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Oltre i Referendum: una sconfitta da capire

Mentre ancora i seggi erano aperti andava in scena il classico psicodramma della “sinistra”

Le solite accuse contro il popolino crasso e ignorante, la solita manfrina sull’assenza di coscienza civile in questo paese, i piagnistei per la mancata copertura mediatica. Che il raggiungimento dei quorum ai Referendum fosse improbabile, se non impossibile, lo avevamo già scritto. In tanti di coloro che si sono recati alle urne e che hanno sostenuto, nonostante tutte le riserve, la necessità di votare “sì” avevano avvertito che le modalità in cui si era arrivati a questa tornata referendaria avrebbero potuto rivelarsi controproducenti. 

Negli ultimi giorni alcuni, alla luce degli entusiasmi nelle nostre bolle social, iniziavano a credere che un buon risultato, se non una vittoria, fosse possibile. Ma come al solito le nostre bolle sono limitate e continuano ad offrire visioni distorte della realtà, alimentano i convincimenti di chi è già convinto. 

Potremmo perdere ulteriore tempo a ripetere quanto già abbiamo espresso nel nostro editoriale ed in altri articoli cioè che un referendum del genere senza la mobilitazione di massa dei lavoratori e delle lavoratrici, senza una radicalità e chiarezza dei quesiti, promosso dalle stesse organizzazioni che hanno introdotto il Jobs Act o che al tempo della sua introduzione sono rimaste quasi silenti non aveva speranza. Potremmo dire che quella che doveva essere una passerella elettorale di lancio della nuova leadership della sinistra istituzionale e la conta degli elettori da far pesare sui rapporti di forza con il governo si è trasformata nel solito boomerang. Si vedano i festeggiamenti della destra che subito sono partiti all’attacco di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che esistono nel nostro paese.

Sono evidenze su cui non vale la pena di tornare. Quello che ci interessa è capire meglio cosa ci insegna questa sconfitta, partendo dai pochi dati che ci sono finora.

Il numero complessivo di coloro che si sono recati alle urne è di circa 15 milioni, secondo i conti del PD circa 13 milioni sono coloro che hanno votato sì ai quesiti. Il governo Meloni è stato eletto con 12 milioni di voti, ma se il centro-sinistra si illude che quei quasi due milioni di votanti in più che hanno detto sì rispetto ai magri risultati delle politiche siano automaticamente voti messi in cascina si sbaglia. Moltissimi sono andati a votare nonostante il centrosinistra, il sindacato e le loro tristi parole d’ordine.  

Sud e Nord: il paese spaccato

Uno dei temi ricorrenti su cui si stanno soffermando molti di coloro che commentano i risultati di questo Referendum è la scarsissima affluenza nelle regioni meridionali. In Sicilia ha votato il 23,10%, in Calabria il 23,82%, in Molise il 27,70%.

Questo dato particolarmente drammatico riflette la spaccatura sempre più profonda che esiste nel nostro paese, ma non dovrebbe stupire per almeno due motivi.

In primo luogo i quesiti che avrebbero dovuto abrogare parti del Jobs Act riguardano gli interessi materiali di chi un lavoro ce l’ha. Non solo: chi ce l’ha ed è regolato da un contratto. In Calabria, una delle regioni con la più bassa adesione al voto, il tasso di disoccupazione nel 2023 era al 16,2% a fronte di una media nazionale del 7,7%. Il numero dei giovani che non studiano e non cercano attivamente lavoro (i cosiddetti Neet) si aggira intorno al 40% e tra chi lo cerca la disoccupazione giovanile ha toccato punte del 35,2%. Lo stipendio medio annuo si aggira intorno ai 14mila euro, quasi la metà rispetto ad alcune regioni del Nord. Tra coloro che sono impiegati il 19,6% dei lavoratori era in nero secondo uno studio del 2021, mentre la media nazionale era di circa l’11,3%. Molti altri sono impiegati con forme contrattuali aberranti e con dinamiche di ipersfruttamento all’interno delle aziende. Si capisce che i quesiti proposti dal referendum per una grande parte del proletariato meridionale sono un lontano miraggio, i problemi concreti si articolano secondo diverse scale di priorità.

Questo senza considerare che le file dei fuorisede che hanno riempito i pochi seggi affollati dello stivale in una buona parte sono quei e quelle giovani in fuga da un Sud sempre in più profonda crisi demografica. Crisi demografica che a sua volta pesa su una dinamica elettorale come un referendum. 

In secondo luogo per chi rimane non c’è alcuna aspettativa ascendente, nessuna speranza nelle dinamiche tradizionali della partecipazione, nessun ascensore sociale, nessuna fiducia nella politica come strumento per risolvere i problemi, neanche ormai più nelle clientele. Con la crisi del Movimento 5 Stelle a crescere esponenzialmente è solo l’astensione.

E’ necessario fare i conti con questi duri dati di realtà se si vuole provare a ricostruire dei percorsi di emancipazione nel nostro paese. Le formule tradizionali della politica non funzionano. Eppure qui e lì il paesaggio del Meridione continua ad essere punteggiato di lotte, conflitti sociali, tentativi di ricostruire legami sociali che molto spesso trascendono la politica istituzionale, ma anche quella di movimento. Serve una riflessione profonda su questa assenza di prospettiva.

D’altro canto dai dati si ha l’impressione che emerga anche un altro tipo di astensione su base geografica, cioè quella delle regioni “ricche” del Nord-Est: il Trentino raggiunge il dato più basso in assoluto, con il 22,70%, in Veneto l’affluenza si ferma al 26,21%. Oltre alla forza delle destre su questi territori sarebbe da chiedersi se esistono motivazioni più profonde per questo voto legate ai particolari rapporti industriali che sussistono su questi territori.

Centro, periferie e cinture

Le performance migliori si registrano invece in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria. Anche in queste regioni i quesiti referendari non raggiungono il quorum, ma si evidenzia una partecipazione più massiva. Se in Toscana ed Emilia-Romagna ci si può appellare alla tradizione rossa, per il Piemonte e la Liguria il discorso è un po’ differente: entrambe queste regioni sono ormai da lungo tempo amministrate dal centro-destra. 

Guardando più a fondo i dati ciò che si nota è che l’affluenza più significativa è all’interno delle città metropolitane capoluogo di regione, ma i picchi di partecipazione sono nei comuni delle cinture. E’ il caso di Torino dove l’affluenza nel comune è del 41,37%, ma le performance migliori nella provincia sono di Candiolo (46,05%), Collegno (44,86%), Grugliasco (45,10%), Piobesi (44,72%), Trofarello (43,11%), Villastellone. Molti altri comuni della cintura hanno risultati simili o leggermente al di sotto delle performance cittadine in termini di affluenza. In Val di Susa i risultati sono quasi ovunque sopra la media della città. Se invece ci si concentra su Torino città l’affluenza è stata molto alta nella Circoscrizione 1, quella del centro, nella Circoscrizione 4 (San Donato, Parella e Campidoglio) e nella Circoscizione 7, zona dove vi sono le sedi delle università umanistiche (Aurora, Vanchiglia, Sassi, Madonna del Pilone). Nella periferia Sud di Torino (San Paolo, Mirafiori, Santa Rita, Nizza Lingotto ecc…) ci sono stati risultati più o meno nella media della città, tra il 41 ed il 43%, mentre nella periferia Nord i risultati sono stati molto al di sotto della media: Vallette, Lucento, Madonna di Campagna sono intorno al 35%, Barriera, Falchera e Regio Parco addirittura al 32%. Questi sono i quartieri di Torino in maggiore sofferenza dal punto di vista sociale, più segregati, dove la guerra tra poveri sta assumendo forme più esplicite e dure con la destra che soffia sul fuoco.

Dinamiche simili si sembrano intravedere in altre grandi città dove l’affluenza è stata elevata, con naturalmente delle variazioni legate a specificità territoriali. L’impressione che si ha è che vi sia un voto d’opinione degli ormai tradizionali elettori del PD nel centro città, una astensione massiccia in quei quartieri di periferia dove risiede quella parte di proletariato più precario, meno garantito, disoccupato e migrante. Vi è poi la fascia della cintura dove risiedono le fabbriche distrettuali, dove si sviluppa l’indotto manifatturiero e logistico, qui l’affluenza torna ad essere significativa, a volte maggiore delle città.

Dunque si può avanzare l’ipotesi che un voto operaio ci sia stato almeno in alcune aree e sia stato significativo anche se non maggioritario, ma altre parti della composizione proletaria hanno disertato le urne non cogliendo come centrali, al di là degli schieramenti ideologici questi quesiti. Quesiti che invece hanno mobilitato probabilmente molto nel terziario (basso e alto), nei servizi, nelle cooperative dove le caratteristiche del mercato del lavoro sono particolarmente soggette ai contenuti delle norme del Jobs Act che si volevano abrogare.

Cittadinanza

Non si può non dedicare un capitolo specifico al quinto referendum, quello sulla cittadinanza dove i “sì” si sono fermati al 60% contro l’80% degli altri quesiti. Questo referendum in particolare è stato accompagnato da una mobilitazione genuina e dal basso di collettivi, associazioni e società civile che ha avuto il merito di riuscire a porre il tema nel dibattito pubblico.

Questo risultato è anch’esso lo specchio di quanto il razzismo strutturale, la guerra tra poveri e l’inclusione differenziata scavino dei fossati volti a dividere e gerarchizzare il proletariato. E’ di per sé indicativo che i principali portatori d’interesse rispetto a questo referendum non possano votare: la fotografia plastica del fatto che una parte della popolazione, nonostante lavori, studi e viva in questo paese venga tenuta artificialmente in un regime di non-cittadinanza, che per i padroni e gran parte della politica deve durare il più possibile, in maniera di poter avere un’arma di ricatto permanente.  Sfidare questi dispositivi non è affatto semplice, ma ci sembra che da molte parti stia emergendo una soggettività propria, politica di giovani e giovanissimi con un passato migratorio che elaborano e pongono la propria agenda autonomamente all’interno della società. E’ necessario favorire e lasciare spazio a questi processi senza pretendere che maturino immediatamente in forme di conflittualità sociale avanzata. In questo caso il passaggio del Referendum è da valutare positivamente al netto delle griglie ideologiche che ci possiamo portare dietro in termini di critica al concetto di integrazione ed inclusione. E’ una presa di parola politica dei diretti interessati e non è poco nell’abulia della contemporaneità. 

Alla luce di questo risultato è sempre più centrale il tema della ricomposizione di classe, è necessario interrogarsi su quali vettori concreti e materiali è possibile rompere i meccanismi di gerarchizzazione del proletariato, dentro quali dinamiche è possibile costruire non solo l’alleanza tra soggetti politici, ma quella tra settori sociali.

Conclusione

Anche se sembra che niente stia succedendo, qualcosa continua ad accadere.

Al netto dei piagnistei e dei teatrini della politica questo referendum va pensato come un’altra occasione per capire cosa c’è da fare, quali ragionamenti dobbiamo approfondire, quali percorsi concreti dobbiamo praticare per uscire dalle secche. Un’analisi più profonda di questi dati, che qui abbiamo solo accennato a caldo, può fornirci qualche strumento in più per comprendere i meccanismi di disgregazione sociale e dove invece si presentano delle possibili rigidità, ma solo un lavoro d’inchiesta costante ed approfondito può farci fare dei passaggi qualitativi nella produzione di proposte organizzative all’altezza. Quelle che abbiamo elencato qui sopra sono solo delle ipotesi che vanno verificate sul terreno delle lotte, sono impronte nella neve. La sinistra istituzionale sta provando strumentalmente a ricostruirsi una legittimità politica appropriandosi elettoralmente di parole d’ordine e terreni praticati dal conflitto sociale. Non possiamo né chiuderci in posizioni minoritarie, né farci trascinare a fondo con l’ennesima illusione di rinnovamento di una sinistra finita da tempo. Dobbiamo smettere di guardare il mondo attraverso le distorsioni della nostra bolla, pensare che basti “ri-mobilitare” il popolo disperso della sinistra. Oggi come oggi non importa solo difendere le lotte che ci sono e quelle che ci sono state, ma puntare lo sguardo verso quelle che verranno. Dobbiamo essere pronti a sporcarci le mani, a scavare come quella famosa e vecchia talpa.

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