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Testimonianza di uno sgombero a Milano: casa per tutti/e!

Mi ripetevo spesso: ho 32 anni, il tempo passa, ma di figli non voglio sentirne parlare.

Poi vivo con lui in una casa occupata, una scelta voluta…dovuta, ma con  il lavoro precario che frena qualsiasi slancio di quel tipo, perché ogni tanto ci pensi ad un figlio e quando ci pensi ti dici spesso NO ma tante altre volte spesso “perché no”…

Ci ho messo un po’ a decidermi a fare il test: nutrivo recondite speranze che fosse un falso allarme. Poi una mattina in quel minuscolo bagno di un’occupazione al terzo piano, prima di andare a lavoro, vista la motivata insistenza del mio compagno, l’ho fatto…e senza nemmeno contare fino a tre è apparso il risultato: positivo!

Il mio primo pensiero? “No! E adesso? Che palle!”

Eh, sì… io ho pensato questo nonostante insegni e nonostante stia a contatto con i bambini 9 mesi su 12! Mentre il mio compagno ha accolto la notizia festante.

Ero titubante perché sapevo benissimo che, qualora io avessi detto al lavoro del mio stato, sarei dovuta rimanere a casa da subito in quanto le insegnanti di sostegno vengono considerate a rischio in questi casi.

Cosi ho tenuto la notizia per me (e lui), ho continuato incoscientemente a tirare su bambini e a fare fatica, non mi sono risparmiata, mi sentivo forte.

Fino a quando, una mattina di Aprile, al quinto mese mi accorgo di avere delle perdite e di avere le contrazioni. Sono stata colta dalla paura…non sapevo cosa fare!

Forse solo in quel momento ho realizzato quanto fossi già attaccata a quella bambina, a quel cuoricino che avevo sentito battere ad ogni visita, potente come non mai. Avevo paura di perderla.

Ho percorso tutta la strada verso il pronto soccorso in silenzio tenendo la mano di lui, sono entrata da sola in ambulatorio sperduta, ho fatto subito l’ecografia e subito durante questa ho sentito il cuore battere e ho pianto. Era stato solo un modo per dirmi: “dai mamma, per favore, abbi più cura di me”

Sono seguiti riposo e medicine da prendere, astensione obbligatoria da lavoro. Il referto parlava chiaro: “gravidanza a rischio”. Da quel momento in poi l’unica cosa che conterà è che tua figlia stia bene.  Tutto il resto è superfluo.

E così cominci ad aspettare ore interminabili ai controlli. Varchi con ansia ogni volta la porta dell’ospedale, rifai analisi dubbie e aspetti ore perché il medico le veda e sei sempre li sul filo del rasoio, ma sei fiduciosa. Fiduciosa fino a quando, svegliata dal torpore in cui entri quando scopri d’essere mamma, realizzi di nuovo che vivi in una città repressiva, dove non esiste il diritto all’abitare e gli sgomberi sono all’ordine del giorno e che tutelare quel piccolo cuore che batte diventerà sempre più difficile.

Il 26 maggio 2015 le mie preoccupazioni prendono forma.

Arriva la Digos, con MMA al seguito, bussano alla nostra porta alle 8 del mattino e ci sbattono fuori. Nessuna trattativa sembra possibile, sono irremovibili anche davanti alla mia gravidanza a rischio. A nulla valgono le certificazioni dell’ospedale.

Il dottore che li accompagna decide che posso tranquillamente sostenere lo sgombero e loro procedono. 4 ore interminabili dove ho dovuto impacchettare due anni delle nostre vite e parte del nostro futuro. Scatoloni su scatoloni che viaggiavano per le scale, l’ansia crescente e la mia bambina agitata come non mai.

Il dispiegamento di celere era massiccio, in quantità tale da rendere impossibile un qualsiasi intervento diretto dei e delle solidali volto ad impedire lo sgombero.

Rimango stupita dalla presenza di  tante facce nuove, tanti sbirri in borghese, anzi tantissimi, quasi quanto i celerini. Ed è nel momento stesso in cui lasciamo la casa che la situazione si intesisce.

Qualcuno della Digos minaccia di portare le nostre cose via dal cortile se non provvediamo a farlo noi entro 10 minuti al massimo. Si certo 10 minuti…20 scatoloni, una donna incinta, un cane e un gatto. Facile no?

Davanti al nostro rifiuto veniamo circondati assieme ai pochi solidali e ai pochissimi compagni rimasti.  Ed è li che mi sento crollare. Un dolore atroce al ventre e in un attimo mi ritrovo in ambulanza diretta in ospedale.

Al pronto soccorso dopo due flebo e diversi controlli mi dicono che ho di nuovo le contrazioni, che devo stare a riposo ed evitare situazioni tese o stressanti.

“Si eh?” mi dico e penso che non l’ho cercato io e che quel dottore si è assunto una responsabilità vigliacca facendomi mandare via da casa nostra, rischiando di.mettere a repentaglio la vita di mia figlia. Questi sono fatti che non richiedono analisi politiche elaborate. Qui c’è da prendere definitivamente atto che si tratta di privazione della dignità umana e questa dovrebbe essere la risposta a tutto.

Qui ci sarebbe solo da capire che lo Stato continua ad affamarci e se cerchiamo di appropriarci di qualsiasi diritto ci sguinzaglia le sue iene e i suoi servi più spietati, il braccio armato della repressione, i cosiddetti  tutori dell’ordine pubblico, quelli che si spogliano della loro umanità per indossare una divisa. C’è la stampa di regime pronta sempre a demonizzare i movimenti ignorando che si usino lacrimogeni e manganelli per sfrattare famiglie “alla canna del gas”. C’è anche e ancora una volta il popolino che punta il dito contro quei disperati incurante di tutto il contesto.

Infine c’è la “sinistra” a capo del comune di Milano che sta procedendo verso quegli stessi disperati come nessuna giunta di destra aveva mai fatto.

Sgomberare è già di per sé un gesto infame quando ci sono troppe famiglie senza casa e troppe case (vuote) senza famiglie. Massacrare i solidali ad uno sgombero è altrettanto infame  ma accanirsi su una donna al sesto mese di gravidanza a rischio che per nessuna ragione si sogna di partorire sua figlia sul primo marciapiede è ancora più infame e fa ancora più schifo!

E’ successo, succede e  succederà  ancora: perderemo la casa e proveranno a minare la nostra dignità.

È arrivato il momento di tirar fuori la rabbia e di riprenderci ciò che ci spetta.

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