Portogallo: tutto calmo sul fronte occidentale?
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L’enigma portoghese
Un osservatore minimamente attento che si affaccia sulla mappa europea dei conflitti e delle convulsioni sociali del XXI° secolo rimarrà di sicuro sorpreso nel constatare che un irriducibile paese della periferia dell’impero abbia resistito tanto prima di entrare a far parte della grande ondata di contestazione in corso. Come se avessero preso una pozione magica che li fa manifestare pacificamente e con tutto il civismo del caso, i portoghesi hanno subìto in maniera rassegnata le manovre e le pretese che gli sono stati dettate dai “mercati”. Le cause della singolare tranquillità sociale- in un paese dove tutto è crisi, disoccupazione, povertà e spudorato sfruttamento- sembrano sfidare queste ragioni. Sappiamo da fonti certe che ciò non è dovuto agli elevati salari ottenuti o ai numerosi diritti che esistono in Portogallo.
Vedendo scoppiare le lotte in Grecia, molti osservatori hanno girato poi lo sguardo verso il paese che – alla stessa latitudine, della stessa dimensione e dai simili indicatori sociali – in maniera quasi naturale andava seguito. Eppure, tutto è rimasto tranquillo sul fronte occidentale, in cui i governi non si stancano di sputare in faccia ai governati. C’è chi parla di “natura tendenzialmente pacifica dei portoghesi”, cosa che le principali statistiche relative alla violenza domestica (si veda , quella degli uomini adulti su donne e bambini) e agli incidenti tra vicini nelle zone rurali e suburbane (che spesso terminano con sparatorie o accoltellamenti), nonché la semplice osservazione di tutti i giorni, sembrano smentire categoricamente. Come si spiega, quindi, che in una società così violenta e disuguale, le proteste e le manifestazioni siano sempre pacifiche?
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Vecchi e nuovi problemi
È importante tenere conto del peso delle pratiche informali dell’economia sotterranea, delle reti di appoggio familiare e della predisposizione ad emigrare, molto radicata in certe zone del paese. Va sottolineato anche il fatto- probabilmente determinante- che stiamo parlando principalmente di giovani, che non possono rivendicare l’esperienza di aver partecipato ad un movimento sociale vittorioso, che abbia lasciato loro insegnamenti, pratiche e convinzione necessari per combattere questa dimensione. Il movimento studentesco, un insieme di cultura dove si potrebbe sviluppare e allargare la sana abitudine della rivolta e della contestazione, non ha accumulato niente, se non sconfitte, impasse ed esitazioni, anche quando chiamato a fronteggiare avversari incapaci e offensive poco gradevoli. Nelle scuole superiori così come nelle università, si è appreso soprattutto la routine dell’obbedienza e l’usanza di divincolarsi tra gocce di pioggia.
Dall’altro lato, gli sforzi di organizzazione e mobilitazione di “strada” hanno sentito il peso della tradizione politica autoctona, in cui niente è solito accadere senza che i vertici di un partito abbiano avuto l’opportunità di pronunciarsi sul tema. È palese che gran parte dei movimenti che girano in torno alla precarietà e alla disoccupazione raramente concepiscono la possibilità che siano i precari e i disoccupati i reali protagonisti e soggetti della loro emancipazione, presentandoli quasi sempre come vittime passive da difendere o proteggere, una “ generazione” le cui “ qualifiche” hanno voluto un capitalismo più sofisticato e imprenditori sempre al passo coi tempi, per non parlare di una politica “altra”, chiara alternativa ( e si vede bene), che ci è stata regalata. È soprattutto al suo status di elettore e di cittadino, più che alla sua condizione di proletario , che si ammicca. Anche la frammentazione delle lotte contribuisce a questo sconforto, che ha ristretto il campo delle solidarietà e delle contaminazioni possibili. Manca, in questa costa occidentale dell’Europa, un immaginario del conflitto sociale capace di interpellare la massa che quotidianamente si affanna tra contratti a termine e disoccupazione crescente. È questo enorme peso di inerzia che il movimento si vede obbligato a superare.
È vero che c’è stata una rivoluzione nel 1974-75, ma il fatto che gli sia succeduta una contro -rivoluzione di velluto – culminata nella ricostruzione dell’apparato statale, in un’ottica capitalista della crisi contro il movimento operaio tendente alla costruzione europea, che ha pacificato definitivamente il paese- lo rende contemporaneamente troppo vicino e troppo lontano. Dall’altro lato, è difficile non accorgersi che i campi politici e sociali non hanno qui derive conflittuali come quelle avute, nel XX secolo, in altri paesi attraversati da guerre civili: Spagna, Grecia e , con differenze che si sapranno, l’Italia.
Esiste , inoltre, il dato fondamentale che in Portogallo la scolarizzazione di massa ha coinciso nei tempi, con la diffusione del piccolo schermo, il che amplifica enormemente il potere della televisione sulla scrittura.
Da quando l’austerità è diventata la parola magica della vita pubblica in Portogallo, siamo stati messi a confronto con proteste dalle dimensioni così variabili- dalle scarse centinaia di persone in una manifestazione di disoccupati, alle centinaia di migliaia di persone nella manifestazione della «geração à rasca», quella del 12 Marzo 2011- difficile delineare la percezione con cui la televisione erige ed annulla manifestazioni, presentandole, ora come un fatto indecifrabile dalle imponenti conseguenze politiche, ora come una semplice data in una vasto ed innocuo calendario di proteste ordinarie. Al peso dell’inerzia va aggiunto il potere del senso comune- come è costruito dai telegiornali – per capire come certe forme di intendere il conflitto sociale e la lotta vengano presentati carichi di esotismo ed eccentricità all’interno del movimento, riscontrando enormi difficoltà prima di risultare comprensibili e mettere in ombra il dispositivo politico creato dalla sinistra partitica e dall’apparato sindacale.
L’assenza di una retroguardia solida – di spazi di aggregazione e socialità, di mezzi logistici basilari, di un supporto legale effettivo, di una rete di solidarietà più consistente e di strumenti di comunicazione più efficaci- rende ancora più evidenti le difficoltà, relegando il controllo delle manifestazioni alle organizzazioni partitiche e privando il movimento di consistenza e densità che possono prendere forma solo in un scala di pratiche quotidiane. Gli sforzi, seppur minimi , messi in atto nel tentativo di opporsi a questa situazione, trovano subito la risposta dell’apparato repressivo dello Stato, che cerca di isolare le lotte per renderne più facile la criminalizzazione. È qui che il cerchio si chiude: le manifestazioni vengono tutelate solo nella direzione di mantenerle ordinate e pacifiche, per potere supportare una “convergenza a sinistra” e portare in strada le istituzioni; e dato che è li che si gioca il tutto per tutto per chi deve governare, non sono , quindi, minimamente allettanti per chi desidera prendere le proprie vite in mano , per chi si è stancato di rimanere a guardare e ha deciso di iniziare a giocare.
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Eppur si muove
Il lettore che giunge fin qui rimarrà forse con l’impressione che in Portogallo tutto è disfattismo e che coloro che qui combattono il capitalismo e lo stato hanno gettato la spugna. In realtà, questo contributo cerca in primis di far conoscere alcuni dei principali problemi che viviamo e che siamo stati capaci di identificare nelle nostre discussioni e riflessioni collettive, nel tentativo di spiegare cosa è che differenzia questo rettangolo dalle altre regioni europee. È importante sottolineare che dal Marzo del 2011 si sente e respira un’aria diversa. Pur essendoci tutti i problemi, impasse e difficoltà sopra descritti, qualcosa sta cambiando , e la velocità di tale cambiamento è difficile da prevedere o anticipare. Fin da subito , la combinazione tra l’austerità imposta dalla UE e dal FMI, l’inettitudine e l’arroganza della coalizione del governo che le applica- orientata , secondo il premier, ad andare “oltre la Troika” in materia di privatizzazioni, flessibilità e riduzioni salariali – ha allargato in maniera significativa l’eco delle proposte e slogan più radicali, portando in strada una massa non abituata a partecipare alle manifestazioni, rendendo difficile la vita ai sindacati e alla sinistra: insomma, ha ampliato il campo del possibile.
I segnali che qualcosa stesse cambiando erano già visibili. Anche se in maniera minore rispetto a ciò che è accaduto in Spagna e in Grecia, l’acampada del Rossio (Lisbona) ha rappresentato un’esperienza di comunicazione, cooperazione e organizzazione di vari gruppi e individui che non si conoscevano, dando vita a dinamiche interessanti in termini di mobilitazione. La manifestazione internazionale del 15 Ottobre 2011 ha rappresentato una prima dimostrazione della capacità da parte di organizzazioni, collettivi e gruppi informali di mettere in campo una protesta fuori dall’ala dei partiti e dei sindacati. E negli scioperi generali del 24 Novembre 2011 e dello scorso 22 Marzo, le paralizzazioni – anche se non capaci di bloccare totalmente l’economia- hanno visto manifestazioni di strada più conflittuali del solito, culminate con scontri con la polizia in varie zone di Lisbona e di Porto. Infine, le esperienze di occupazione sviluppate a Fontinha (Porto) e a S. Lazaro (Lisbona) dimostrano- soprattutto la prima- come sia possibile violare le imposizioni della polizia e, nonostante lo sgombero, hanno rappresentato la capacità di evitare l’isolamento e di mettere insieme vasti movimenti di solidarietà, visibili nell’enorme manifestazione che ha rioccupato simbolicamente la ES.CO.LA il 25 Aprile e nella manifestazione in risposta allo sgombero di S. Lazaro chiamata nello stesso giorno e che è stata attraversata da centinaia di persone.
Quando il governo ha annunciato misure più pesanti contro i salari e le pensioni, il 7 Settembre, non è stato difficile prevedere una risposta forte da parte della strada. Ma nessuno avrebbe previsto l’affluenza alla manifestazione che ha inondato tutto il paese il 15 Settembre scorso, inizialmente convocata da un gruppo informale di persone genericamente di sinistra si è subito trasformata in una grandissima e spontanea mobilitazione di massa che ha minato le basi del governo. Per diverse ore il parlamento- non incluso nel percorso “ufficiale” della manifestazione- è stato assediato da migliaia di persone e la polizia si è trovata a confrontarsi con centinaia di volti coperti, di ceto e provenienza diverse, che gli lanciavano contro pietre, bottiglie e petardi, senza che nessun manifestante si preoccupasse di condannarli o di etichettarli come “violenti”. È bastato un tardo pomeriggio e un inizio serata per far svanire l’immagine pacifica e di “buon alunno della troika” del Portogallo il cui governo e adepti vari si erano impegnati laboriosamente ad assumere già da un anno. E tutto questo è avvenuto senza che ci fosse un piano o una decisione già presa da nessuno.
La frequenza con cui sono uscite le notizie sui giornali, prima e dopo le manifestazioni, riguardanti i “gruppi violenti”, le “frange estremiste” con legami all’estero o gli “anarchici pericolosi”, dimostra che la polizia ha visto nelle posizioni e nelle pratiche libertarie e antiautoritarie un nemico da abbattere. La polizia portoghese è famosa per i tatticismi intimidatori preventivi, non risparmiandosi nel fare minacce (come l’avviso secondo cui avrebbero avuto tolleranza zero nei confronti dei manifestanti del 25 Aprile e del 1 Maggio ),nel pestare chiunque si imbatta con loro (inclusi anziani o giornalisti, come è avvenuto nello sciopero del 22 Marzo, a Lisbona) o nell’accerchiare e fermare per ore con il pretesto di identificare manifestanti ( come nella manifestazione contro lo sgombero di S. Lazaro). Poco più di un anno fa, una manifestazione libertaria a Setubal, il 1 Maggio, è stata repressa con proiettili di gomma, manganellate e spray mace , oltre a veri e propri spari in aria. È risaputo, anche per chi non legge Agamben, che lo Stato portoghese violi in tutti i modi le sue proprie leggi come in una guerra civile di bassa intensità.
In questo momento, in cui la rivolta si diffonde in una scala senza precedenti, è diventato assolutamente importante segnalare la macchina repressiva che viene messa in campo per spiegare ogni incidente, ogni scontro, ogni trasgressione e atto di resistenza come parti di una grande cospirazione anarchica. Evitare l’isolamento, combattendo politicamente le tendenze che vogliono fare del movimento uno strumento per facilitare la sinistra al governo , sono la principale sfida per chi vuole aprire ed allargare il fronte occidentale. Accentuare la dimensione internazionale della lotta contro l’austerità e diffondere idee, esperienze e pratiche di auto organizzazione e di azione diretta, sono l’obiettivo principale da raggiungere. La Grecia come parola d’ordine. Scendere in campo senza frontiere la maggiore ambizione.
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