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La Francia al bivio? Considerazioni inattuali sulla riforma delle pensioni

Continuiamo a condividere alcune analisi e letture di quanto sta succedendo in Francia con il movimento contro la riforma delle pensioni. Di seguito un interessante documento di Il Lato Cattivo. Buona lettura!

In questo testo cercheremo di rispondere alla domanda: «dove va la Francia?», con particolare riferimento al progetto di riforma del sistema pensionistico (adottato lo scorso giovedì 16 marzo facendo ricorso all’articolo 49.3), e al movimento sociale che vi si oppone. Ci preme in particolare dire ciò che le analisi correnti che emanano direttamente dal movimento o dai suoi sostenitori non dicono, proponendo una visione a più ampio raggio. Per questo, prima di entrare nel merito, riteniamo opportuno fornire alcuni elementi di contesto generalmente poco conosciuti e poco discussi, che permettono a nostro avviso una migliore valutazione del significato e della posta in gioco nel conflitto, che vanno ben oltre la semplice questione dell’età pensionabile.

Partendo dalla grande crisi economica e finanziaria del 2008, e dal suo prolungamento europeo del 2010-2012, si suppone spesso che la risposta capitalistica nelle aree centrali dell’accumulazione sia stata ovunque più o meno la stessa. Restare a questo livello di generalità non conduce, nel migliore dei casi, che a enunciare mezze verità e luoghi comuni. In primo luogo, la considerazione che precede può valere al massimo per la politica economica praticata a livello statuale in seno all’eurozona, soprattutto a ridosso della cosiddetta crisi dei debiti sovrani (l’austerity etc.), e non senza importanti gradazioni a seconda dei paesi. In secondo luogo, non si può minimizzare l’importanza delle discontinuità introdotte su questo piano dal quantitative easing europeo nei suoi episodi principali (dalla presidenza Draghi alla BCE fino al Covid), che non ha evidentemente soppresso la coazione all’austerity ma l’ha innegabilmente alleggerita.

Inoltre, in maniera più fondamentale, le economie dei principali paesi dell’eurozona — la Germania, la Francia e l’Italia — hanno reagito in maniere molto diverse alla crisi, ciò che deriva da differenze profonde inscritte tanto nei rispettivi tessuti produttivi, quanto negli assetti istituzionali e negli «usi e costumi)» degli agenti economici. Per una serie di ragioni che in questa sede saranno solamente evocate, e che attengono alla struttura iper-industrializzata della sua economia, ai vantaggi derivanti dal sistema monetario a cambi fissi tra gli Stati-membri che caratterizza l’eurozona, ad uno sviluppo più modesto e proporzionato che altrove dell’istruzione superiore in favore di un più solido sistema d’istruzione secondaria e di avviamento professionale, e non da ultimo all’ineguagliata conoscenza dei tessuti produttivi degli altri paesi europei (e di come articolarli al proprio) presente nel mondo imprenditoriale, l’economia della Germania1 — che prima delle riforme del mercato del lavoro dell’era-Schroder veniva definita da molti il malato d’Europa — è stata almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina il grande vincitore, consolidando una posizione largamente predominante nel quadro dell’euro-sistema. La Francia e l’Italia, invece, hanno conosciuto entrambe traiettorie declinanti, simili per alcuni aspetti e del tutto divergenti per altri, sia per modalità che per temporalità. Per l’Italia, la via della periferizzazione, già imboccata all’inizio degli anni 1990, si identifica nei suoi tratti essenziali col deperimento di due delle tre principali componenti del capitale italiano del Secondo Dopoguerra: le grandi imprese pubbliche (controllate o meno dall’IRI) e il grande capitale privato del nord-ovest (FIAT, Olivetti etc.). In questo quadro, il settore esportatore delle PMI del nord-est, ha invece acquisito una inedita posizione centrale. Sempre più integrato alle catene del valore tedesche, quest’ultimo ha retto (più o meno) il colpo della crisi del 2008, ma il prezzo da pagare è stato una forte contrazione del mercato interno, da cui è derivato un significativo surplus commerciale dettato in buona parte dal calo dei consumi. Tale surplus commerciale sembra attualmente ristabilirsi (+1,14 miliardi di euro nel novembre 2022), ma ad un livello decisamente più basso rispetto al periodo precedente la crisi da Covid e la guerra in Ucraina (vedi grafico sottostante). Dal punto di vista del settore esportatore italiano, ormai il più influente della penisola, la depressione del mercato interno è apparsa come una tattica doppiamente opportuna, poiché la compressione salariale soggiacente ha garantito competitività all’esportazione, almeno sul breve termine, promettendo allo stesso tempo un restringimento in termini assoluti dei mercati di sbocco per i concorrenti stranieri che esportano verso l’Italia (i quali però hanno guadagnato terreno in termini relativi). Ciò spiega anche le difficoltà a cui vanno incontro, in Italia, le iniziative di rilancio del welfare o di redistribuzione fiscale dall’alto verso il basso, anche le più modeste, come l’adeguamento delle pensioni all’inflazione o il reddito di cittadinanza. Del resto, si tratta qui di processi che oltre una certa soglia tendono ad alimentarsi a vicenda, creando un circolo vizioso in cui la compressione salariale si traduce in difficoltà crescenti a finanziare il sistema di welfare, le quali a loro volta sembrano «ragionevolmente» imporre sacrifici ancora maggiori ai salariati. Vi ritorneremo.

In Francia, diversamente dall’Italia, è il mercato interno che ha «tenuto botta»», ma a prezzo di un ristagno delle esportazioni, ciò che a uno sguardo superficiale può risultare sorprendente se si tiene conto della relativa vastità della francophonie (un eufemismo per designare la sfera d’influenza ereditata dal periodo coloniale) e della rete di rapporti bilaterali tradizionalmente coltivata al di fuori del mercato comune europeo (MEC), in Medio Oriente, India, Russia etc. Nei fatti, il MEC, nel corso degli ultimi due decenni si è consolidato come principale mercato di sbocco del settore esportatore francese, ciò che — per inciso — contribuisce a spiegare il netto declino dell’euro-scetticismo dai tempi della risicatissima vittoria del «sì»» al referendum sul Trattato di Maastricht (1992) e di quella del «no» al referendum sul Trattato Costituzionale Europeo (2005). Le branche industriali maggiormente orientate all’esportazione sono la chimica, la farmaceutica, l’agroalimentare e la fabbricazione di mezzi di trasporto (aeronautica soprattutto). Il mercato tedesco è di gran lunga la destinazione privilegiata delle esportazioni francesi (circa 68-69 miliardi di euro all’anno); Stati-Uniti e Italia seguono con volumi che, rispettivamente, rappresentano più o meno la metà del mercato tedesco (una trentina di miliardi), mentre il mercato cinese pesa all’incirca per un quarto del medesimo (17 miliardi). Bisogna aggiungere che la Francia detiene un saldo commerciale positivo solo con tre dei principali paesi destinatari delle sue esportazioni: Stati-Uniti, Gran Bretagna e Svizzera. Il raffronto con la Germania risulta attualmente complicato dalla disorganizzazione economica introdotta prima dalla pandemia, poi dalla guerra in Ucraina. Per farsi un’idea degli ordini di grandezza e del significato di queste cifre, basti comunque dire che i mercati esteri di Cina e Stati Uniti — i principali mercati di sbocco della Germania — pesano, in anni di magra, per circa un centinaio di miliardi di euro ciascuno. Attualmente, importazioni ed esportazioni francesi aumentano entrambe in valori nominali a causa dell’inflazione, ma le prime in misura decisamente maggiore delle seconde. La bilancia dei beni ne risulta particolarmente toccata (beni energetici in primo luogo, ma non solo). La degradazione della bilancia commerciale è stata certo aggravata dall’inflazione dei prezzi delle materie prime, e principalmente degli idrocarburi all’importazione, ma questa tendenza recente non arriva come un fulmine a ciel sereno

La tenuta del mercato interno francese apparirebbe incomprensibile se non si tenesse conto dei mastodontici meccanismi di redistribuzione fiscale volti a sovvenzionarlo direttamente o indirettamente, e a sostenere le imprese francesi su di esso o sui mercati esteri dove sono più presenti. In prima approssimazione, si può dire che si tratta di una particolarità francese legata alla precocità della formazione di uno Stato unitario e centralizzato (più oltre ne preciseremo le fattezze contemporanee e la permanenza). Per ciò che concerne il sostegno alle imprese, abbiamo a che fare con una sorta di protezionismo fiscale mascherato, la cui estensione reale viene costantemente minimizzata e occultata per ragioni politiche di buon vicinato europeo. La sua funzione oggettiva è quella di compensare gli svantaggi per le esportazioni (sia dentro il MEC che fuori) derivanti dalla struttura della moneta unica. Nel 2017, secondo le stime dell’External Sector Reeport del Fondo Monetario Internazionale2, l’euro risultava svalutato del 20% per la Germania e sopravvalutato dell’8% per la Francia nel tasso di cambio reale con le monete dei rispettivi partner commerciali. Queste percentuali vanno comunque prese cum grano salis, poiché la diversa natura dei principali mercati di esportazione (MEC e non-MEC) di Francia e Germania ha, anche qui, la sua importanza.

In termini più generali, non è semplice distinguere la parte di redistribuzione fiscale che va dal basso verso l’alto e quella che va dall’alto verso il basso, poiché in ultima istanza certe forme di sostegno al reddito delle famiglie si traducono in maggiori profitti per le imprese, o maggiori rendite per alcune frange privilegiate della popolazione (si pensi al sovvenzionamento degli affitti, molto favorevole per i nuclei familiari multi-proprietari e per i proprietari di alloggi nell’insieme). Se il discorso non sembra valere, all’opposto, per le «regalie» di Stato ai grandi gruppi industriali e finanziari (ad esempio, il Credito d’imposta per la competitività e l’impiego, o la recente soppressione delle imposte di fabbricazione a partire dal 2023), bisognerebbe tuttavia valutarne l’impatto sull’insieme delle filiere, subappaltatori inclusi.

L’elemento comune alle due traiettorie, italiana e francese, è che entrambe, a distanza di tempo, si sono orientate nel senso di una crescita di tipo labour intensive, privilegiando il fattore-lavoro sull’investimento in capitale. Per l’Italia non è un fatto nuovo, ma per la Francia sì, perché nei primi anni 1990, all’epoca della globalizzazione trionfante, quando il credo economico dominante era l’iper- specializzazione, la Francia si proiettava nel futuro come paese specializzato nell’hi-tech civile e militare, esportatore di beni ad alto valore aggiunto; insomma, un paese prospero popolato di informatici, ingegneri, tecnici e operai altamente qualificati. Ovviamente la Francia conserva qualche «eccellenza» in questi settori, ma la storia reale è andata diversamente, non da ultimo perché i processi di esternalizzazione in loco, superata una certa soglia, hanno creato una massa di piccole e medie imprese che sovente faticano a sopravvivere nelle condizioni attuali, molto dure, delle branche di produzione aperte alla concorrenza internazionale, accumulando ritardo tecnologico e riducendo al minimo gli investimenti in produttività. È allora il fattore-lavoro, in termini di salari, di carichi di lavoro o di numero di addetti, a fungere da variabile di aggiustamento. Come abbiamo visto, ciò è evidente per l’Italia, ed evidenti ne sono anche le ragioni. Meno lo sono per la Francia, da un lato perché il grande capitale locale ha continuato a manifestare, anche in tempi non remoti, una certa sensibilità per i benefici di una produttività elevata (si pensi alla legge sulle 35 ore settimanali del 2000); dall’altro perché la privatizzazione delle grandi imprese di Stato — spesso le sole in grado di competere a livelli alti di maturità oligopolistica — è stata, diversamente da quanto avvenuto in Italia, più lenta e parziale. Resta che secondo stime recenti, in Francia lo stock di capitale fisso costituito da macchine-utensili utilizzate nel settore privato non finanziario è cresciuto, dal 2007 al 2021, solo dello 0,2%, mentre il grosso dell’investimento in capitale, in quest’ambito, è stato consacrato ad implementare la panoplia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (soprattutto software), senza con ciò generare significativi incrementi di produttività. L’inefficacia di questi investimenti nel contesto francese diviene particolarmente vistosa nella congiuntura post-pandemica, allorché — malgrado tutto il chiacchiericcio politico e mediatico sul monde d’après, preso come oro colato dai critici del fantomatico Great Reset — la produttività risulta essersi degradata, al punto che il suo incremento in percentuale dall’inizio del 2020 ad oggi appare non solo nullo, ma addirittura negativo3. Inoltre, la fiammata inflazionistica che ha cominciato a farsi sentire nell’eurozona a partire dall’autunno 2021, e che attualmente è in fase di rallentamento ma non di riassorbimento (al contrario, tende a divenire endemica), destabilizza alle fondamenta il modello labour intensive, nella misura in cui pone le piccole e medie imprese di fronte ad un aumento dei costi di produzione, tale da rendere impossibile scaricarli ancora una volta sul fattore- lavoro. Il problema riguarda tutta l’Europa occidentale e centrale, non solo a causa delle conseguenze economiche della guerra in Ucraina, ma anche della svalutazione dell’euro nel tasso di cambio con il dollaro per effetto del differenziale di rialzo nei tassi della FED e della BCE.

Un ulteriore passo indietro ci permetterà di spiegare meglio alcune specificità dello sviluppo capitalistico in Francia dal secondo dopoguerra ad oggi — specificità che vengono generalmente evocate attraverso la formula «modello sociale francese». Il nocciolo della questione si può riassumere nell’ accesso tardivo di questo paese ad una forma d’economia mista imperniata sul ruolo fondamentale del complesso militare-­industriale . Senza riandare al XIX secolo, si può dire che nella prima metà del Novecento, la debole industrializzazione della Francia discende da una sorta di malthusianismo economico collegato, da un lato, alla preservazione del compromesso storico col contadiname, e dall’altro al mantenimento dell’impero coloniale e di rapporti privilegiati con alcuni paesi dell’Est (la Russia prima del 1917, la Polonia e la Romania fra le due Guerre). Le colonie e gli altri paesi citati fungono da fonti di approvvigionamento di materie prime e da mercati di sbocco «protetti» per una produzione agricola e manifatturiera dai costi elevati. Tutto ciò, in un quadro internazionale che, per la Francia, resta condizionato dalle affinità elettive franco-britanniche coltivate in funzione anti-tedesca. Il 1945, data- simbolo della Liberazione e dell’instaurazione della Sécurité Sociale, che chiude la parentesi dell’occupazione e del collaborazionismo, non è in realtà il vero spartiacque. Come scrive a giusto titolo Joseph Halevi,

«[…] dal 1946, anno della rioccupazione del Vietnam da parte della Francia, al 1962, quando l’Algeria ottenne l’indipendenza, l’intera traiettoria del Paese fu definita dal perseguimento di una politica imperialistica e dall’obiettivo di controbilanciare la Germania. Dopo la sconfitta a Dien Bien Phu nel 1954 e l’inizio del movimento di liberazione in Algeria nello stesso anno, questi due imperativi divennero incompatibili, salvo essere riformulati. Così la Francia si rivelò, politicamente e finanziariamente, come il partner problematico di un processo che essa stessa aveva iniziato nel 1950 con l’annuncio di Schuman (ispirato da Monnet) dell’imminente creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. L’ascesa al potere del generale Charles de Gaulle, che fondò la V° Repubblica francese, sciolse questo nodo.»4

Allo stesso modo, è solo con la fine della Quarta Repubblica (1958) e della guerra d’Algeria (1962) che convergono e si articolano in maniera coerente gli effetti a medio termine di eventi e fenomeni disparati come il fallimento del blocco-oro del 1933-1936 (da cui la pratica delle periodiche svalutazioni del franco e il circuito del Tesoro5), l’importazione del compromesso sociale bismarckiano (colorato di accenti natalisti in ragione della crisi demografica del periodo fra le due Guerre) e gli avvicendamenti sociologici in seno alla borghesia e agli alti funzionari dello Stato (l’ascesa degli ingegneri). Bisogna altresì ricordare che il relativo ricentramento del capitale francese sul continente europeo fu definitivamente suggellato solo dopo che lo Stato francese ebbe la certezza di esservisi assicurato una posizione di spicco in virtù del suo programma atomico. Il carattere presuntivamente «esemplare»6 del fordismo francese è dunque un’incredibile esagerazione che si contraddistingue, fra l’altro, per due amnesie fondamentali: in primo luogo, dimentica gli arcaismi caratteristici di questo contesto ancora alla fine degli anni 1950 — arcaismi fortemente radicati dal punto di vista sociale e istituzionale, che il «libero gioco» degli agenti economici non poteva pervenire a scalfire motu proprio e che, appunto per questo, necessitarono del ruolo di spinta e di coordinamento dello Stato modernizzatore gollista; in secondo luogo, dimentica di sottolinearne la dimensione militare, la quale costituisce d’altronde un elemento- chiave di continuità dello Stato francese, non solo nel passaggio dal periodo coloniale a quello post­coloniale ma, andando ancor più a ritroso, anche in quello dall’Ancien Régime alla Francia post-1789 nelle sue successive incarnazioni7. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, per la Francia (e in misura minore per la Gran Bretagna) la conservazione di un impero coloniale da un lato, e l’europeismo economico e militare dall’altro, rappresentano le due «riserve di sovranità»»8 rimaste al paese di fronte alla pervasività dell’egemonia americana in Europa occidentale — dentro il Patto atlantico, ma anche indipendentemente da esso. Dal tentativo della borghesia francese di resistervi, nascono sia i dibattiti intorno alla Comunità Europea di Difesa (CED) che le avventure militari neo-coloniali non-atlantiste. Nella fattispecie, l’ipotesi della CED viene lanciata dalla Francia in risposta al piano-Acheson di riarmo della Germania (settembre 1950), salvo poi essere ritirata tramite procedura parlamentare nel 1955, dopo aver vinto l’ostilità degli Stati Uniti e ottenuto con loro un accordo di massima. Va da sé che se la CED fosse stata realizzata, la storia francese (guerra d’Algeria, ritorno di De Gaulle, V° Repubblica, bomba atomica francese etc.), e di rimando quella europea, sarebbero state senz’altro molto diverse.

Discorso analogo vale per le avventure neo-coloniali, innanzitutto quella in Indocina, per la quale lo sforzo bellico assorbì una cifra complessiva equivalente al sostegno economico americano fornito alla Francia attraverso il piano Marshall. Appena due anni dopo la sconfitta di Dien Bien Phu (1954), è il turno dell’Algeria, coi ben noti risultati, e della spedizione franco-britannica a Suez, tragicomico revival della diplomazia delle cannoniere, presto sgonfiato dagli Stati Uniti nonché dalla minaccia nucleare sovietica. Fra il 1958 e il 1962 ci sarà infine la presa d’atto, da parte della grande borghesia francese e del suo Stato, della necessità economica della decolonizzazione e dell’obsolescenza delle guerre coloniali come strumento di gestione del rapporto centro-periferia. Viene a cadere, così, una delle due «riserve di sovranità»» di cui si è detto ma, come scrive Alain Joxe, «nel 1962, non più che nel 1954, il particolarismo dell’esercito francese non può essere cancellato. Il suo non-atlantismo è inscritto fin dall’inizio nel sistema egemonico della borghesia francese. Il generale De Gaulle è l’erede di pratiche molto diverse che, ad ogni tappa, hanno allontanato l’esercito francese dall’Alleanza atlantica. È questa la ragione per cui nello stesso momento in cui la strategia ufficiale proposta all’Alleanza dagli americani cessa di essere la “rappresaglia massiccia” per mutarsi in “risposta flessibile”, tutto è già pronto nel sistema militare francese per una riconversione rapida alla strategia nucleare indipendente e all’uscita della Francia dagli organi integrati della NATO»9. Per inciso, l’uscita dal comando integrato della NATO, nel 1966, e la mossa del febbraio dell’anno precedente — l’annuncio di De Gaulle di voler scambiare le riserve in dollari americani presso la Banca di Francia con lingotti d’oro al tasso di cambio ufficiale, che venne imitato da molti altri paesi, costringendo infine Nixon a sospendere la convertibilità oro-dollaro (1971) — sono a nostro avviso da intendere come iniziative congiunte, entrambe di carattere inscindibilmente economico e geostrategico10. Insomma, per citare ancora Halevi, alla fine degli anni 1950,

«I policy makers della tecnocrazia francese cercavano indubbiamente un’espansione esterna verso il resto dell’Europa, necessaria anche per ridurre la dipendenza dai mercati coloniali. Tuttavia, gli obiettivi principali del regime di De Gaulle erano quelli della costruzione di un capitalismo di grandi imprese di Stato con un nucleo centrale costituito dal complesso militare-industriale. Il V° piano quinquennale del 1965 rappresentò la costruzione di questo Stato imprenditore. In questo quadro fu avviata una politica di concentrazione industriale guidata dalle imprese statali, accompagnata da misure che favorivano le fusioni nel settore privato. Accanto allo Stato, le grandi banche — esse stesse frutto delle politiche di concentrazione — parteciparono a vaste acquisizioni industriali. Ma a lungo termine, la strategia di concentrazione non è riuscita a produrre imprese leader a livello internazionale paragonabili a quelle tedesche, tranne che nei settori dell’aviazione, del trasporto ferroviario e del nucleare, tutti legati al mesosistema.» (op. cit., p. 20).

Mesosistema è la nozione che Francois Chesnais e Claude Serfati hanno proposto11 per analizzare la centralità economica e politica della produzione militare in Francia a partire dalla V° Repubblica. Dalla loro analisi — sicuramente datata, ma che conserva una certa pregnanza — emerge la triplice funzione delle sinergie fra lo Stato, l’industria militare e determinati settori dell’industria civile, instaurate dal regime gollista traendo ispirazione dal complesso militare-industriale americano: deterrenza atomica, fedeltà dell’esercito allo Stato (nel 1961-1962 non è un fatto scontato), impulso alla crescita e all’innovazione con ricadute a cascata sull’insieme dell’economia12.

L’analisi della cosiddetta «eccezione francese» non può fare astrazione dalle determinazioni fin qui messe in luce. La permanenza del «modello sociale francese» dal 1945 ad oggi, è in larga parte la proiezione retrospettiva di qualcosa che ha iniziato ad esistere solo dopo la vittoria dei socialisti del 1981. Cosa è successo allo Stato modernizzatore gollista? Quello che spesso accade agli Stati sviluppisti a dominante militare che riescono in pochi anni ad innalzare fortemente il livello di vita della popolazione: inciampano nelle classi medie che hanno contribuito ad ingrassare. Nel caso francese, si è trattato di vaste porzioni della classe media salariata, che alla fine degli anni 1960 hanno tentato di animare contro il regime gollista, e contro i governi della destra liberale post-gollista che gli succedettero, un’alleanza con il proletariato operaio, il quale a partire dal 1965 era messo di fronte ad una contrazione degli investimenti in capitale che si traduceva in un aumento delle cadenze e in una complessiva degradazione delle condizioni di lavoro13. Non esamineremo qui né la saldatura interclassista che si effettua in maniera violenta nel maggio-giugno 1968, né la fase di «interregno» del quindicennio successivo. Ci limiteremo ad osservare che il tournant de la rigueur (svolta dell’austerità) del 1983 — drastica retromarcia del governo socialista eletto nel 1981 con il sostegno del Partito Comunista, sulla base di un programma di rilancio keynesiano condito di nazionalizzazioni (votate nel 1982: Saint- Gobain, Thomson, Pechiney, Rhone-Poulenc etc.) — simbolizza la fine di questa «politica delle alleanze» della classe media moderna nei confronti del proletariato. Il periodo che si inaugura allora appare dominato, nei suoi snodi essenziali (politica del franco forte, trattato di Maastricht etc.), dal rilancio della seconda «riserva di sovranità» dell’immediato dopoguerra: l’europeismo economico e militare. Le condizioni per tale rilancio sono esse stesse riconducibili all’anti-atlantismo del regime gollista, e al suo tentativo di allentare la presa della NATO sulla Germania (Trattato dell’Eliseo, 1963). Alla metà degli anni 1980, esso assume però un diverso significato, funzionale al nuovo blocco sociale dominante — che include la classe media rientrata nei ranghi dopo la contestazione — così come ai nuovi rapporti di forza che vanno determinandosi in seno alla borghesia francese e alla tecnocrazia di Stato, con la ricomposizione della prima intorno ai settori in ascesa della banca, della finanza, della pubblicità e dell’intrattenimento, e la seconda che vede riemergere l’ispettorato delle Finanze pubbliche dal ruolo di subalternità a cui lo aveva ridotto il regime di De Gaulle. È una banalità affermare che questo rilancio dell’europeismo comporta una chiara dimensione anti-operaia, ma fermarsi a questa constatazione significa non spiegare perché la determinante anti-operaia assuma proprio questa forma e non un’altra.

L’europeismo risponde alle difficoltà della riconversione del capitalismo francese sulla base di ciò che è, cioè a partire dalle caratteristiche che gli sono proprie, cristallizzatesi sotto De Gaulle e perpetuatesi con poche variazioni nell’«interregno» post-gollista (VI° e VII° piano quinquennale: 1971-1975 e 1976­1980). Tali caratteristiche possono modificarsi o riformularsi, ma non si cancellano con un colpo di spugna. Il fattore militare fa valere ancora una volta tutto il suo peso, poiché, come abbiamo visto, intorno agli imperativi della deterrenza atomica a tutto campo (ricordiamo che i test atomici a Mururoa proseguiranno fino al 1996) e dell’indipendenza nella produzione di armamenti, sussiste tutta una rete di rapporti intersettoriali che vanno al di là del mesosistema stesso, coinvolgendo in misura diversa i settori dell’energia (si pensi al parco delle centrali nucleari sviluppato a partire dagli anni 1970, che ha fatto della Francia, fino alla débàcle energetica del 2022, un esportatore netto di di elettricità), dei cantieri navali, dell’aeronautica civile, delle infrastrutture ferroviarie, satellitari e delle telecomunicazioni, etc. Anche in ragione di una più debole spinta alla redditività immediata, visti i tempi di rotazione del capitale e la preponderanza delle commesse pubbliche, marginalizzare un simile ecosistema è un compito ben più arduo che ristrutturare il settore dell’automobile o liquidare la siderurgia. Donde, per le nuove frazioni egemoni del capitale francese, l’impossibilità di un allineamento all’opzione apertamente atlantista e neo-liberale (Thatcher-Reagan). L’europeismo si pone dunque come l’opportuna «via di mezzo» fra Scilla e Cariddi (americanismo e nazionalismo neo-gollista). Le sue implicazioni sul piano strettamente macroeconomico verranno misurate e affrontate di volta in volta sul filo del processo di integrazione europea, il cui pilotaggio inizia a sfuggire al controllo francese sostanzialmente a partire dall’entrata in vigore della moneta unica. Questa era stata pensata, da parte francese, come una camicia di forza da imporre alla Germania riunificata, ma il grande capitale tedesco e in particolare il suo settore esportatore, hanno rapidamente compreso che con i dovuti aggiustamenti potevano trarne vantaggio. Ciononostante, i vincoli di bilancio imposti alla spesa pubblica e il divieto relativo agli aiuti diretti degli stati alle imprese, furono considerati accettabili da parte francese precisamente perché promettevano di rafforzare la pressione sui settori strategici di antica tutela gollista con il pretesto del vincolo esterno. La scomposizione delle grandi aziende che dominavano questi settori, accompagnata dalla promozione di acquisizioni da parte di grandi gruppi stranieri, principalmente americani ma non solo — cessione di Lafarge a Holcim, di SFR e Numericable a Altice, di Alstom Energy a General Motors, di Alcatel a Nokia, di Arcelor a Mittal, di Spotless a Henkel, etc.14 — e i piani di riduzione del nucleare nel mix energetico nazionale, non si sono fatti attendere. Anche la reintegrazione nel comando della NATO (2009) e l’assegnazione dell’esercito a funzioni di anti-terrorismo in patria e all’estero, si iscrivono nel medesimo programma di debilitazione dei settori strategici e di cancellazione di ciò che Alain Joxe chiamava il «particolarismo» dell’esercito francese: missione compiuta, a occhio e croce, vista la dipendenza dalla logistica e dall’intelligence USA di cui l’esercito francese ha dato prova nelle più recenti missioni in Africa centrale… e la spazzatura ideologica pro-atlantista che certi suoi esponenti diffondono senza vergogna sulla guerra in Ucraina in televisione e sui giornali.

Che questo tipo di «politiche industriali» (o anti-industriali?) si combinino con un sistema di protezione sociale relativamente esteso e articolato — sulla carta il più costoso dell’UE a 27 paesi (34% del PIL; solo la Finlandia e la Danimarca vi si avvicinano) — non è né sorprendente né fortuito. La conservazione di un corposo sistema di welfare e la moltiplicazione dei meccanismi di redistribuzione (in questo caso dall’alto verso il basso) che marcano tutto il periodo post-1983, fino alla grande crisi del 2008 ed oltre, non sono in contraddizione con quanto precede — al contrario. L’ampliamento delle voci di «spesa sociale» (salario indiretto, scuola e sanità pubbliche, sussidi vecchi e nuovi) ha permesso alle frazioni egemoniche del capitale francese di sottrarre risorse ai settori strategici di antica tutela gollista, rispondendo allo stesso tempo alle aspirazioni di rinnovamento della classe media e limitando le nostalgie di nazionalismo economico e politico fra gli operai e gli impiegati, anche malgrado la debole progressione dei salari e l’estensione della disoccupazione strutturale. Il sistema pensionistico a ripartizione (cfr. oltre) svolge in questo quadro una vera e propria funzione di perno per la conservazione degli equilibri sociali e politici — funzione che nel secondo dopoguerra non ha mai avuto, e che prende piede solo con l’introduzione dell’età pensionabile a 60 anni nel 1981. Il sistema pensionistico, da un lato funge da valvola di sfogo alla frustrazione che i salariati accumulano sul posto di lavoro — sublimandola nell’attesa di una fase della vita in cui diviene possibile non lavorare più —, dall’altro alimenta un enorme bacino di elettori che nel preciso istante in cui smettono di lavorare sposano i mantra liberali, quali che fossero i loro orientamenti politici precedenti (ciò è stato vero, almeno fino in anni recenti, anche per i pensionati meno abbienti; lo scollamento di queste fasce rispetto all’ establishment si è esplicitato solo con il movimento dei Gilets Jaunes).

I governi di vario colore che dalla crisi del 2008 ad oggi hanno messo mano al sistema pensionistico, hanno corso e corrono dunque rischi considerevoli, e ne sono senz’altro coscienti; ma tirano la corda finché possono, e finché la corda non si spezza i fatti danno loro ragione. Il nocciolo della questione, manifestatosi a partire dalla Grande Crisi (se non prima), è che i massicci meccanismi di redistribuzione fiscale che abbiamo a più riprese evocato, come pure il sistema del welfare, si riproducono correttamente solo se esistono in misura sufficiente i redditi primari necessari ad alimentarli: salari e profitti. Se la dimensione della torta da dividere fra salari e profitti aumenta poco e/o meno rapidamente, l’aumento dell’una o dell’altra parte si fa sempre più a spese dell’altra. Inoltre, al conflitto sulla posizione del cursore fra salari e profitti, si sovrappone un altro conflitto, che può presentarsi sotto forme diverse, 14 per sapere quale parte della torta (salari o profitti, appunto), dovrà sopportare maggiormente i costi dei meccanismi di redistribuzione fiscale, o colmare i buchi nel frattempo creatisi nel sistema di welfare. Nell’ultimo quindicennio, sotto i colpi della de-industrializzazione, le difficoltà sul piano della produzione dei redditi primari hanno paradossalmente finito per impegnare una parte ancor più importante del bilancio statale, fino all’impennata del «quoi qu’il en conte» pandemico. È ugualmente in questo quadro che ha preso piede ciò che i francesi chiamano enrichissement de la croissance en emploi (arricchimento della crescita in termini occupazionali) — con questa particolarità rispetto ad altri paesi, che essa fa il paio con una forte terziarizzazione15, cosa che rende la dinamica dell’occupazione meno sensibile all’andamento del ciclo industriale. La compensazione, peraltro molto parziale, della perdita di impieghi industriali con impieghi mal remunerati e dallo statuto talvolta incerto (a cavallo tra lavoro dipendente e indipendente), è essa stessa un fattore di diminuzione dei prelievi obbligatori per il welfare e della base imponibile. In definitiva, quello che abbiamo descritto fin qui è un circolo vizioso che moltiplica indefinitamente le occasioni di attrito, facendo delle riforme del welfare, della fiscalità o del mercato del lavoro i grandi momenti di coagulazione dello scontento non solo degli operai e degli impiegati, ma anche degli strati inferiori della classe media del settore pubblico e (in misura minore) di quello privato16. Questa considerazione permette di dare senso alla sequenza di grandi movimenti sociali che ha scandito l’ultimo quindicennio in Francia, priva di equivalenti nella cerchia dei paesi a capitalismo maturo: movimento contro la riforma delle pensioni del 2010 (passaggio dell’età pensionabile da 60 a 62 anni), movimento contro la Loi Travailnel 2016, movimento dei Gilets Jaunes nel 2018-2019, movimento contro la riforma delle pensioni del 2019 (poi abortita a causa del Covid), fino ad arrivare al movimento in corso.

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Il disegno di legge attualmente in discussione è la riscrittura di un altro progetto in cantiere già sotto il primo governo di Emmanuel Macron (2017-2022). Alla sua prima elezione, il neonato partito di Macron aveva annunciato una riforma sistemica del sistema pensionistico, cioè una sua trasformazione complessiva, non meramente parametrica. Questa trasformazione complessiva doveva includere, almeno inizialmente, tre elementi convergenti:

  1. la soppressione dei cosiddetti regimi speciali, cioè delle varie casse pensioni gestite separatamente dalla cassa generale, che viene alimentata dai contributi (siano essi «salariali» o «padronali»: la distinzione è solo formale dal punto di vista della massa salariale totale) della vasta maggioranza dei lavoratori dipendenti (circa l’80% del totale). Alcune di queste casse sono deficitarie, vuoi perché legate a settori che non esistono più, o quasi — e quindi ormai prive di una contribuzione che le alimenti, mentre esistono ancora le pensioni da erogare — vuoi perché legate a settori nei quali la soglia dell’età pensionabile è più bassa rispetto a quella del regime generale — in questo caso ad essere sotto accusa sono principalmente i regimi pensionistici dei dipendenti della SNCF (ferrovie) e della RATP (trasporti pubblici della regione parigina). Il deficit di tutti i regimi speciali messi assieme — e sono diverse decine, da quello per i dipendenti della Banca di Francia a quello delle manifatture tabacchi, passando per quello dei notai — pesa in tutto per circa 5 miliardi di euro l’anno, che vengono colmati dal bilancio dello Stato in senso stretto, dunque dalla fiscalità diretta e indiretta o dal debito pubblico. Se è un dato di fatto che i regimi speciali non godono di un grande favore popolare, una vera forza riformatrice si darebbe, come minimo, la pena di distinguere, in questo vasto calderone, quali conservare e quali modificare o eliminare. All’inverso, sopprimere i regimi speciali tout court significa semplicemente sopprimere una voce di spesa del bilancio dello Stato in senso stretto «sciogliendola» nelle casse del regime generale delle pensioni;
  2. la soppressione della nozione stessa di età pensionabile, uguale in linea di principio per tutti i lavoratori salariati, in favore di un sistema a punti incentrato sulla nozione fluida di age pivot («età- perno»), essa stessa legata al valore dei «punti»» (suscettibile di modifica in funzione dell’evoluzione demografica e budgetaria, come accade nell’ambito delle pensioni complementari private);
  3. la trasformazione del sistema pensionistico a ripartizione — in cui i lavoratori attivi finanziano attraverso i loro contributi le prestazioni previdenziali in favore di chi si è già ritirato dal lavoro — in un sistema a capitalizzazione finanziarizzata, in cui i contributi versati da ciascun lavoratore vengono «capitalizzati» e immessi sui mercati finanziari, per finanziare la sua pensione futura.

Arriviamo così al conflitto dell’inverno 2019-2020. È passato appena un anno dall’inizio del movimento dei Gilets Jaunes, che ha fatto irruzione sulla scena nel novembre 2018 protraendosi fino all’estate seguente, e il governo Macron, dopo essere stato costretto a stanziare un contentino di 17 miliardi in misure di sostegno ai redditi bassi, sembra deciso a riguadagnare il terreno perduto. Il progetto di riforma suscita manifestazioni di piazza e scioperi importanti, ma limitati quasi esclusivamente al pubblico impiego e ai settori para-statali toccati dalla soppressione dei regimi speciali (37 giorni di sciopero alla SNCF). Nel corso della contrattazione con le parti sociali, il progetto di riforma sistemica si va già trasformando in una riforma solo parametrica, quando l’epidemia di Covid- 19 blocca l’applicazione del testo già approvato in parlamento fino al termine del mandato di governo. Il progetto di riforma attuale riprende il filo da dove si era interrotto: una riforma non sistemica, ma parametrica, con la soppressione dei regimi speciali solo per i nuovi assunti e il passaggio dell’età pensionabile (a tasso pieno) da 62 a 64 anni. Dei tre punti qualificanti precedentemente citati, il passaggio al sistema a capitalizzazione è stato soppresso (per quanto il Senato abbia cercato di rimetterlo all’ordine del giorno), il sistema a punti con age-pivot è scomparso, e la soppressione dei regimi speciali è mantenuta solo per le nuove assunzioni. Un progetto di riforma piuttosto al ribasso, dunque, ornato da qualche sparuta misura di «giustizia sociale», come l’innalzamento cosmetico delle pensioni inferiori a 1200 euro, volta a mascherare la penalizzazione dei lavoratori precoci e delle carriere discontinue (delle donne in particolare).

Il vasto movimento sociale suscitato da un progetto di riforma che l’economista Patrick Artus — non certo ostile al governo — ha definito «insignificante»17, indica in primo luogo che l’atmosfera è cambiata rispetto al periodo del primo mandato di Macron. Dopo la crisi economica e sanitaria legata al Covid- 19, dopo il ritorno dell’inflazione e della guerra in Europa, le condizioni di lavoro di strati importanti della popolazione (non solo proletari) si sono degradate. Anche il declino francese è divenuto per molti aspetti più palpabile — dalla crisi permanente che attraversano la scuola e la sanità pubbliche, agli scandali a ripetizione che hanno punteggiato l’era-Macron, fino all’incapacità manifesta di avere voce in capitolo nel dossier ucraino. La mutazione del contesto generale ha indebolito il partito personale di Macron, e la parte più arrabbiata della società lo ha senz’altro percepito. Macron è certo stato rieletto nel 2022, ma la sua base elettorale si è fortemente ridotta, come pure la sua credibilità, anche di fronte all’opinione moderata. Le sue pose marziali fanno ormai sorridere. Doveva essere il grande «rottamatore» in salsa francese — rottamatore del Partito Socialista e dell’«eccezione francese» nel suo complesso — ma fino ad ora ha raccolto solo pochi successi parziali, al prezzo di un clima di guerra sociale strisciante suscettibile di degenerare da un momento all’altro e, dopo le ultime elezioni legislative, della perdita della maggioranza assoluta in parlamento, con pochi margini di intesa con le opposizioni. Doveva essere il campione della start-up nation e della «liberazione delle energie» imprenditoriali, ma alla prova dei fatti non è stato in grado di «modernizzare» granché. Il Covid-19 e la vicenda ucraina hanno senz’altro giocato un ruolo importante nel determinare i cambiamenti di rotta intervenuti rispetto all’agenda iniziale del Presidente. Per una parte del suo elettorato, Macron doveva essere l’uomo del risanamento dei conti pubblici, ma sotto la spinta degli eventi lo Stato francese, dal 2020 ad oggi, ha speso come mai prima, con un rapporto debito/PIL passato dal 97,4% nel dicembre 2019 al 112-113% attuale. In pochi, nell’ambito dello spettro politico parlamentare e dei media mainstream, difendono ancora la religione dei «conti in ordine», e dopo il whatever it takes pandemico del 2020 e tutti i miliardi spesi per calmierare i prezzi di energia e carburanti, è difficile perorare la causa di «misure di austerità», il cui comune denominatore è di essere sempre e solo peggiorative dello status quo ante per la gran massa dei diretti interessati. Tanto più che il regime previdenziale generale non è in deficit, ma ha un attivo di qualche miliardo, e da un punto di vista strettamente contabile, la sua riforma non presenta alcuna urgenza. Secondo le stime utilizzate dal governo, il regime generale entrerà in squilibrio tra qualche anno, con un deficit stimato in una quindicina di miliardi nel 2035 — un «buco» che un aumento della contribuzione dello 0,1% sull’insieme delle buste paga basterebbe a colmare. Perché dunque non rimandare le riforme impopolari a più tardi? Macron e i suoi «mandanti» sanno ovviamente che il Presidente non è rieleggibile per un terzo mandato consecutivo, che la vittoria di un candidato social-liberale ed europeista (ancora da trovare) nel 2027 è tutto fuorché scontata, e che le colpe di Macron ricadrebbero anche sul successore incaricato di difendere e proseguire la via da lui tracciata. Meglio dunque bruciare le tappe. Viene però da chiedersi chi siano, in questo caso, i «mandanti» di Macron. Il padronato francese? In un paese in cui il tasso di occupazione fra gli attivi che hanno superato i 55 anni di età è tra i più bassi d’Europa, riesce difficile credere, in tutta serietà, che esso muoia dalla voglia di assumere o tenersi stretti lavoratori che hanno oltrepassato la sessantina. I mercati finanziari? È vero che i tassi d’interesse nominali sul debito pubblico francese sono aumentati nel corso dell’ultimo anno (2,8% per i buoni del Tesoro a un anno e 2,6% per quelli a 10 anni, a gennaio 2023), ma il tasso d’inflazione li supera di diversi punti percentuali, quindi i tassi d’interesse reali restano negativi. L’Unione Europea? È un dato di fatto che la riforma del sistema pensionistico figuri da tempo fra le raccomandazioni del Consiglio europeo indirizzate alla Francia per ridurre il rapporto deficit/PIL (che la Francia, anche ai tempi in cui il Patto di Stabilità era in vigore, ha raramente rispettato), e che essa appaia già dalle prime pagine del Programma di stabilità 2022-2027, presentato in sede europea nel luglio del 2022. Né le raccomandazioni del Consiglio né le promesse fatte dal governo obbligano quest’ultimo a tentare il tour de force su un progetto di riforma così mal strutturato. Restano i grandi fondi di investimento à la Blackrock, che sembravano dover essere i grandi vincitori del progetto di riforma delle pensioni nella sua versione iniziale (quella del 2019) in ragione della paventata generalizzazione del sistema a capitalizzazione. Se così fosse, non si vede come il gioco possa valere la candela: permettere alle pensioni complementari private di prendere piede fra le categorie socio­professionali che possono permettersele, con benefici relativamente modesti e comunque non immediati per Blackrock & co., giustifica il rischio di uno scontro sociale su vasta scala? Insomma, questa riforma delle pensioni sembra essere in realtà una riforma delle finanze pubbliche volta a risparmiare qualche miliardo, a costo di far infuriare i salariati e di lasciare tiepidi gli imprenditori, che tra l’aumento dei costi di produzione e le negoziazioni salariali locali o settoriali, hanno ben altre gatte da pelare. Marginalmente, essa è anche una riforma del mercato del lavoro, nella misura in cui estenderebbe la popolazione attiva (ancora un arricchimento della crescita in termini occupazionali), ritardando l’età pensionabile per una parte della forza-lavoro prossima alla pensione (non certo la più «occupabile»: anche qui i vantaggi per il padronato paiono tutt’altro che decisivi). Del resto, se oggi il sindacalismo cosiddetto «riformista» o «di accompagnamento», e in particolare la CFDT, sfila nelle strade con i «duri»» della CGT, viene da pensare che esso abbia subodorato un allentamento del sostegno del grande padronato francese a Macron. L’orientamento dei vertici sindacali è la risultante di spinte multiple: quelle che vengono dalle burocrazie e dalla base, certo, ma anche quelle che vengono dal mondo imprenditoriale, con cui comunicano in permanenza.

Non è dunque sorprendente che nel dibattito politico e mediatico, esponenti e tirapiedi del governo si siano sovente messi in ridicolo nel tentare di difendere la riforma, aggrappandosi — nel migliore dei casi — a variabili che non sono decisive per la sostenibilità di un sistema pensionistico, come l’aumento della speranza di vita media o il numero di lavoratori attivi rapportato al numero di pensionati. Sono tipicamente le variabili di cui si parla per non parlare di quelle davvero fondamentali — livello dei salari netti e lordi, produttività etc. — e il tour de passe-passe viene facilmente svelato. In merito ai fattori che potrebbero rendere effettivamente difficile il finanziamento del sistema pensionistico francese di qui a qualche anno, bisogna notare che all’inizio degli anni 1980, in Francia, ad un’impresa che assumeva un dipendente remunerato con salario minimo, si applicava un ammontare di prelievi obbligatori pari al 46% del salario netto, identico a quello di tutti gli altri salari. Oggi varia tra il 4% e il 7% a seconda della taglia dell’impresa. Come già detto, la politica di riduzione del salario lordo di determinate categorie di salariati (i meno qualificati) per incoraggiare le assunzioni — guidata dall’imperativo dell’enrichissement de la croissance en emploi — contribuisce anch’essa ad affamare il sistema pensionistico, il sistema sanitario, i fondi per la disoccupazione, perché questi impieghi non vanno semplicemente a sommarsi aritmeticamente ad uno stock di impieghi già dato e invariabile. Dunque, la prosecuzione sulla strada di un modello di crescita labour intensive, senza incrementi di produttività, alla lunga non può che rivelarsi incompatibile con il sistema di welfare francese.

Dal canto suo, il movimento contro la riforma, per quanto dominato (almeno per ora) da un fronte sindacale che senza difficoltà detta i modi e i tempi della protesta, può far valere un notevole bacino d’influenza e un certo margine di estensione nel settore privato. Al di fuori di pochi bastioni comunque para-pubblici (raffinerie, porti e centrali elettriche), è stato questo il tallone d’Achille di tutti i movimenti sociali degli ultimi decenni in Francia — a partire da quelli del pubblico impiego del 1995 — in occasione dei quali fu coniata la formula «sciopero per procura»», ad indicare che il settore privato delegherebbe al pubblico impiego l’onere e l’onore di scioperare. Il suo utilizzo abituale è contestabile, poiché suggerisce implicitamente che gli scioperi degli uni vengano necessariamente approvati dagli altri — fatto tutt’altro che scontato — ma il suo uso è legittimo in riferimento alle mobilitazioni in corso, nella misura in cui la contrarietà alla riforma in una parte della popolazione attiva molto più ampia degli scioperanti e manifestanti è incontestabile. Alcuni sondaggi la stimano in otto/nove lavoratori attivi su dieci, lasciando intendere che essa vada ben oltre il proletariato propriamente detto. Ne consegue che il superamento dello «sciopero per procura»» si pone effettivamente come prospettiva di allargamento del movimento. Non basta però proclamarlo affinché si verifichi, né è immaginabile che avvenga in un colpo solo, senza una fase di maturazione caratterizzata da conflitti sporadici e inevitabilmente molto circoscritti. In quest’ottica, dall’autunno-inverno 2021, l’inflazione ha già messo in moto una (piccola) parte dei dipendenti del settore privato in maniera abbastanza trasversale (dalla chimica alla grande distribuzione) — fatto nuovo e incoraggiante per il seguito. Non è escluso che una parte di costoro articoli l’opposizione alla riforma a rivendicazioni settoriali o locali. Si deve infine rimarcare la presenza di profili atipici fra gli scioperanti che partecipano, talvolta anche individualmente, alle manifestazioni: operatori socio-sanitari, commesse di grandi magazzini etc. Dopo la pausa imposta dalle vacanze scolastiche, le giornate di sciopero nazionale a oltranza svoltesi dal 7 all’11 marzo sono state una verifica della capacità di tenuta e di allargamento della mobilitazione (la leggera flessione del numero degli scioperanti è stata compensata da un aumento di quello dei manifestanti). Il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione ha evitato al governo l’onta di vedersi rigettare il progetto di riforma dal parlamento, ma apre una crisi politica di cui è difficile prevedere gli esiti. Le violente reazioni al forcing del governo che si sono registrate un po’ ovunque, dalla serata stessa di giovedì 16 marzo, lasciano presagire non solo la prosecuzione del movimento, ma anche una diversificazione delle frazioni di classe coinvolte e delle pratiche di lotta adottate. Solo un rapido ricambio ai vertici o un’inversione di rotta da parte del governo sembrano poter bloccare sul nascere la radicalizzazione interclassista del movimento, con tutti i pro e contro del caso: da un lato, i maggiori margini di azione autonoma rispetto al fronte sindacale; dall’altro, il rischio che l’opposizione alla riforma delle pensioni, con il suo contenuto economico e il suo radicamento sociale nel proletariato, si trovi diluita in una generica opposizione alla figura-simbolo di Macron.

Questo detto, è necessario mettere in guardia dagli enormi ostacoli che si ergono di fronte al movimento, e che sono lungi dal ridursi alla fermezza dell’esecutivo o alla rassegnazione imperante che traspare, assieme alla forte contrarietà alla riforma, nelle inchieste d’opinione. Stante l’irrealtà di qualunque ipotesi di sviluppo del movimento in senso insurrezionale (il che non pregiudica un’eventuale sua radicalizzazione), la questione di fondo è quella dello sbocco politico (riformista), senza il quale un copione già scritto è destinato a ripetersi ancora e ancora, in una spirale infernale. Diciamolo chiaro e tondo: che la periferizzazione avanzi, non è un bene dal punto di vista della lotta di classe. Più essa si afferma, più esercita un effetto deprimente sui conflitti di lavoro e più i passaggi necessari per uscirne appaiono dolorosi e rischiosi (l’Italia è un caso esemplare, in questo senso). E non è certo che una porzione abbastanza significativa dei lavoratori attualmente in lotta misuri la gravità e criticità del momento storico. Dalla France Insoumise alle formazioni trotzkiste, la sinistra francese — per ovvie ragioni molto presente nelle manifestazioni — lavora affinché ciò non avvenga, agitando un neo­riformismo eclettico in cui le nobili «cause» si impilano le une sulle altre senza produrre una visione del paese possibile a partire dal paese reale. Quando da riformisti si vuole l’impossibile — che sia l’aumento dei salari senza incrementi di produttività, l’uscita dal nucleare dopodomani o la «Francia senza miliardari» di Marine Tondelier (Verdi) —, non si fa altro che preparare disastri. La NUPES, ovvero il carrozzone delle sinistre, ha inscenato l’ostruzionismo e l’opposizione dura e pura all’Assemblea Nazionale, senza risultati concreti; e si può scommettere che, una volta rifluito il movimento, comincerà a dilaniarsi in lotte intestine fra le sue varie componenti (dai Verdi al Partito Comunista Francese, passando per i residuati del Partito Socialista) o al loro stesso interno (nella France Insoumise in particolare). Piaccia o meno, la forza più atta a «capitalizzare» politicamente il movimento, soprattutto se sconfitto, resta il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen, che aveva già saputo trarre beneficio dal movimento del 2019 e dal ritorno dell’inflazione, raggiungendo il 41% dei suffragi al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2022. Dando per scontati l’insuccesso delle mozioni di sfiducia contro il governo e l’adozione definitiva del disegno di legge, il RN mantiene un profilo «istituzionale» e guarda al 2027 fregandosi le mani. I suoi successi elettorali, negli ultimi anni, sono stati impressionanti: già da tempo primo partito fra gli operai e gli impiegati che votano (i risultati in percentuale sono ormai superiori a quelli del Partito Comunista Francese nei suoi periodi più felici), nel 2022 ha registrato una progressione significativa anche nel pubblico impiego, per non parlare degli score da record ottenuti nei dipartimenti d’oltremare18 19. Ciononostante, il RN resta un partito debole dal punto di visto sia organizzativo che programmatico, privo fino in tempi recenti di una vera scuola-quadri, e in cui continuano a sussistere riflessi piccolo-borghesi ereditati dal Front National, soprattutto sulle questioni più dirimenti in materia economica (salari, atteggiamento verso la piccola impresa, ruolo dello Stato nell’economia etc.). Con beneficio d’inventario, non si può escludere che una mozione di sfiducia o l’indizione di un referendum tolgano le castagne dal fuoco, portando alla caduta del governo, se non ad elezioni anticipate. A prendere sul serio quest’ultimo (assai improbabile) scenario, non si vede bene chi — sic stantibus rebus — avrebbe convenienza a farsi avanti, e soprattutto per fare cosa. Al di là della questione del sistema pensionistico, la questione sul tavolo è quella della ridefinizione del ruolo della Francia nella demondializzazione  che va sempre più chiaramente delineandosi. Una tale ridefinizione, per assecondare anche solo modestamente le rimostranze di chi oggi sciopera e manifesta (e dei loro numerosi sostenitori passivi), dovrebbe a minima indicare la via verso una re-industrializzazione foriera di incrementi di produttività, senza i quali non vi sono grandi margini per una «più giusta ripartizione del valore aggiunto». Macron l’ha mimata molte volte, ne riprende ormai esplicitamente i temi e il vocabolario — ma per scongiurarla, o meglio per ritardarla.

In definitiva, il malheur français (tormento francese) è l’espressione di una crisi sistemica in senso proprio, potenzialmente terminale, dei pilastri che hanno retto il paese dai tempi di De Gaulle, anche malgrado la loro infelice inserzione nella mondializzazione. Nulla di ciò che si è sviluppato attorno ha la medesima solidità. Questa crisi complessiva si manifesta nella de-industrializzazione come nella fragilizzazione del welfare, nella degradazione della scuola e della sanità pubbliche come nell’inconsistenza della politica energetica, nella sudditanza alla NATO come negli ormai ricorrenti epic fail che conosce il mesosistema (si pensi alla compravendita di sottomarini da cui l’Australia si è ritirata, o al progetto-bidone di carro armato MGCS, da cui notoriamente i tedeschi sperano di potersi sfilare). Che la riforma delle pensioni venga infine adottata o meno, il re è nudo: il capitalismo francese — ammesso che voglia sopravvivere — dovrà mostrarsi capace di reinventarsi. Dobbiamo augurarci che vi riesca? Falso problema. Lotte proletarie o interclassiste minimamente vittoriose, che permettono ai loro protagonisti e a quelli come loro di riprendere fiducia nelle proprie forze, creano anche le condizioni del riformismo — lo si voglia o meno. È contro il riformismo (formale o informale) che emerge dalle lotte, che il capitale formula il suo, integrando del primo gli elementi che gli sono proficui. E quando lo spettro delle forze parlamentari non riesce ad esserne l’interprete, altre forze se ne fanno carico (la storia francese lo dimostra a sufficienza). Questo vale, in linea di principio, almeno per le aree centrali. Una crisi sociale che non comporti anche una soluzione riformista, è semplicemente una crisi senza sbocchi, priva di elementi endogeni di risoluzione. Crisi di questo tipo sono oggi una realtà quotidiana nelle aree periferiche del pianeta. Se mai ci si dovesse accorgere che un paese come la Francia (o come la Gran Bretagna, per citarne un altro interessato da ondate di scioperi), considerato fino ad oggi un importante polo d’accumulazione, è irretito da una crisi del genere, ciò vorrebbe dire che il processo di periferizzazione è pressoché irreversibile, e in ogni caso molto più avanzato e profondo di quanto uno sguardo superficiale o gli indicatori economici ufficiali lascino presagire. E in questo caso i francesi, che amano vedersi come una grande nazione che risplende sui continenti, si vedrebbero ridotti al rango di ciò che il nostro «generale», Federico Engels, chiamava popoli senza storia. Ironia a parte, la questione è teoricamente stimolante, perché nella storia del modo di produzione capitalistico svoltasi fino ad oggi, rari sono gli esempi di paesi che, dopo aver acceduto allo status di area centrale, lo abbiano durevolmente abbandonato. Ma il futuro, anche a questo riguardo, promette di riservarci delle sorprese… soprattutto in Europa.


Note
1 Sarebbe più corretto parlare di «blocco tedesco», come suggerito dall’economista israeliano Joseph Halevi. Cfr. Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra, «Moneta e credito», vol. 75, n. 298, giugno 2022, pp. 203-2011. Disponibile qui: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta e credito/article/view/17742/16870.
2 Disponibile qui:https://www.imf.org/en/Publications/Policy-Papers/Issues/2017/07/27/2017-external-sector-report.
3 «Nel terzo trimestre del 2022, la produttività pro capite nei settori di mercato non agricoli è ben al di sotto del livello pre-crisi (-3,0% rispetto al quarto trimestre del 2019). È anche molto al di sotto del trend pre-crisi (-6,4%); tra il 2010 e il 2018, il tasso di aumento tendenziale della produttività era circa dell’1% annuo. Anche la produttività oraria è ben al di sotto del suo trend anteriore, mentre durante la crisi aveva registrato un andamento opposto a quello della produttività pro capite a causa di marcati effetti di composizione settoriale.» (Fanny Labau, Adrien Lagouge, Quel impact de la hausse de l’alternarce depuis 2019 sur la productivité du travail?, «Dares focus» n. 5, 23 janvier 2023; https://dares.travail- emploi.gouv.fr/publication/quel-impact-de-la-hausse-de-lalternance-depuis-2019-sur-la-productivite-moyenne-du-travail).
4 Joseph Halevi, Europe 1957 to 1979: from the Common Market to the European Monetary System, Institute for New Economie Thinking, Working Paper n. 101, giugno 2019, p. 17.
5 Si definisce circuit du Trésor la politica di acquisti di buoni del Tesoro da parte della Banca di Francia sul mercato primario, cominciata già sotto il regime di Vichy.
6 Robert Boyer, Le capitalisme étatique à la française à la croisée des chemins, in Colin Crouch e Wolfgang Streeck (a cura di), Les capitalismes en Europe, La Découverte, Parigi, 1996, p. 106.
7 «[…] lo Stato finanziario, grazie al potente giro di vite fiscale impartito da Luigi XI (al trono dal 1461 al 1483, ndr), ebbe un certo sviluppo e respinse la precedente età regia nei fasti (alquanto relativi) di un’epoca in cui la tassazione era di scarsa importanza. Con Luigi XI il prelievo fiscale passò da 1.200.000 a 4.600.000 livres tournois, ovvero (calcolando in tonnellate d’argento) da 50/75 tonnellate a 100/135 tonnellate. Tali cifre rivelano le forti capacità contributive di un’economia e di una demografia in piena espansione [.] Sul fronte della spesa, in tempi normali quasi la metà delle risorse andava all’esercito, già permanente. Come sappiamo, questa sarà una caratteristica costante della monarchia fino alla Rivoluzione […]» (Emmanuel Le Roy Ladurie, L’État royal 1460-1610, Hachette, Parigi, 1989, p. 75; corsivo nostro, ndr).
8 Riprendiamo qui, in gran parte, le analisi contenute in Alain Joxe, Atlantisme et crise de lÉtat européen: la crise militaire, in Nicos Poulatzas (a cura di), La crise de lÉtat, PUF, Parigi, 1976, pp. 295-338.
9 Alain Joxe, op. cit., pp. 306-308.
10 Ci distanziamo qui parzialmente dalle analisi di Halevi, che tende a nostro avviso ed esagerare il ruolo di Jacques Rueff (consigliere di De Gaulle in materia economica) e delle sue fissazioni metalliste. Halevi afferma d’altronde che «se l’Europa evitò di trovarsi intrappolata in una follia monetaria aurea nel bel mezzo di un boom, fu grazie al rifiuto del presidente Johnson di ottemperare oltre un certo limite» (p. 19), il che può anche essere vero, ma il fatto che molti altri paesi si siano accodati alla Francia, mostra come i timori di un debasement del dollaro fossero sentiti da più parti. Inoltre, quali che fossero i moventi degli uni e degli altri, è comunque la sospensione della gold window in reazione alle richieste di conversione di dollari in oro, ad avere avviato la transizione verso un sistema integralmente basato sulla moneta fiduciaria, conforme ai (discutibili) presupposti teorici post-keynesiani che Halevi sembra fare propri. In termini più teorici, a nostro avviso nessun sistema monetario storicamente dato è di per sé conforme al modo di produzione capitalistico considerato nel suo concetto. Semplicemente, sistemi monetari diversi, a seconda che siano maggiormente imperniati sulla moneta-merce o sulla moneta- segno, impongono limiti di natura differente all’attività creditizia.
11 II termine è stato coniato dallo specialista d’economia industriale Jacques De Bandt. Chesnais e Serfati lo hanno ripreso come alternativa alla nozione di complesso militare-industriale, troppo generica. Per gli autori, si trattava si «esprimere la realtà che la nozione [di complesso militare-industriale ndt\ riveste con l’aiuto di analisi specifiche, che localizzano in ogni paese i luoghi decisivi in cui si sono formate le relazioni sistemiche che costituiscono detto “complesso’’. Nel caso francese, […] tra il 1958 e il 1962 si è formato un “mesosistema dell’armamento”, la cui spina dorsale è la Delegazione generale all’Armamento (DGA) presso il Ministero della Difesa, e la cui base industriale è costituita da un piccolo numero di grandi gruppi che accentrano a proprio vantaggio una parte non trascurabile del potenziale scientifico, tecnico e industriale nazionale. Una volta definita da De Gaulle la dottrina militare della force de frappe (forza d’urto) nucleare a tutto campo, integrata dagli armamenti necessari per condurre una guerra convenzionale in Europa, le procedure messe in atto [.] hanno permesso molto rapidamente l’auto-espansione della produzione di armamenti. All’inizio degli anni ’70, la creazione di un potenziale produttivo molto importante rivolto al mercato estero completò il “mesosistema dell’armamento” con una base molto solida.» (L’armement en Franse, Nathan, Parigi, 1992, pp. 8-9). Gli autori aggiungevano anche questa preziosa precisazione: «Sebbene il “mesosistema dell’armamento’ sia una creazione recente, esso poggia su basi plurisecolari. Questo vale sia per le origini storiche della produzione di armi e per la nascita del corpo di ingegneria militare, sia per il posto assegnato all’esercito come istituzione centrale, se non addirittura come pilastro dello Stato in Francia.» (ivi, p. 9).
12 «Il ruolo dinamizzante e strategico del settore degli armamenti è un’invenzione del modo di produzione capitalistico che ha ormai una lunga storia. Nato con la grande industria, è servito alla fine del secolo scorso [il XIX, ndt\ a sostenere il settore strategico dell’industria pesante con la corsa agli armamenti navali; poi a sostenere le industrie meccaniche con la corsa ai carri armati e agli aerei. Oggi si è avvicinato alla fonte scientifica della crescita delle forze produttive, è “incollato” alla scienza, è diventato la principale attività di sviluppo delle forze produttive del mondo capitalista.» (ivi, p. 335).
13 Bruno Astarian, Les grèves en France en mai-juin 1968, Échanges et Mouvement, Parigi, 1968, pp. 70-80.
14 Contrariamente a un’opinione diffusa, il numero di queste acquisizioni non è aumentato nell’ultimo decennio; semplicemente la popolazione, da qualche anno a questa parte, vi è più sensibile, come mostra nel suo piccolo la raccolta di firme del 2019 per indire un referendum sulla privatizzazione in fieri di ADP (Aeroporti di Parigi).
15 Le linee direttrici dell’arricchimento della crescita in termini occupazionali, in particolare per il terziario arretrato, furono esplicitamente formulate nel rapporto Cahuc-Dubonneuil presso il Consiglio di Analisi Economica, Productivité et emploi dans le tertiaire. Rapport au Conseil d’analyse économique, n. 49, La Documentation frangaise, Parigi, 2004.
16 Le frontiere tra riforma del welfare, della fiscalità e del mercato del lavoro sono del resto divenute labili, come vedremo esaminando più da vicino il contenuto della riforma attuale.
17 Grégoire Normand, Retraites : l’économiste Patrick Artus dépngue la réforme du gouvernement, «La Tribune», 3 febbraio 2023.
18 «Questi risultati [nei dipartimenti d’oltremare, rdr\ permettono di comprendere che il “lepenismo di sinistra”, nel 2022, non si identifica con una trasformazione di elettori della sinistra radicale in elettori della destra radicale, sulla base di valori comuni in materia di immigrazione o di xenofobia, né con un calcolo finalizzato a giocare la carta del “tutto tranne Macron, anche rischiando la Le Pen”, ma è piuttosto la ricerca di un candidato in grado di modificare rapidamente una situazione economica o sociale fragile e divenuta insopportabile. Oltremare, gli elettori sono rapidamente transitati da Jean-Luc Mélenchon a Marine Le Pen, senza che si possa seriamente sostenere che gli abitanti delle Antille, ad esempio, siano diventati improvvisamente degli adepti del lepenismo e dei razzisti nel corso del mese di aprile 2022. A Guadalupe e in Martinica, il ribaltamento della situazione è in effetti abbastanza stupefacente. Se Jean-Luc Mélenchon ottiene quasi il 57% dei suffragi al primo turno a Guadalupe, e il 53% in Martinica, Marine Le Pen sfiora il 70% al secondo turno a Guadalupe — mentre suo padre, trent’anni prima, non era nemmeno riuscito a sbarcarvi — e ottiene quasi il 61% in Martinica. In media, nei dipartimenti d’oltremare, Marine Le Pen supera il 58% al secondo turno dell’elezione presidenziale, e supera Emmanuel Macron ovunque salvo che nel Pacifico.» (Luc Rouban, La vraie victoire du RN, Presses de SciencePo, Parigi, 2022, p. 44).
19 Su questa nozione, cfr. Bruno Astarian e Robert Ferro, Le Ménage à trois de la lutte des classes, Éditions de l’Asymétrie, Tolosa, 2019, pp. 341-247.

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