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I comandanti invecchiano sempre male. Sulle proteste in Nicaragua.

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La situazione in Nicaragua si sta naturalmente normalizzando, ma il processo iniziato con le giornate di aprile è tutt’altro che alla fine. Le cifre pubblicate, d’altro canto, attestano il numero dei morti a 45 e 200 feriti nelle giornate tra il 18 e il 30 Aprile. La maggior parte di loro studenti. Quasi tutte le morti sono attribuite alle forze di sicurezza pubbliche e ai gruppi di scontro, noti come “giovani sandinisti”. Gli scontri sono cessati ma le proteste continuano. Come si collocano queste proteste nello scenario regionale? Che rivendicazioni ha formulato il movimento partito dalla contestazione della riforma pensionistica? Che peso hanno la Chiesa e gli USA?

Latinoamérica, il XXI secolo e il socialismo

[…]Los estudiantes no quieren imágenes que simbolicen el autoritarismo. En las calles han comprendido el sentido de la vida: instantánea, frágil y absurda.”

Circa due anni fa, molti osservatori, in Europa e in America del Sud, hanno iniziato ad assistere a un cambio di tendenza nel continente sudamericano, un inversione che vedeva un indebolimento e una progressiva fine dei cicli dei grandi partiti progressisti e delle organizzazioni socialiste del continente.
Questi cicli sono iniziati nella seconda metà degli anni ‘90 da una serie di movimenti e lotte di massa, diversificate, contraddittore, autonome, in senso anti-neoliberista che hanno portato all’elezione di partiti socialisti che ben presto hanno fagocitato le tendenze più indipendenti e sono stati caratterizzati, seppur ognuno con le proprie peculiarità territoriali, dall’intervento statale come strumento di ridistribuzione economica e tutela sociale, dalla lotta alla povertà con politiche economiche a tratti contraddittorie, dalla giustizia sociale come valore fondante, dalla figura centrale del leader salvatore del paese, il tutto con una forte vocazione latinoamericanista.
La fine di questa sequenza ha portato un conseguente rafforzamento delle destre nazionali; esempi tra gli altri sono la crisi venezuelana, il fallimento del tentativo di transizione democratica delle FARC, le difficoltà di Morales in Bolivia nell’adeguare le sue riforme con le reali necessità dei popoli indigeni, la presa del potere in maniera illegale di Temer in Brasile e gli attacchi verso l’ex presidente Lula, le riforme scellerate di Macrì in Argentina e il discusso esito delle elezioni politiche in Honduras, da sempre caratterizzato da lotte per il potere fratricide, con l’elezione di Juan Orlando Hernàndez, nonostante il divieto costituzionale di una sua elezione.

Tuttavia, a distanza di due anni, possiamo vedere come questa inversione di tendenza sia tutt’altro che repentina e indolore, e le destre stanno incontrando sul loro cammino difficoltà dovute a incapacità politiche, durezza delle riforme, impopolarità e incompatibilità del modello occidentale neoliberista con le strutture regionali e forse anche una leggera diminuzione della pressione politica dell’amministrazione statunitense, impegnata in altri contesti, dopo la crisi venezuelana del 2017. Inoltre, il progressivo tramonto delle realtà di sinistra sopracitate non sta significando una fine dei conflitti o della partecipazione politica di piazza, o la sfiducia nelle idee socialiste come si poteva prevedere, anzi, in molti casi sta aprendo la strada ad una nuova presa di coscienza nella popolazione, è un’apertura se non un sorpasso a sinistra delle piazze prima soffocato dalle ingombranti strutture progressiste, grazie anche all’esperienza maturata nel primo ventennio di questo secolo. Movimenti nati dal basso, strutturati in maniera più fluida e autonoma rispetto alla rigida organizzazione dei partiti, spesso spontanei, radicali e portatori di istanze femministe sono nati in tutto il continente, contestando destre e sinistre, chiedendo diritti e partecipazione, aumento del reddito e dei servizi, lotta alla corruzione, miglioramento dell’istruzione, lotta alla povertà.
Basti pensare, per quanto riguarda l’Argentina, alle oceaniche manifestazioni contro il presidente Macrì, il cui consenso sta crollando e che negli ultimi giorni ha annunciato un’ennesima richiesta di appoggio al Fondo Monetario Internazionale a causa della svalorizzazione del peso argentino e alle lotte degli indigeni Mapuche. L’assalto al Congresso del Paraguay dopo il tentativo di riforma costituzionale del presidente per permettere la sua rielezione, gli scontri e le proteste in Honduras dovute a motivazioni analoghe per le vergognose frodi elettorali che hanno già lasciato 30 morti per le strade, e la situazione è tutt’altro che pacificata. In Messico la candidata indigena Marichuy appoggiata anche da componenti studentesche e intellettuali, considerata la candidata degli zapatisti, sta tentando una ricomposizione dei popoli indigeni per una trasformazione radicale della società messicana. Le vicine elezioni in Venezuela e Colombia ci potranno, chissà, dare altre linee di tendenza rispetto ai processi sociopolitici in atto.

All’interno di molti dei movimenti un elemento centrale è la componente rappresentata da alcuni popoli indigeni che si concetrano su richieste di diritti e autonomia, facendosi portatori di un immaginario culturale “decolonizzante”, un rifiuto del modello di civiltà occidentale a partire dal linguaggio, dagli usi, dai costumi, dall’educazione, dall’economia, della politica, nel tentativo di dare dignità e rispetto alla propria gente, spesso strappata alla propria terra, alla propria cultura, alla propria storia, al proprio linguaggio.
Interessante in questo senso è il lavoro svolto dal collettivo Grupo Modernidad/Colonialidad, che riunisce intellettuali multidisciplinari che negli ultimi decenni sta cercando di elaborare una prospettiva decoloniale a partire dalle relazioni di potere instaurate nel continente e che vede nel razzismo e nel tentativo di imposizione del modello socio-culturale occidentale ed eurocentrico la base della riproduzione capitalistica nel continente. (Da segnalare tra gli altri il lavoro di Catherine Walsh riguardo alle “pedagogie decoloniali”, che ha il pregio di non dare facili risposte ma di cercare di un filo conduttore che unisca trasversalmente le varie esperienze nel continente che tentano di sperimentare una pedagogia diversa da quella occidentale dominante).

Altro fattore di queste lotte è il protagonismo e l’espansione dei movimenti femministi nel continente, trascinati dal movimento ni una menos; il machismo è molto forte in tutto il Sud America, in alcune aree rurali la situazione arriva ad essere drammatica per quanto riguarda la tratta di esseri umani, matrimoni e gravidanze precoci; il tasso di femminicidi è ancora molto alto e l’aborto è ancora considerato un tabù in gran parte dell’America Latina, nonché reato in quasi tutte le legislazioni nazionali. La Chiesa e la religione sono senz’altro i principali responsabili della difficoltà nel cambiamento culturale in questo senso.

Le recenti proteste in Nicaragua presentano tutte queste specificità e si collocano in questo magma dinamico, contraddittorio e spurio di lotte, istanze, proteste e cambiamenti politici e sociali.

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Come si è evoluta la protesta?

Il 16 aprile di 2018 il governo ha annunciato una nuova riforma dell’Istituto Nazionale della Previdenza sociale che peggiora la situazione della popolazione lavoratrice nicaraguense.
Mercoledì 18 di aprile le marce auto-convocate da studenti universitari ed altri cittadini, in distinte zone del paese, sono state assediate e minacciate dalla polizia. La situazione nazionale è diventata più complessa, al punto che diversi mezzi televisivi sono stati censurati, ma ormai era troppo tardi, giovedì 19 aprile la repressione si è intensificata e sono stati uccisi i primi studenti.
Il primo morto è stato un giovane chiamato Darwin Urbina, vittima di una sparatoria nei dintorni dell’Università Politecnica durante gli scontri del 19 di Aprile. Secondo la famiglia, tornava a casa dopo la giornata di lavoro al supermercato.

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La vicepresidente Murillo, moglie del presidente Daniel Ortega, lo storico comandante del Frente Sandinista de Liberación Nacional che sconfisse la dittatura di Somoza, ha dichiarato che il colpo era stato sparato dal perimetro universitario, dove si erano trincerati vari studenti. Quello stesso giorno la first lady ha assicurato che il suo governo non aveva detenuti civili e che i responsabili della violenza erano “gruppi pieni di odio”.
Col passare dei giorni, la realtà ha smentito la vicepresidente. La famiglia di Urbina ha accusato la polizia di avere sparato pallottole reali e non di gomma. Il 20 aprile sono inziate a crescere le vittime e le persecuzioni contro gli universitari; molti sono scomparsi. I moti di protesta si sono accesi, i collegamenti tra le città sono diventati più difficili si susseguono, scontri, barricate, molotov, scontri a fuoco, i saccheggi della popolazione e quelli orchestrati da infiltrati, i gruppi di fuoco filogovernativi, le manifestazioni pacifiche, il coraggio di una generazione. Davanti all’aumento della pressione popolare ed internazionale, il governo si è visto obbligato a liberare, martedì 24 aprile, decine di detenuti che hanno denunciato essere stati picchiati e torturati nelle celle poliziesche. I “gruppi minuscoli” si sono trasformati nel nucleo della protesta generalizzata che è stata capace di alterare tutto il corso politico nicaraguense.

La rotonda di Jean Paul Genie, nei pressi delle Università è stata sede di veglie quasi ogni notte. Proprio qui, i manifestanti hanno rovesciato due delle centinaia di “alberi della vita” che adornano il paesaggio urbano della capitale: enormi strutture di ferro illuminate da led che mimano gli alberi e vogliono essere portatori di prosperità, voluti da Rosario Murillo, Vice Presidente e First Lady del Nicaragua. I nicaraguensi li conoscono come “los chayopalos” (Murillo è conosciuta col soprannome “La Chayo”). La loro caduta si è trasformata nell’immagine iconica della rivolta di una nuova generazione: in un attimo, la caduta dei chayopalos è stata associata, sui social, all’abbattimento della statua di Somoza. Centinaia di queste strutture adornano la capitale nicaraguense e molti di esse sono state danneggiate e portano ora le cicatrici delle proteste. Dove prima c’erano i chayopalos i manifestanti hanno piantato alberi di verità con i nomi di dozzine di giovani uccisi. La veglia è diventata un’espressione all’unisono di tutti gli strati economici e sociali.

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Il 28 aprile, a dieci giorni dalla prima protesta, decine di migliaia di nicaraguensi hanno sfilato da diversi punti di Managua per trovarsi nella Cattedrale, nella marcia organizzata dalla chiesa cattolica.
I manifestanti non solo hanno dimostrato di non aver paura dello Stato ma gli hanno rubato anche le sue bandiere. Tutte. E le sventolano assieme ai suoi valori anche a scapito dei messaggi che, nella intenzioni degli organizzatori cattolici, la marcia avrebbe dovuto portare. Hanno cantato le canzoni della rivoluzione; hanno abbattutto chayopalos per seminare alberi; hanno declamato i poemi di Ernesto Cardenal [una delle figure simbolo della teologia della liberazione NdR] ed hanno cantato le canzoni dei fratelli Mejía Godoy [cantautori simbolo della rivoluzione NdR] riprendendo i grandi temi sandinisti.

È ciò che rende la situazione complessa per Ortega e contraddittoria agli occhi esterni: i suoi oppositori si considerano sandinisti. “Sandinistas, no orteguistas” differenza che, già da qualche anno, i membri della Gioventù Sandinista avevano iniziato a sottolineare. Altro fatto importante, tra i primissimi ad unirsi alle proteste, appoggiando agli studenti della capitale, ci sono stati gli abitanti di Monimbó, in Masaya, paese indigeno, terra di partigiani e stregoni, prima città ad essere liberata negli anni ‘70, culla e bastione della rivoluzione sandinista. Era la città dove si fabbricavano bombe casalinghe, riutilizzate durante le proteste in città, segno di una trasmissione degli strumenti della rivolta. Anche lì si sono registrati morti il 19 di aprile. “Rivoluzione o Morte, Vinceremo” diceva un striscione nella marcia del 28 aprile, vicino a bandiere del Nicaragua e del Vaticano. “Si potrà ammazzare un rivoluzionario, ma non la rivoluzione”, diceva un altro. Le città in cui si hanno le maggiori manifestazioni, non a caso, sono quelle in cui storicamente il Frente è stato più forte e da cui la rivoluzione, quarant’anni fa, si è propagata, mentre è stata più debole se non assente nelle città tradizionalmente più conservatrici, dove risiedono maggiori capitali e le persone sono più ostili alla rivoluzione.

La vicepresidente, in seguito, ha fatto appello alla riconciliazione e celebra ora le veglie funebri ma i manifestanti esigono le sue dimissioni e quella di suo marito, il presidente Ortega. Il capo dello stato ha per lo più sostenuto un discorso in cui si associano le istanze studentesche alle cause per le quali i primi sandinisti lottarono, che negli ultimi tempi erano state lasciate alla manipolazione propagandistica o in parte abbandonate. La memoria storica della rivoluzione è infatti meno tutelata di quanto si possa credere in nome della pace sociale ma ciononostante i giovani stanno dimostrando di custodire questa memoria storica più di quanto si potesse immaginare, per le pratiche messe in atto e il riconoscimento di un filo conduttore tra le loro lotte e quelle dei loro genitori e nonni .

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Il 30 Aprile, in commemorazione del Giorno dei Lavoratori, Ortega ha tenuto il suo comizio di fronte a decine di migliaia di persone in una piazza con decine di bandiere nicaraguensi e del FSLN, in una dimostrazione di forza contundente. Nel suo discorso non ha riconosciuto responsabilità alcuna delle sue forze per la violenza ma ha chiesto un minuto di silenzio per le vittime. Come negli altri suoi interventi pubblici ha sostenuto la dignità e la bontà delle proteste degli studenti in favore dei lavoratori, riconoscendo la mancanza di un tavolo di discussione prima della riforma, decidendo di bloccarla e invocandone una nuova che potesse mettere tutti d’accordo. Per Ortega le responsabilità delle proteste sarebbero da cercare altrove: in particolare nell’imperialismo statunitense e nell’infiltrazione di gruppi da essi finanziati nelle proteste. D’altronde, Ortega ha il terrore che il Nicaragua diventi un altro Venezuela, e solo così è possibile spiegare la reazione disordinata che le istituzioni hanno avuto davanti alle prime proteste pacifiche dei giovani. Da anni il FSLN lotta effettivamente contro le ingerenze nella politica interna che alcune ONG occidentali hanno cercato di imporre ma sarebbe miope pensare che ciò che sta succedendo sia tutto dovuto agli yankees. Gli USA sono sicuramente interessati al rovesciamento dell’attuale governo Nicaraguense ma non è certo il grande manovratore dietro a queste proteste che invocano delle migliori condizioni di vita e non altri morti, di cui la storia del Nicaragua è già piena.

¡ Que se rinda tu madre!” E’ uno degli slogan di battaglia, l’hashtag che ha trascinato l’insurrezione, il suo mantra. E’ una frase convertita in canto rivoluzionario, attribuita al poeta combattente sandinista Leonel Rugama, che la pronuncio prima di morire davanti al generale somozista che esigeva la sua resa. “¡Que se rinda tu madre!”. Questo, insieme al grido storico “¡Que viva Nicaragua libre!”, che un tempo fu anche il grido di Daniel Ortega. Oggi è la congiura della piazza per liberarsi di lui. La memoria della rivoluzione sandinista che eresse il comandante tra gli eroi della patria, oggi gli si ritorce contro. Vari striscioni hanno infatti accompagnato una diversa interpretazione di questi giorni, come a voler dimostrare che Ortega ha perso il suo forte contatto con le strade, fulcro del suo successo: DANIEL E SOMOZA SON LA MISMA COSA.

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Quale Sandinismo? E quale Chiesa?

Dopo che il Frente Sandinista de Liberacion Nacionale, FSLN, perdette le elezioni presidenziali del 1990, in un contesto di guerra e povertà estrema, il paese cominciò a frammentarsi, e le differenze interne fecero sì che molti dirigenti e intellettuali che avevano lottato contro la dittatura somozista lasciassero il Frente. Durante gli anni novanta si sviluppò una lotta costante contro i governi neoliberali, “dal basso”, come sostenuto fin dal primo discorso dopo la sconfitta da Ortega, che assieme a sua moglie e attuale vicepresidente si appropriarono della simbologia sandinista per creare una solida base elettorale in distinti settori della popolazione, destabilizzando le opposizioni povere di capacità e proposte politiche. I governi che si susseguirono nel ventennio neoliberista, tra corruzione e inadempienze, non furono in grado di tirar fuori il paese dalla povertà.

Nel 2007 il presidente del FSLN ritorna al potere, la popolazione cercava un cambiamento, i simboli della rivoluzione erano diventati rassicuranti e rappresentavano la possibilità di realizzare un cambio di passo positivo per il paese. Col passare degli anni abbiamo assistito a una evoluzione nei temi politici. Rosario Murillo in Ortega si fa portatrice di un discorso di pace, amore e solidarietà (promuovendo slogan come “nella benedizione, nella prosperità e nella vittoria” o “patria cristiana, solidale e socialista”). Un progressivo cambio nei contenuti che, al tempo, vengono considerati come simboli di una nuova tappa sandinista. 

Per questo, prima di tutto, è importante chiarire che il popolo nicaraguense attualmente non sta lottando contro quel partito sandinista che un tempo impose la presenza del Nicaragua nella politica mondiale e neanche lotta contro quella Juventud Sandinista che organizzò una delle meglio riuscite campagne di alfabetizzazione della storia contemporanea, la Cruzada de Alfabetización Heroès y Màrtires por la Liberación de Nicaragua: un grande movimento di massa al quale parteciparono nicaraguensi di tutte le classi sociali insieme a migliaia di maestri inviati da Cuba e migliaia di cooperanti internazionali (si stima che i partecipanti furono 60’000). I volontari raggiunsero gli angoli più remoti del paese per insegnare a leggere e scrivere, in un anno l’indice di analfabetismo passò da più del 50% al 12%. Dopo 16 anni di governi capitalisti e neoliberisti, l’analfabetizzazione crebbe di nuovo fino al 36,9%, stimolando nel 2006 l’attuazione del programma “Yo si puedo” ideato da Cuba per promuovere la lettura e la scrittura a livello di massa.

Nelle proteste, c’è invece una profonda commistione con il cristianesimo, che si unisce ad elementi di misticismo e folklore e a ideali profondamente socialisti e rivoluzionari che in Centroamerica si fondono in armonia. Tutto ciò appare contraddittorio e di difficile lettura ad occhi occidentali ed in particolare italiani, visto il potere temporale di cui la Chiesa gode sul nostro territorio e il suo essere, di fatto, una giusta controparte in svariate lotte. Bisogna tuttavia considerare che la colonizzazione e l’evangelizzazione in Centro America è stata talmente forte che i caratteri del cristianesimo sono fortemente radicati a livello culturale (anche se in Nicaragua forse inizia a verificarsi un lento cambio tra i giovani.) La Teologia della Liberazione impregnava la rivoluzione sandinista, nei suoi governi entrarono come ministri i gesuiti Fernando ed Ernesto Cardenal, e il religioso Miguel d’Escoto come cancelliere. Erano i leader della “Chiesa popolare”, che appoggiava la rivoluzione e la causa dei poveri contro i progetti conservatori della maggioranza del clero, contro un episcopato molto, troppo tradizionale e contro lo stesso Vaticano. Un mix che cozzava con la vocazione conservatrice Woijtila. Tutti ricordano l’indignazione del Papa per l’enorme striscione che lo ricevette all’aeroporto nella sua visita al paese nel 1983, che pregava: “Bienvenido a la Nicaragua libre gracias a Dios y a la revolución”  e che ben spiega questa commistione di religione e rivoluzione. Indignato, Juan Pablo II colse la prima occasione che gli si presentò, per ammonire pubblicamente Ernesto Cardenal. Quella celebre foto fece il girò del mondo, col Papa appena sceso dall’aereo alzando il dito ed esigendo da Cardenal che abbandonasse la politica, mentre il gesuita conficcava il ginocchio in terra, si toglieva il basco, lo guardava tra sorridente e sorpreso, mentre sopportava stoicamente la sgridata.

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Nella piazza di fronte al portone principale della moderna cattedrale, al termine della marcia del 28 Aprile, il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Báez, sostenitore di Papa Francesco, è stato acclamato come nessun altro individuo in queste rivolte. Báez si è trasformato nel simbolo e portavoce di una chiesa critica col regime di Ortega. È stato il primo nel condannare la repressione poliziesca e nel difendere gli studenti, mentre la prima dama e vicepresidente li accusava di essere gruppi “minuscoli” al servizio di interessi per destabilizzare al governo. Con Báez, la chiesa cattolica nicaraguense si è convertita nell’unico garante di questo confuso processo, grazie alla determinazione del prelato nell’accompagnare gli studenti.
Prima di questa repressione, la Chiesa aveva mantenuto una “relativa neutralità col regime”, secondo il sociologo Óscar René Vargas. Benché in queste ultime settimane, i vescovi, con il monsignore Silvio Báez in testa, si sono schierati in difesa degli studenti massacrati dalle forze di scontro del Governo ed hanno accettato l’invito di essere garanti del dialogo nazionale invocato da Ortega, la Chiesa ha mantenuto una relazione tutto sommato rispettosa col Governo e ciò fa supporre che nel clero ci sia una spaccatura tra vescovi filogovernativi e vescovi contro il governo.

La Chiesa ha convocato ad un tavolo di dialogo nazionale che potrebbe servire anche da ossigeno per Ortega: con la folla in piazza per le strade che esige la sua dipartita, un tavolo di dialogo permetterà al governo di riorganizzarsi, raffreddare le manifestazioni per strade e dimostrare apertura. Ricordiamoci sempre che stiamo parlando della Chiesa di Roma, un’istituzione che ha tutti gli interessi nell’accumulare più forza, potere e consensi in Nicaragua per legittimare le proprie missioni (un paese in cui sono presenti e numerosissime tutte le differenti correnti cristiane, e quella cattolica soprattutto in alcune aree è lungi da essere la più forte), strumentalizzando e normalizzando le proteste in senso reazionario. D’altro canto questa possibilità di dialogo, ha già sottilmente comunicato la Chiesa, non è eterno.

Lo Sviluppo del Nicaragua

L’arrivo di Daniel Ortega al potere ha coinciso con il culmine della grazia petrolifera di Hugo Chávez in Venezuela. L’importanza della cooperazione venezuelana, attraverso crediti legati al petrolio, esportazioni, investimenti in centrali elettriche, tra gli altri, arrivarono a rappresentare in media quasi il 13.7 percento del PIL. L’accordo di cooperazione apportò più di quattro mille milioni di dollari in questi 11 anni di governo del Frente. Il Venezuela, inoltre, si trasformò nella seconda destinazione per importanza delle esportazioni nicaraguensi.

Le casse dello stato piene permisero al Governo finanziare programmi sociali, comprare mezzi di comunicazione e mantenere i benefici agli imprenditori per mezzi di sussidi ed esenzioni. Hanno reso pubbliche e gratuite per tutti e tutte la sanità e l’istruzione. La moneta nazionale si è rafforzata. Il Nicaragua ha privilegiato il commercio e la sicurezza, ha beneficiato di un sensibile aumento del turismo dovuto, tra l’altro, alle 26 riserve naturali istituite sul territorio dalla Rivoluzione Sandinista; grazie alla rivoluzione prima e alle politiche del partito di Ortega successivamente il Nicaragua è diventato il paese più sicuro del Centroamerica, non sono presenti i gruppi di criminalità organizzata che invece operano spregiudicati in quasi tutti gli altri stati confinanti. Ciononostante, da due anni, l’economia nicaraguense ha iniziato a registrare segnali contrastanti: innanzitutto la diminuzione nelle vendite di automobili, case e consumo in generale. La mancanza di denaro e l’entrata nell’FMI con i suoi diktat ha poi obbligato il Governo ad adottare misure di austerità per salvare il bilancio statale.
Ciononostante ci sono diversi altri elementi che sono serviti a mantenere la stabilità nel paese. Nonostante gli accordi commerciali con la Cina e nonostante la discussione al Congresso USA del Nica Act – con cui gli Stati Uniti potrebbero impedire ogni prestito al governo di Ortega da organismi finanziari internazionali e una commissione di investigazione per vigilare sui miglioramenti nella “democrazia” dello stato Nicaraguense –  l’attacco da parte degli Stati Uniti è meno forte in questo momento.

Gli Studenti, l’autonomia

Gli studenti di tutte le università della parte occidentale del paese hanno dimostrato con le loro proteste, di non accettare nessun tipo di repressione. Era dal 2009 che non si vedevano manifestazioni forti in Nicaragua, e già allora il Frente sembrava essere sul punto di cadere ma tenne botta. Nelle giornate d’Aprile diversi moti di protesta si sono estesi a macchia di leopardo con i manifestanti che uscivano nelle strade a qualunque ora. Non pensavano, i dirigenti di partito, che le generazioni dei millennials potessero costruire trincee di cemento armati di mortai fabbricati artigianalmente, da sempre lo strumento preferito delle insurrezioni nicaraguensi, assieme con la cittadinanza che li ha appoggiati portando viveri, farmaci, prestando soccorso o le proprie competenze in una vera è propria situazione di contropotere. Gli studenti hanno chiesto tempo per selezionare i propri rappresentanti ma, soprattutto, per determinare che cosa sta succedendo tra le loro fila. La tensione incrementa e la ricerca di organizzazione è forte a livello nazionale.

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Da quando sono riesplose le proteste contro il governo, chiamato “regime” dai manifestanti, il 18 aprile scorso, gli universitari si sono trasformati in protagonisti di una storia della quale ora dovrebbero cercare di tenere le redini. Senza strategie, senza agenda, senza organizzazione di nessun tipo, hanno acquisito una responsabilità e un potere grazie ai rapporti di forza che hanno saputo costruire strada per strada. Si tratta di una generazione che spontaneamente ha fatto saltare in aria tutte le paure, tutte le censure, tutta la repressione accumulata durante decenni di controllo da parte di tutti gli apparati dello Stato. Nessuno poteva prevedere questa detonazione. Ora che sono entrati a gamba tesa in questo processo storico, la speranza è che gli studenti diano forma duratura alla rivolta estemporanea. Certamente ci sono le difficoltà, la stanchezza, l’inesperienza, si temono gli infiltrati e le strumentalizzazioni, probabilmente già iniziate. Sono passate più di due settimane e non esiste ancora una leadership chiara.
Oggi sostengono di lottare contro una famiglia che utilizza per propria convenienza il suo passato con discorsi che, al di la del convincere i cittadini riguardo a una pace conciliatrice, pongono in evidenza le politiche autoritarie che censurano qualsiasi tipo di discorso differente. Nell’aprile del 2018, le contraddizioni in Nicaragua sono esplose. Le decisioni arbitrarie del presidente Ortega e la vicepresidente Murillo hanno fatto sì che gli studenti scendessero in strade pacificamente marciando contro questi errori. Le autorità da parte loro hanno risposto col pugno duro sulla popolazione studentesca pesando di risolvere le cose in fretta senza considerare l’incredibile velocità di proliferazione delle informazioni attraverso i social network, che hanno fatto si che le notizie e l’eco di ciò che stava succedendo raggiungesse una magnitudo incredibile. Questi giovani che sono scesi in piazza, adolescenti o giovani lavoratori, studenti universitari, sono una generazione che non ha vissuto né la rivoluzione ne la guerra civile, la prima ad avere un contatto significativo col mondo occidentale e latinoamericano grazie a un maggior movimento di persone in entrata e in uscita dal paese. 

Il Politecnico si è trasformata nel quartiere generale degli studenti. Fino a una decina di giorni fa era un ribollire di gente che portava viveri e medicine per aiutare gli studenti trincerati in università. Pur rimanendo occupata i numeri, ora, si sono progressivamente, e fisiologicamente ridotti. In questo, un grande lavoro di normalizzazione della protesta è stato fatto dalla Chiesa, che intervenendo ha di fatto gettato acqua sul fuoco, promettendo agli studenti partecipazione e stimolandoli a trovare forme più “democratiche”, in una maniera di disinnescare i conflitti che conosciamo bene.

Le persone si guardano negli occhi e stanno, forse senza saperlo, dando forma a un movimento che con pratiche autonome chiede maggiore libertà, la possibilità di scegliere per il proprio futuro, più reddito, educazione e controllo sulla propria vita, e lo vuole per tutti e tutte, per tutto il popolo nicaraguense con un filo conduttore con le istanze della prima rivoluzione sandinista, una rivoluzione che fu veramente di massa e largamente condivisa. Molto importante a livello culturale è il concetto di Patria portatrice anche da queste parti di diverse ambivalenze: il paese è formato da una commistione di culture, usi, etnie indigene, ed è tutt’altro che omogeneo ma la patria qui è vista esattamente come una comunità in lotta che si è liberata, ed ha liberato tutto il territorio decenni prima, e che quindi vuole tornare ad essere libera a partire dalle differenze: “un terzo della popolazione ha vissuto durante la Rivoluzione, sappiamo già come si fa” dicono i manifestanti.

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Un altro carattere che lega la nuova ondata di proteste alla rivoluzione sandinista è il ruolo di primo piano preso dalle donne. Proprio queste ultime, in queste giornate di lotta, si sono rese protagoniste e le manifestazioni sono diventate una piattaforma allargata anche per i movimenti femministi e le istanze di genere. Il Nicaragua gode di un’importante legge contro la violenza sulle donne, un vero esempio per la regione, ma è tutto fuorché lontano dall’essersi lasciato alle spalle una cultura fortemente patriarcale e machista, per quanto tra i giovani questa mentalità stia cambiando, anche grazie all’instancabile lavoro dei collettivi di donne presenti in tutti il territorio. I movimenti chiedono che la legge 779 venga applicata per intero e che cessino le violenze. Il numero di femminicidi e abusi è in effetti molto elevato, e nelle aree più remote una vergine adolescente è ancora vista come una proprietà ma soprattutto una possibile fonte di reddito, nonché una ragazza che si trova nel momento migliore per avere figli. Le femministe hanno avuto un ruolo di primo piano nei momenti di scontro come in quelli di organizzazione e cura, ricoprendo ruoli fondamentali nelle gerarchie di movimento. Lo stare insieme, il creare comunità, condividere saperi, idee, racconti, sogni su come i giovani vorrebbero che fosse il mondo sono momenti costitutivi delle lotte che soggettivano i rivoluzionari oltre a dare senso e forma, stimolo per mettersi in gioco e provare cose nuove e mai fatte, dal curare una ferita al parlare in assemblea al preparare una molotov.

“Aquí no hay líderes”. Questa mancanza di leadership è, per ora, la principale forza di questo movimento, ed anche la sua maggiore debolezza. Nobilita il movimento studentesco ed in questo clima in cui non si sa di chi fidarsi è la garanzia che nessuno sta dietro le rivolte per ottenere potere. Ma ostacola la creazione di un’agenda politica necessaria. E qui è dove cominciano le divisioni.

La sera del 26 Aprile, tre studenti hanno annunciato per televisione la nascita del Movimento 19 di Aprile in rappresentanza di tutti gli studenti comunicando che accettavano l’invito al tavolo di dialogo convocato dalla Chiesa, a patto che si garantisse che non ci saranno persecuzione né fisica né accademica contro gli studenti che vi prendono parte. Pochi minuti dopo, i portavoce degli occupanti del politecnico hanno invece smentito la legittimità degli autoproclamati “capi” . Studenti di varie università hanno accusato il governo di essersi “infiltrato” nel movimento ed è sempre presente lo spettro di eventuali manipolazioni riconducibili agli Stati uniti che possano spingere in un senso e nell’altro. Da allora, tutti sospettano di tutti. Sembrerebbe che i giorni dell’Upoli stiano volgendo al termine e gli studenti stiano entrando, un po’ a tentoni, in un’altra fase.

Dalla UCA (Universidad CentroAmericana) ad esempio, mentre nasceva la sigla Movimento 19 de Abril, altri studenti partecipanti alle marce, ma che sono fuori dal campus dell’Upoli, hanno creato un altro movimento chiamato “l’Associazione di Universitari del Nicaragua”, assieme a studenti di altre università, appoggiandosi a monsignor Silvio Báez. Il vescovo sembrerebbe essere colui che al momento ha una vera interlocuzione con gli studenti, presiede il tavolo di dialogo e pertanto può determinare l’intero processo.

 

Le principali voci degli universitari hanno comunque inviato già la propria lista di esigenze per il dialogo: l’uscita di scena di Ortega, le dimissioni dei capi dei vertici di polizia e militari, una commissione della Verità internazionale che investighi la repressione e le riforme elettorali che proibiscano le rielezioni. Questo, per cominciare. “Sappiamo che non ci sono i presupposti per il dialogo, ma andiamo per forzare, affinché non vi sia dubbio della nostra meta.” dicono i comunicati degli studenti. Quella che era iniziata come una protesta per la riforma delle pensioni si è trasformato in un movimento giovanile autonomo e anti-sistema, con l’ambizione di essere protagonista a 360 gradi in tutti gli ambiti del paese.

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Ma non ci sono solo gli studenti. Il Consiglio Superiore dell’Impresa Privata, COSEP, è l’equivalente della confindustria italiana. Rappresenta i maggiori capitali del paese che hanno sostenuto il governo Ortega. I grandi imprenditori nicaraguensi hanno infatti concesso il proprio appoggio al governo in cambio di benefici fiscali e contratti con lo Stato. Questo aprile caldo ha fatto aprire gli occhi al popolo su molte cose, anche sul loro ruolo, svariati striscioni chiedevano una presa di posizione più netta da parte del Cosep, mentre altri ne definivano più nettamente la malafede e l’evidente opportunismo.
Il Cosep ha convocato una marcia lunedì scorso [il 7 maggio NdR], in sostegno alla pace. Si è trasformata in una delle proteste più numerose dai giorni della rivoluzione sandinista. Ma dopo tanti anni di quello che oggi alcuni leader studenteschi considerano come una complicità del settore imprenditoriale con Ortega, i sospetti non si sono dissolti. Durante il corteo, qualcuno ha alzato un altro striscione: I MORTI NON DIALOGANO. Altro leitmotiv di queste giornate. Quelle morti, decine di morti non necessarie, si sono trasformati nel principale fattore di unità dei manifestanti. Nella causa dell’insurrezione. Nell’errore madornale del binomio Ortega-Murillo.

Per andare dove?

Il presidente sta costruendo il suo discorso verso l’opinione pubblica nazionale ed internazionale presentandosi come una vittima della cospirazione finanziata, come egli dice, da organizzazioni statunitensi che desiderano destabilizzare al governo. Organizzazioni di cui, in questo panorama caotico e variegato, è sicura la presenza (le ultime dichiarazioni più interventiste da parte degli Stati uniti non fanno che confermarlo).

È complicato rispondere alla domanda che si fa il mondo: che cosa succede realmente in Nicaragua? Il problema non è solamente che il governo abbia promulgato, il 16 aprile, una riforma anti-sociale, che il 22 aprile scorso è stata revocata per creare una supposta stabilizzazione nel paese, né che lasciasse che venisse bruciata una delle riserve naturali più importanti dell’America Centrale, quella di Indio Maiz, pur di non accettare aiuti e interventi stranieri, visti appunto come sponde per entrare nella politica interna del paese come in passato. I problemi sono vari, come l’incremento dei prezzi della benzina e l’elettricità, la possibilità di avere condizioni di studio migliori e di qualità per gli studenti, la paura che provoca una polizia che fa violenza contro la popolazione in ogni momento dell’anno, a causa dell’alto livello di corruzione.

Vedremo come si evolverà la situazione, in questo contesto frastagliato, tra la genuinità dei giovani, il protezionismo del governo, l’ambiguità della chiesa, lo spettro statunitense che scruta dal mare e chissà quante altre parti.
Lo stallo attuale a prima vista indebolisce gli studenti e fortifica il governo, d’altro canto ancora non è stata fissata una data di inizio dei lavori del tavolo di trattativa; ma, anche se una ricomposizione all’interno del frammentario movimento è necessaria, in fondo la fretta è cattiva consigliera. Per quanto l’ondata di protagonismo e l’entusiasmo di questi giorni hanno portato i giovani a pensare di essere già vicini al successo, con la rapidità e in alcuni casi la superficialità tipica della comunicazione social sappiamo che questi processi sono lunghi, complessi e altalenanti, sicuramente però, quello a cui stiamo assistendo è l’inizio di qualcosa di importante che il futuro ci dirà che direzione prenderà.

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