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Oltre gli schiavi e i caporali: Riflessioni sullo sfruttamento nella filiera agro-industriale

Quando giornalisti, sindacalisti e politici affrontano questo argomento, in maniera del tutto superficiale e spesso senza reale conoscenza della questione, denunciano forme di schiavitù e di caporalato. Posto in questi termini, il discorso ritrae il lavoro stagionale nelle campagne come se fosse il frutto di un “ritardo storico”, un frammento arcaico che non ha nulla a che vedere con la modernità circostante. Il lavoro bracciantile, caratterizzato da precarietà assoluta, ricattabilità estrema e iper-sfruttamento, è invece perfettamente contemporaneo: esso rappresenta appieno, in forma esasperata, il funzionamento del mercato del lavoro neoliberista, in cui una manodopera just-in-time viene ingaggiata senza badare a tutele, vincoli o regole. Peraltro è l’apparato istituzionale stesso a promuovere la deregolamentazione del mercato del lavoro e della produzione, attraverso strumenti come la legge Fornero o il Jobs Act, per citare soltanto le disposizioni più recenti, passando per decreti come quello di “Campo Libero”, specifico per il settore agricolo. Il ministro per le Politiche Agricole, Maurizio Martina, insieme al Ministro del Lavoro Giuliano Poletti e a tutti i partecipanti al vertice nazionale sul caporalato tenutosi lo scorso 27 agosto, rivendicano come soluzione questo decreto, quando in realtà esso costituirà un nuovo ostacolo ad un reale cambiamento. I partecipanti al vertice, infatti, promuovono attraverso il decreto in questione la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, che prevede l’esenzione dai controlli per le aziende aderenti – unico requisito quello di non avere subito sanzioni in precedenza. Campo Libero davvero, ma allo sfruttamento selvaggio e autorizzato.

Nell’ottica di questo neo-liberismo galoppante, parlare di schiavitù come fanno molti è fuorviante: la manodopera impiegata nella produzione agro-industriale è salariata e non schiava. Il bracciante non è proprietà di chi lo sfrutta, come avverrebbe nel caso della schiavitù, bensì affitta a questi la sua forza-lavoro. Tale distinzione non è questione meramente linguistica o formale. Il proprietario di uno schiavo, avendo ‘investito’ del denaro nell’acquisto di forza-lavoro, ha interesse a che quel particolare soggetto, di sua proprietà, sopravviva e quindi frutti il più possibile. D’altro canto, quando un datore di lavoro ingaggia manodopera a giornata ha a disposizione un bacino in continua crescita di forza-lavoro iper-precaria ed ultra-ricattabile, da cui può attingere a piacimento. Questa enorme disponibilità di manodopera è conseguenza della crisi economica, delle politiche migratorie e di allargamento dell’Unione Europea, così come dell’impoverimento di interi continenti da parte dei grandi capitali e dei loro sostenitori politici, impoverimento che passa anche attraverso le guerre più o meno ‘umanitarie’. Ragion per cui, cinicamente, morto un bracciante se ne ingaggia un altro.

La campagna mediatico-politica in corso tende, inoltre, a ridurre la responsabilità dello sfruttamento dei e delle braccianti al solo caporalato. Questo viene presentato come l’elemento che distorce un sistema altrimenti sano, occultando un fatto tanto banale quanto scomodo: il caporalato è un anello della catena di sfruttamento del settore agro-industriale, che parte dalla grande distribuzione organizzata passando per le industrie di trasformazione e i commercianti, i quali di solito hanno il controllo delle organizzazioni dei produttori. Per chi trae realmente profitto dalla filiera agro-alimentare, il caporale è funzionale al reclutamento e al controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, né più né meno di quanto lo siano forme legali di intermediazione di manodopera, quali possono essere le agenzie interinali o le cooperative, che operano in agricoltura come in tutti i settori. Criminalizzare il caporale, bersaglio mediatico perfetto (soprattutto se straniero), rappresenta un comodo espediente adottato trasversalmente anche da quelle forze, come i sindacati confederali, che nominalmente difendono gli interessi di lavoratrici e lavoratori. Il dito puntato da giornalisti e politici contro i caporali segue la stessa logica che mette all’indice gli scafisti: gli uni e gli altri vengono denunciati come la causa prima di tante morti. In questo modo, si nascondono le responsabilità istituzionali e di chi si arricchisce grazie al “servizio” che queste figure prestano. È colpa degli scafisti se i e le migranti muoiono in mare, non certo delle politiche imperialiste europee che impoveriscono i paesi del Sud e che privano di qualsiasi legittimità e diritto chi tenta di raggiungere le coste del continente. È colpa dei caporali se i e le braccianti ricevono paghe da fame per turni di lavoro massacranti, vivendo in abitazioni fatiscenti senza acqua né luce, non certo dei padroni delle aziende agricole, delle industrie di trasformazione e della GDO che fanno profitti sul loro sfruttamento.

Non a caso, i rappresentanti della trasformazione e distribuzione su larga scala in questi giorni hanno avuto gioco facile nel declinare qualsiasi responsabilità per le morti sul lavoro, protestando il fatto che agiscono in piena legalità e per il mantenimento di prezzi bassi al consumo, quando in realtà realizzano profitti in continua crescita a dispetto della crisi. Secondo l’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali), nel 2014 il giro d’affari della conserva di pomodoro è cresciuto del 3,6 per cento e si è attestato a 1,5 miliardi di euro. Sempre per quanto riguarda il pomodoro, emblematico è il caso di Princes, colosso multinazionale dell’agroalimentare che in provincia di Foggia trasforma la metà di tutta la produzione di pomodoro di Capitanata, con una lavorazione di circa 300.000 tonnellate di pomodoro fresco l’anno. L’azienda specula sul peso dei cassoni di pomodoro obbligando i trasportatori (spesso ingaggiati da cooperative o agenzie interinali, o in alcuni casi direttamente dipendenti di Princes stessa) a tempi di attesa per lo scarico superiori alle 24 ore, in modo che il pomodoro marcisca e perda di peso, cosicché si abbassi il prezzo che la trasformazione paga ai produttori. I trasportatori, pagati 40 euro a viaggio, sono i primi a subire i sotterfugi di Princes, ai quali nelle ultime settimane hanno reagito con blocchi e proteste.

È ovvio che di questo gioco risentono gli anelli più deboli della filiera, a partire proprio dai braccianti che raccolgono i cassoni di pomodoro. In un documento di qualche giorno fa, abbiamo riportato la voce di alcuni lavoratori migranti, i quali denunciavano la morte di un bracciante maliano che risiedeva nell’ormai celebre Grand Ghetto alle porte di Foggia. A prescindere dalla fondatezza della notizia, e al di là del clamore mediatico, bisogna dire chiaramente e con forza che il lavoro nei campi di pomodoro uccide – per il troppo sforzo, per le paghe misere e il sistema del cottimo, per l’assenza di garanzie minime, per l’esposizione ad agenti chimici o per aver ingerito acqua non potabile. Uccide all’improvviso o lentamente, in maniera silenziosa, giorno dopo giorno, logorando i corpi di chi si spezza la schiena sotto il sole per 10-12 ore al giorno.

Gli enormi profitti delle multinazionali del cibo si reggono sulla miseria, la precarietà e la ricattabilità dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma denunciare questo sistema non basta. Nell’anno dell’Expo dedicato all’alimentazione, è quantomai urgente e necessario mobilitarsi per porre fine allo sfruttamento che nutre solo i ricchi del pianeta.

 

tratto da CampagneInLotta

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