolo ne ha uno, ma presentano sempre delle scappatoie che rendono realizzabili gli affari sulle armi. Ad esempio nella policy si parla sempre di finanziamenti e di transazioni, ma non di investimenti, quindi gli investimenti, il core business della banca, dove realmente si fa profitto, non rientrano nella policy.
L’altro elemento che rende possibili le guerre e il genocidio in Palestina, è il comparto dei combustibili fossili che mettono in moto i mezzi della guerra. Combustibili che arrivano dalle grosse multinazionali che li estraggono e li distribuiscono, alcune di queste sono italiane. Le imprese fossili vanno nei paesi terzi, spesso del sud globale, a rapinare le materie prime, le risorse, in questo modo si alimenta il meccanismo bellico, infatti nelle zone di estrattivismo avviene una vera e propria militarizzazione dei territori, che significa sfollamento delle popolazioni locali, repressione del dissenso, controllo e salvaguardia delle infrastrutture che servono per l’estrazione, lo stoccaggio e la distribuzione.
Uno dei progetti emblematici è quello di Eni in Mozambico di cui come ReCommon ci stiamo occupando.
PARTE II
Due dei comparti che più saranno colpiti da questa corsa al riarmo sono quelli della formazione e quello della sanità. Uno sguardo interno ci permette di fotografare una situazione attuale già al collasso. I tagli all’Università pubblica sono solo una parte delle conseguenze di una militarizzazione che è sempre più concreta e tocca gli ambiti fondamentali della vita di tutti.
Laboratorio di guerra: come la propaganda bellica entra nel mondo della formazione
Terry Silvestrini, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Lavoro sul territorio in Scuola per la Pace e con altri docenti di Torino, a livello nazionale collaboro con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Non so voi quanto sappiate di questo osservatorio, dico rapidamente che è nato nel 2023 e che il suo obiettivo è proprio quello di monitorare, denunciare e sensibilizzare riguardo la militarizzazione crescente dentro le scuole e, in generale, nella società.
Una guerra non può essere fatta senza il consenso della popolazione, questo è un elemento importantissimo. La guerra di oggi richiede che la popolazione sia tendenzialmente ingaggiata e quindi fa uso della propaganda e la propaganda è già guerra. Noi, per certi aspetti, siamo già in guerra perché siamo investiti da una continua campagna militare, che non si trova soltanto nelle scuole, ma anche nella società, perché scuole e società sono dimensioni porose che si intersecano. La realtà dei bambini, dei ragazzi, degli adolescenti viene intercettata non soltanto negli ambiti della formazione, ma anche nei luoghi di divertimento e di socialità.
Dal 2015, quindi non solo sotto questo governo, sono molti i protocolli di intesa tra i ministeri della Difesa e dell’Istruzione e del merito che aprono le porte delle istituzioni scolastiche a due tipi di interventi: uno è il reclutamento, cioè convincere, persuadere i ragazzi che la carriera militare sia una possibilità di sbocco professionale attraverso l’intervento di formatori che orientano i ragazzi alle cosiddette carriere in divisa.
L’ altro aspetto che l’Osservatorio sta monitorando ultimamente, è la questione della leva obbligatoria, noi riteniamo che l’opinione pubblica in Italia non sia ancora pronta e non sia ancora disponibile alla leva obbligatoria giusto? Però ci sono delle proposte di legge che vanno in quella direzione, ad esempio, la Lega ha depositato una legge in Parlamento nel maggio 2024 che si chiama “istituzione del servizio militare civile universale territoriale” che per 6 mesi obbliga i ragazzi e le ragazze tra i 18 e i 26 anni a fare o servizio civile o servizio militare. In questi giorni il presidente della commissione difesa della Camera, Nino Minardo ha depositato in Parlamento una legge sulla riserva ausiliaria dello Stato per far sì che coloro che hanno svolto il servizio militare possano essere impiegati in attività di supporto e in situazioni di crisi.
Sempre nell’osservatorio abbiamo elaborato il fatto che la costruzione del consenso intorno alla militarizzazione e quindi la normalizzazione della guerra venga attuata attraverso un preciso piano di comunicazione che ha come obiettivo esattamente la diffusione di una parola sola identitaria che è la parola DIFESA. La comunicazione ha come obiettivo principale quello di presentare la difesa e le forze armate come “elementi essenziali del sistema nazionale internazionale di sicurezza. Per tutti i progetti vale il tassativo indirizzo che su questi canali si dovrà sempre far riferimento a un’unica realtà identitaria che si sintetizza con il termine difesa.” Quindi loro con questo documento vogliono dire: la difesa deve essere concepita per tutti i corpi dell’esercito, non bisogna differenziare l’esercito, la marina, l’aeronautica.
Allora, come blocchiamo la guerra? La blocchiamo, decostruendo volta per volta, denunciando volta per volta questi tentativi di assuefarci a un panorama bellico.
Al servizio del sistema: la sanità da tempo in guerra
Eleonore Artesio, Comitato per il diritto alla tutela della salute e alle cure
Il collegamento tra il senso della nostra presenza qui e il valore e l’intenzione di questa iniziativa si trova esattamente nel sottotitolo “Se la guerra è qui, disarmiamola dai quartieri”. Un modo per disarmare è quello di decostruire la narrazione dominante, che si sta diffondendo da molti anni riguardo il servizio sanitario nazionale.
La narrazione è quella per la quale non ci possiamo più permettere il servizio sanitario nazionale così come l’abbiamo conosciuto. la contronarrazione è quella di resistere attraverso un’organizzazione, una mobilitazione raccontando il rischio il timore e quindi la reazione necessaria rispetto ad uno sgretolamento della sanità, non solo in termini materiali, ma anche in termini culturali, cioè con il venir meno dei principi fondativi del nostro servizio sanitario nazionale. Io continuo a chiamarlo servizio sanitario nazionale, non sistema, mentre nel linguaggio comune si sente molto parlare di sistema sociosanitario. Il problema è che in questo momento il sistema domina servizio perché in virtù della compatibilità economica del sistema abbiamo assistito negli anni a un disfacimento del servizio sanitario nazionale bisogna produrre delle contronarrazioni riguardo la propaganda di investimenti in favore della sanità portata avanti dal governo con l’ultima finanziaria, perché se il dato è vero in termini assoluti e peraltro procede così negli ultimi 15 anni, non è affatto vero in termini relativi, non è vero sul valore di quell’ incremento rispetto al PIL, cioè a quanto lo Stato dovrebbe ridistribuire per la funzione del servizio di cura che invece percentualmente diminuisce ormai costantemente. Non possiamo farci abbindolare da questo racconto che mette la compatibilità come bussola regolatrice della qualità del nostro servizio sanitario nazionale. La seconda questione in questo contesto non può essere evitata, è il fatto di come incide l’aumento delle spese militari e gli obiettivi concordati a livello europeo rispetto all’ulteriore riduzione delle spese di welfare nella fattispecie delle spese del servizio sanitario nazionale. La nostra condizione di comitato per il diritto alla tutela della salute e alle cure nasce dalla volontà di resistenza, di riscoprire collettivamente i valori fondativi del nostro servizio sanitario nazionale che sono di una modernità straordinaria e di un’attualità assoluta. Oggi vediamo il principio universalistico del diritto alle cure costantemente messo in discussione proprio in nome della compatibilità. Oggi siamo ancora in questa situazione, certamente vengono messi in discussione i principi culturali di riferimento, ma viene messa in discussione anche l’organizzazione materiale. L’organizzazione materiale che è gravata da una fortissima riduzione delle competenze professionali di chi lavora all’interno del servizio sanitario nazionale. Non ci possiamo permettere le assunzioni dei medici, degli infermieri, dei pediatri, degli operatori perché abbiamo il blocco dell’assunzione in nome del patto di stabilità interno.
Allora, in questa condizione la necessità di una reazione era, per noi associazioni che abbiamo concorso alla costruzione di questo comitato, assolutamente urgente. Ricordo che la riforma sanitaria è nata nello stesso periodo della legge Basaglia. Non è nata perché c’erano politici più capaci di ascoltare e di interpretare. È nata da una mobilitazione popolare delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno con un principio di solidarietà interna capito che rinunciare al meccanismo della tutela delle mutue, che per alcuni e alcune era vantaggioso e altri invece erano esclusi, era necessario per arrivare ad un bene comune più generale, cioè proprio quella dimensione della tutela universale del diritto ad essere curati da un servizio. Concludo dicendo che il comitato aveva due parole d’ordine, una “rilanciamo il nostro servizio sanitario nazionale” e l’altra era “PUBBLICO”. Ormai il servizio sanitario è fatto di tante voci di spesa, quella dello Stato, quella purtroppo dei cittadini e a fronte di ciò le diseguaglianze sociali su base economica stanno crescendo. Qual è il ruolo della sanità integrativa finanziato attraverso, ad esempio, il welfare aziendale? Questo è un elemento, se vogliamo usare i termini economici, di dumping interno tra ciò che arriva direttamente al servizio sanitario nazionale e ciò che invece arriva ad alcune categorie fruendo di determinati vantaggi. Per noi il rilancio pubblico non è una battaglia ideologica novecentesca, ma è invece, una di quelle condizioni che caratterizzano la tutela della salute, perché lo schema assicurativo è uno schema che forse ti può garantire una prestazione, ma non ti può garantire la continuità.
PARTE III
Da tempo, diverse realtà sono attive nel contrastare la macchina bellica, sia nel mondo del lavoro che in quello della formazione. Esperienze di lotta e resistenza che già da ora hanno rappresentato dei tentativi reali per bloccare la guerra e praticare sostegno al popolo palestinese, a partire dai propri territori.
Racconto dalla Global March to Gaza
Vittoria Antonio Lerduini
Ho partecipato alla Global March to Gaza con l’intento di mettere il mio corpo a disposizione per fare pressione sul governo Israeliano. La Global March non è riuscita ad arrivare a Gaza ma è stata bloccata al Cairo dal governo egiziano, che consapevole di quello che stava accadendo ha fermato chi partecipava direttamente ai controlli. Noi siamo state trattenute per 12 ore, l’acqua ci è stata data dopo un bel po’ così come il cibo, ci sono stati ritirati i telefoni. Io sono riuscita a tenerne uno e da lì a comunicare con la stampa. C’è un grande dissenso popolare nei riguardi di quello che sta avvenendo in Palestina che non può essere silenziato dal nostro governo, non può passare sottovoce. Durante il fermo abbiamo avuto la possibilità di parlare con vari ragazzi e ragazze algerini di vari paesi palestinesi e ciò che più ci ha colpite è la volontà da parte dei Palestinesi di tornare a Gaza perché la loro rivolta è proprio di rimanere lì. È una resistenza, una resistenza immensa. Per questo non bisogna condannare il modo in cui lottano. Noi da qua possiamo ascoltare quello che loro dicono e rimodulare il nostro modo di agire di modo che vada a beneficio della causa. Tornando dalla Global March, successivamente ci siamo organizzati con vari algerini, tunisini e siamo andati in Tunisia a incontrare il convoglio di Sumud che è un convoglio partito da Tunisi, che è stato bloccato al confine con il Libano partecipato da circa 5000 persone partite e tornate insieme. Sono rimaste unite perché consapevoli dell’ importanza di mettere il proprio corpo a disposizione per sostenere la causa Palestinese.
Esperienze dell’Intifada del Politecnico di Torino
Le Intifade studentesche nascono a livello internazionale con la volontà di costruire la solidarietà attorno al popolo palestinese, contro quello che è il genocidio in corso a Gaza e l’occupazione israeliana nei territori palestinesi. L’esperienza dell’intifada del Politecnico aveva l’obiettivo di boicottare dall’interno del mondo accademico, partendo da quelli che sono i nostri spazi di azione e di istruzione. Attraverso il boicottaggio accademico si vuole andare a distruggere quello che è l’apparato economico israeliano che viene alimentato anche dall’interno delle nostre università attraverso gli accordi con le università israeliane che sono tra le prime promotrici del sionismo presente a livello culturale, dell’occupazione dei territori palestinesi e del genocidio in corso a Gaza.
La nostra volontà era quella di mettere pressione attraverso l’occupazione degli spazi universitari e di creare un canale diplomatico che potesse andare a rescindere gli accordi con le università israeliane e porre attenzione l’apparato bellico e sui suoi rapporti con le università.
All’interno di quest’esperienza abbiamo cercato anche di costruire dei saperi nuovi, che partissero dal basso e restassero orizzontali, creando tavoli di discussioni e dibattiti sulla guerra e sul dual use della ricerca.
Granelli di sabbia negli ingranaggi: bloccare la logistica della guerra
Gruppo Autonomo Portuali (GAP) Livorno
Quello che tengo a precisare è che ogni forma di lotta e ogni testimonianza è collegata. Noi come gruppo autonomo siamo nati dalla necessità di prendere una posizione e prendere consapevolezza riguardo al fatto che il nostro lavoro rientra in quella categoria logistica che è fondamentale per il trasporto di tutte le merci, comprese le armi.
L’errore che spesso si fa è identificare esclusivamente il carro armato o la munizione come armi e non anche tutte le componentistiche, dal generatore al trasporto truppe e alla bettolina di rifornimento per il campo.
Nel nostro caso specifico, Livorno è molto vicina al Camp Darby, una delle più grandi basi di smistamento logistica dell’esercito americano sul territorio pisano. Data questa prossimità allo snodo livornese assistiamo, abbiamo assistito e ci stiamo opponendo a un sempre maggiore aumento di transito di materiale bellico americano.
L’ultimo esempio, risalente a circa un mese fa, vedeva presente su una nave charter americana, 12 Jeep con sistemi d’arma attivi sopra. Il blocco di questa nave nello specifico ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica e ha messo in luce il fatto che gli enti di controllo non controllino. Questo blocco, inoltre, ci ha portato ad avere una risonanza mediatica non indifferente e da quel momento un gruppo di avvocati e professori universitari di tutta Italia si è proposto di sostenerci da un punto di vista più avanzato, perché noi siamo sul campo e ci mettiamo materialmente davanti alla nave che traffica armi.
La scorsa settimana abbiamo intrapreso un percorso per presentare un emendamento all’obiezione di coscienza e per utilizzare al meglio lo strumento dello sciopero in questo contesto.
Vogliamo ampliare lo spettro dell’obiezione di coscienza per far sì che anche il singolo lavoratore autonomo possa incrociare le braccia senza avere paura di ripercussioni. Sicuramente è un percorso difficile, non privo di strumentalizzazioni.
La strumentalizzazione politica però tiene sempre alta l’asticella perché abbiamo notato che le aziende che trafficano armi non vogliono farlo sapere alla società civile.
I marsigliesi del Porto Fos hanno messo in evidenza e dato uno strumento a tutti noi sul come anche i traffici di armi sono soggetti alle logiche economiche perché la nave che hanno bloccato aveva a bordo circa 1500 contenitori non identificabili dall’esterno e solo 3 sono stati fermati e arrestati a terra e che i portuali autonomi non hanno fatto salire sulla nave. È questa, secondo noi, la chiave di volta, perché la nave quindi è partita senza quei tre contenitori.
Noi abbiamo la fortuna di essere lì e di vedere cosa c’è dentro il contenitore e di scegliere se farlo restare a terra però senza di voi il nostro lavoro diventa più complicato.
Ora è il momento di prendere una posizione. Lo stato italiano, L’Europa e la Nato vanno in controtendenza e siamo noi in primis come società civile e lavoratori che dobbiamo prendere una posizione. La loro posizione penso sia ben chiara: guerra, sterminio e abolizione di ogni forma di diritto. Il DDL non è venuto fuori dal nulla, è un banco di prova essenziale per limitare qualsiasi forma di dissenso. Poi arriverà il momento in cui vedremo carri armati che passano per le strade, la militarizzazione del territorio, la presenza costante di militari nelle scuole e allo stesso tempo vedi lo stipendio diminuire sempre di più e il sistema sanitario pubblico collassare.
Arriverà il momento in cui non basta più prendere una posizione, ma bisognerà anche passare all’azione. Noi questa cosa la stiamo già facendo perché abbiamo la fortuna di lavorare nel campo logistico. Se insieme si collabora e ci si dà informazioni, ci si struttura e si cresce.
Il lavoro che fa Weapon Watch per noi è fondamentale ed è grazie a queste organizzazioni di tracciamento e identificazione delle filiere belliche e della loro collaborazione che riusciamo a fare ciò che facciamo. Abbiamo costruito un manuale di tracciamento facile grazie alla tecnologia. Ora chiunque con un cellulare può tracciare qualsiasi nave nel mondo. Basta sapere la nave. A breve avremo il modo per dare l’accesso a tutti a questo manuale, così magari ognuno può fare una segnalazione.
Inoltre stiamo ricostruendo la filiera che fra Italia e Unione Europea coinvolge 250 industrie direttamente collegate in campo bellico e aziende che producono componentistica bellica.
Con questa ricostruzione che stiamo facendo e la mappatura a livello nazionale di dove sono dislocate, riusciamo a identificare quali sono i porti di smistamento. Grazie a questo lavoro che stiamo portando avanti e che si spera a breve riusciremo a mettere in pubblico, cerchiamo di dare più strumenti possibili a chi vuol fare qualcosa.
D’altro canto chiediamo a chi vuol fare qualcosa di contattarci. Ci sono altri portuali in altri porti che si stanno strutturando in forma autonoma. In forma autonoma perché purtroppo le grandi organizzazioni sindacali confederali non ci sono.
Io ringrazio ancora tutti la disponibilità e rimaniamo in contatto.
Vorrei soffermarmi sull’importanza di organizzarsi e creare una rete di informazioni perché come diceva il compagno di Weapon Watch, bloccare le navi è un granello di sabbia nell’ingranaggio. L’azione di noi portuali, come resistenti, è anche il creare una rete che rallenti questa macchina in modo da rendere sconveniente la circolazione di tali merci sul nostro suolo. Questo ce l’hanno insegnato Marsiglia e Montichiari.
Dobbiamo creare una rete in cui ognuno di noi può mettere quel granello per bloccare l’ingranaggio della guerra perché tutti insieme la possiamo fermare. Dobbiamo farlo per chi ha dato la vita per renderci persone privilegiate quali siamo, che ha scritto la Costituzione sottolineando chiaramente che ripudiamo la guerra. Ed è da questo principio fondamentale che dobbiamo partire: la guerra è sbagliata e non esiste difesa.
La guerra nei territori
Movimento No Base
Faccio parte del movimento No Base – né a Coltano né altrove. Per chi non lo conoscesse, è nato a Pisa contro il progetto di una nuova base militare per i reparti GIS e Tuscania che inizialmente era prevista a Coltano, e in seguito alla mobilitazione cittadina inizialmente spostata all’interno del Parco di San Rossore tra Pisa e Marina. Questo nuovo progetto prevede una base che sia all’interno di un’altra base già presente abbandonata all’interno del parco che oltre a contenere svariate migliaia di alberi comprende anche un ex reattore nucleare, il CISAM. Sarebbero 140 ari di territorio, che sono circa 200 campi da calcio da 11. Stiamo parlando quindi di deforestazione e di cementificazione di una zona molto ampia che provocherebbe un danno ecologico incalcolabile per il nostro territorio e per le persone che lo abitano.
Questa base militare nascerebbe in un territorio già ampiamente militarizzato: tra Pisa e Livorno è già compresa Camp Darby, la base militare americana dedicata al contenimento di munizioni più ampia all’esterno degli Stati Uniti. Oltre a questo ci sono le sedi della Leonardo, sia amministrative che industriali e l’aeroporto militare di cui solo una piccola parte è stata concessa all’uso civile.
Questo territorio militarizzato ha un compito molto preciso, una connessione va dal porto di Livorno alla ferrovia diretta verso la base di Camp Darby e all’aeroporto militare, da dove esportano armi in tutto il mondo.
La base è dedicata a due forze speciali dei carabinieri: i GIS, che sono il gruppo di intervento speciale che è nato negli anni ‘80 per sedare proteste carcerarie dei detenuti politici e che da allora è attivo sia all’estero che nel territorio interno; e poi Tuscania, I reggimento dei paracadutisti dei Carabinieri, gruppo fortemente specializzato che opera nella regione del Mediterraneo allargato, che comprende tutta la costa del Mediterraneo, ma anche il Medio Oriente, il corno d’Africa, e che attuano politiche contro le rotte migranti, di addestramento della Guardia Costiera, proteggendo gli interessi e gli stabilimenti di Eni nelle acque internazionali, anche in Mozambico. Inoltre, fanno anche addestramento di forze militari e paramilitari se non intervengono direttamente negli svariati conflitti. Un esempio è quello in Somalia in cui si sono macchiati di gravi crimini di guerra e di torture che sono state documentate. Inoltre sono anche coinvolti nel conflitto in Palestina dove collaborano con l’esercito israeliano e si addestrano con esso.
Questa base rappresenta dunque un ulteriore impegno militare su questo territorio, e di conseguenza politico nelle nostre città e nelle nostre università. Noi come movimento No Base cerchiamo di portare chiarezza sulle dinamiche che applicano questi centri militari sul nostro territorio. Ripetiamo sempre che le guerre non scoppiano, le guerre si costruiscono e si costruiscono partendo dai territori ed è questo che viene costruito a Pisa, non solo una base militare, ma una perpetuazione di questi crimini di distruzione e di usurpazione di territori.
Questa assemblea ha posto punti molto importanti sulle prospettive di lotta. Tre anni fa abbiamo fatto una mobilitazione da 10.000 persone che ha prodotto il ritiro e poi la ricollocazione di questa base. Tuttavia questo non è sufficiente, noi abbiamo l’obiettivo di fermare questo progetto e di bloccare questa base. Ancora non sono iniziati i lavori e noi stiamo cercando di organizzarci in modo tale da esserci sul nostro territorio ed unire tutte le persone che sono contrarie a questo ennesimo progetto di devastazione, di militarizzazione e di spreco di denaro pubblico (520 milioni di euro).
Questo lo facciamo direttamente lì a San Piera Grado dove è previsto il progetto, un’altra parte invece è prevista su Pontedera dove è stato creato il presidio di pace dei Tre Pini. Il presidio ha l’obiettivo di monitorare il territorio e organizzare le mobilitazioni per immaginare l’alternativa che merita il nostro territorio, già fragile per la presenza di discariche e zone devastate da inceneritori. Sono terre dove c’è stata una progressiva privazione di servizi e di opportunità per poi compensare con la promessa di posti di lavoro. Pensiamo che con quei fondi si possa immaginare un’idea di occupazione diversa.
Noi ci stiamo interrogando su questa alternativa perché è anche un tema importante. Per noi deve significare concretamente una trasformazione della decisionalità che possiamo avere sui territori. Esiste una serie di Punti no base dove la cittadinanza vuole organizzarsi su ragionamenti e iniziative. Vogliamo organizzarci perché siano le persone a poter decidere cosa ci vuole al posto di quel cantiere.
Un’altra maniera con cui ci organizziamo sono i laboratori all’interno delle scuole, proprio per ragionare in contrasto a questo tipo di di militarizzazione. L’obiettivo comune complessivo è avere le condizioni di poter bloccare questa base.
Il piano complessivo è nazionale e tende alla trasformazione dell’Italia in una piattaforma di guerra, al servizio della NATO e degli Stati Uniti. Ed è per questo motivo che ci vogliamo organizzare per stoppare questo ennesimo progetto. E ringrazio ancora tantissimo per questa iniziativa e continuiamo così.
PARTE IV
Riportiamo due interventi dal pubblico utili ad affinare lo sguardo per visualizzare tutti i tentacoli della macchina bellica e per ulteriori prospettive di riflessione.
Dall’automotive all’aerospace: opporsi alla riconversione in atto
Collettivo di fabbrica Tubiflex
Sono un delegato della Fiom e un operaio che lavora da 5 anni in Tubiflex, un’azienda metalmeccanica a Mirafiori. Produciamo tubi in metallo per vari settori, come automotive, portuale e soprattutto aerospazio.
Non soffriamo della cassa integrazione proprio perché la produzione è diversificata in vari settori; assistiamo però al processo di riconversione dall’automotive agli armamenti, perché il nostro reparto aerospaziali ha visto crescere molto gli investimenti negli ultimi anni a discapito di quello automotive. La manutenzione ai macchinari è minima, mentre il carico di lavoro e psicologico sui lavoratori è notevole.
In questo contesto noi stiamo cercando di ricostituire il collettivo di fabbrica che era presente fino ai primi anni 2000, perché abbiamo bisogno di organizzazione e metodo per far fronte alla terza guerra mondiale. Pensiamo infatti che non sia una minaccia futura, ma qualcosa che è già in atto, e il nostro dovere è quello di opporci. Per questo il mese scorso abbiamo lanciato una piccola iniziativa, che vediamo come l’inizio di un processo. Si è trattato di una camminata aperta a tutto, chiamata “la passeggiata che unisce”, durante la quale abbiamo fatto un passo collettivo verso il ristabilire un dialogo sia interno alla nostra realtà che rivolto verso altre aziende esterne. L’obiettivo infatti è quello di fare rete durante occasioni di confronto come questa, che non sarà l’unica.
Dopo l’estate vorremmo infatti organizzarne un’altra, l’idea è quella di un grande torneo di calcetto che porti molte persone a convergere in quel momento. L’obiettivo finale è fare rete non solo tra aziende di Torino e cintura o del Piemonte, ma di tutta Italia, perché i componenti che produciamo sono per grandi aziende nazionali (Leonardo, Avio, Fincantieri, FBT). In questo modo vorremmo scambiarci contatti, strumenti di lotta e avviare un percorso più ampio possibile, sul modello di quello dei portuali.
Partendo dal piccolo vorremmo cominciare a limitare la nostra produzione di componenti bellici e coinvolgere poi gli operai di altre aziende ai quali ci appelliamo a partire da questa prima occasione di incontro che è il torneo. Sappiate che anche se la ricerca, progettazione, produzione e trasporto di armi sembra una macchina inscalfibile e ben oliata, essa è in realtà molto delicata e può essere fermata intervenendo in modo strategico. Non servono iniziative enormi per fermare quest’industria di morte, basta cominciare a fare rete e a creare strategie comuni.
Salvare la scuola: studenti e professori uniti contro il disciplinamento
Kollettivo Studentesco Autonomo (KSA) Torino
Io sono qui in quanto studente delle scuole superiori. Negli ultimi mesi c’è sempre una maggiore interazione tra studenti e professori all’interno delle scuole. Si tratta di un periodo significativo, caratterizzato da moltissimi piani di cambiamento, come ad esempio per i piani di accorpamento tra istituti che sono frutto diretto dei tagli crescenti. Questi piani sono a partire già dal 2026 e prevedono l’accorpamento di istituti con indirizzi totalmente diversi e spesso anche distanti geograficamente l’uno dall’altro.
Come studenti ci siamo mobilitati durante l’intero anno, per opporci alla guerra e al genocidio in Palestina. Le manifestazioni studentesche hanno portato a momenti di dibattito interni alle scuole, oltre a un momento più allargato a fine anno che è stato lanciato dai professori. Queste iniziative dimostrano la crescente efficacia comunicativa e organizzativa in vista del prossimo anno. Anche il livello della lotta dovrà crescere, per essere all’altezza di quanto accade dentro e fuori la scuola, con cambiamenti rapidissimi e sempre più impattanti sulle nostre vite.
Tra gli esempi da citare troviamo le riforme sul voto di condotta, che sono parte di un percorso di maggiore “disciplinamento” nelle scuole; borse di studio dedicate alle carriere in divisa; direttive per i dirigenti scolastici volte a reprimere qualsiasi voce di dissenso. La linea unica di pensiero viene calata dall’alto dai ministri dell’istruzione e della difesa, che vanno sempre più a braccetto nel costruire una scuola indecente.
CONCLUSIONI
Questa giornata per l’assemblea di Stop Riarmo è stato un primo passo per costruire un percorso collettivo, un primo momento in cui ragionare collettivamente di quello che si può fare – concretamente – per fermare questa escalation. Una prima tappa che intende partire da un punto fermo: ovvero che il riarmo non lo vogliamo e su questo siamo tutti e tutte dalla stessa parte.
La prospettiva è quella di sviluppare un percorso sul medio – lungo periodo, in modo da costruire le condizioni per coinvolgere chi ancora non si sta attivando, mantenendo aperto lo spazio del confronto – non nell’ottica di definire una sintesi sul piano dell’analisi geopolitica – ma con l’obiettivo di mettere in pratica iniziative e attivarsi per bloccare la guerra sui nostri territori, nei nostri quartieri, nella nostra città. Come è emerso dai vari interventi, la questione del riarmo è pervasiva in quanto tocca ogni ambito e ogni aspetto delle vite delle persone, l’apparato scolastico e universitario, la sanità pubblica, la salvaguardia dei territori già in grande sofferenza, il mondo del lavoro, sempre più precario e in continua crisi.
Per tutti questi motivi il percorso di Stop Riarmo intende ripartire dall’autunno per mobilitarsi, rimuovere il senso di impotenza, rimuovere la frammentazione che ci inibisce.
L’unico modo per fermare il riarmo è fermarlo partendo dalla nostra città, dove abitano i burattinai della guerra: dal Politecnico, a Intesa San Paolo, a Leonardo e tutte le altre aziende belliche.
Da qui in avanti, ogni occasione, ogni iniziativa sarà un momento buono per ribadire la contrarietà al riarmo e l’importanza di coordinarsi per contrastarlo. Ogni azione che andrà in quella direzione aggiungerà un tassello a una mobilitazione più larga, in grado di contrastare – nell’effettivo – l’avanzare della guerra a scapito delle reali esigenze di tutti noi.
QUI l’opuscolo scaricabile in pdf
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