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Gli autonomi davanti al populismo. Conversazione con un redattore d’Infoaut

Nella maggior parte delle analisi che hanno fatto seguito alla vittoria di Trump, una parola ritorna spesso per caratterizzare la sua linea politica: il “populismo”. Che cosa significa questo termine per voi?

È adeguato per descrivere una realtà e se sì quale? Populismo è un termine diventato completamente vuoto, c’è molta confusione attualmente e bisogna quindi intendersi sulla sua definizione. Nella sua accezione più comune, si insiste molto sulla volontà di abolire i corpi intermedi tra il capo e il popolo oppure su un rapporto molto mediatizzato tra corpo elettorale e capo carismatico. Il problema è che con una definizione così ampia Renzi, Trump, Grillo, Le Pen o Hollande sono tutti dei populisti! È chiaro che il termine “populismo” è stato deformato in tutti sensi, è quindi essenzialmente svuotato di ogni contenuto, è più il tratto di un’epoca che altro. Invece, ciò che è più interessante è la definizione negativa del termine che viene fatta. La parola è infatti utilizzata in senso negativo da un campo politico assai trasversale al potere che vi vede il solo tratto di effettiva destabilizzazione sistemica da affrontare oggi. Penso che bisogna piuttosto prenderlo secondo questa definizione negativa. È bene quindi distinguere da una parte ciò che significa fare politica in epoca contemporanea dove esistono tratti comuni molto forti: la semplificazione del linguaggio, l’abolizione dei corpi intermedi, ecc.; dall’altra intendere il “populismo” come campo di battaglia, come terreno dove dobbiamo giocare la nostra opzione politica, è in questo caso che questa parola diventa utile e interessante. Il populismo in quanto tale non descrive alcuna configurazione effettiva del potere politico, è sintomatico di qualcosa che “si muove” e fa paura.

Come redazione d’infoaut sono diversi anni che portate avanti una riflessione sul “populismo”. Puoi dircene di più?

All’inizio è stato molto difficile di riflettere su questi temi. Innanzitutto a causa dell’attitudine del resto degli ambiti extra-parlamentari. Nel 2013, il movimento dei forconi (o 9 dicembre) è apparso in Italia e ha sorpreso tutti quanti. Lanciato su Facebook aveva tratti poujadisti e rivendicava un abbassamento delle tasse. È stata una specie di versione italiana dei “bonnets rouges”, i due movimenti si sono manifestati infatti solo a qualche mese d’intervallo. Infoaut è stato allora accusato di “cripto-fascismo”, di “ambiguità” perché dicevamo che fenomeni come i forconi erano qualcosa che avrebbe preso sempre più piede, che era necessario avere il nostro punto di vista là dentro e di sapere come muoverci rispetto a questi nuovi fenomeni. I forconi a Torino ha rappresentato una bozza di sciopero sociale, si è svolto senza gli abituali pamphlet radicali ma è stato un vero sciopero metropolitano che ha bloccato nodi e flussi fondamentali per l’accumulazione capitalistica, sicuramente per poco tempo, ma mostrandoci qualcosa.

Spesso si tiene a distinguere un “buon” populismo di sinistra da un “cattivo” populismo di destra. Pensi sia una definizione pertinente?

Una cosa sulla quale bisogna essere assolutamente chiari è che non esiste un “populsimo di sinistra” e un “populismo di destra”. Il populismo è un blocco e cercare di piegarlo in un senso o nell’altra facendo i distinguo tra il “buon” populismo di Bernie Sanders e di Podemos da una parte e il “cattivo” populismo del Front National e di Trump dall’altra non porta da nessuna parte. Prendere il populismo come un blocco implica di non pensare di mettersi alla testa di questo fenomeno ma di considerarlo come un tutto che bisogna rompere. Per fare ciò, bisogna arrivare a capire su quali registri di linguaggio si basa, quali bisogni esprime, quali antagonismi – effettivamente mistificati, siamo d’accordo – fa emergere nella società. Bisogna comprendere in cosa il populismo è significativo nella visione del mondo di una parte delle classi subalterne e popolari di oggi per arrivare a creare fratture là dentro e rompere questo blocco. Ma soprattutto non nel senso destra/sinistra! La cosa più interessante nel populismo è esattamente che oltrepassa la dicotomia destra/sinistra. Quando sento dei militanti o delle persone di sinistra che dicono che vogliono “ritrovare i loro punti di riferimento” e piangono sulla morte dell’eterno duo politico destra/sinistra la trovo una cosa desolante. Rompere questo blocco significa portarlo verso pratiche effettive di contrapposizione sociale, che non siano simulate o delegate dal basso verso l’alto, verso il capo o i parlamentari. A questa contrapposizione sociale di massa, il populismo vi fa sempre allusione nelle parole senza mai dargli corpo, è su questo che bisogna lavorare.
In Spagna è esattamente ciò che Podemos non è mai riuscito a fare. Il loro progetto si è considerevolmente ridimensionato da quando sono nati in particolare dopo il colpo della crisi politica greca dell’estate del 2015. Con ogni evidenza, Podemos non ha la capacità di giocare contro il proprio partito, il proprio campo, di andare in fondo alla critica delle istituzioni europee e sovra-nazionali. Alla fine, si ritrovano a mistificare un internazionalismo europeo che è quello della classe borghese, appiattendosi su posizioni che non gli appartengono. Da lì un sentimento di debolezza. Al contrario, credo che bisogno darsi come obiettivo quello di arrivare a capire il programma implicito della classe nell’epoca in cui viviamo. I principali tratti che abbiamo evidenziato sono: la fine di tutte le illusioni, fine della fiducia nella democrazia, una contrapposizione tra “alto” e “basso”. E qui il nostro problema dev’essere come trasformare questa contrapposizione alto-basso, o addirittura orizzontale dal basso verso il basso, in effettiva contrapposizione tra le classi. Ecco qui il nostro problema, non certo di “mettersi alla testa del populismo”.

Esiste una letteratura molto fornita sul “populismo” che si chiede come riguadagnarsi la fiducia degli elettori “sperduti” nei partititi populisti e/o di estrema destra per riportarli nell’alveo della sinistra. Puoi dirci qual è il vostro punto di vista sulla sinistra istituzionale oggi in Europa?

Penso che non abbiamo avuto bisogno di aspettare l’elezione di Trump per regolare i conti con la sinistra storica. Il rifiuto della sinistra è qualcosa che caratterizza da sempre la nostra visione politica, la nostra proposta di rottura e di negazione dell’esistente, penso in particolare alle nostre radici operaiste.
Detto ciò, per pensare il ruolo storico della sinistra, è necessario pensare la fase capitalistica nella quale viviamo oggi. Come è stato già detto da Mario Tronti, è la classe che dà il ritmo alle epoche e il capitale segue. In questo senso, la sinistra prende sempre il ruolo di ratificare e gestire le transizioni tra le diverse fasi. Quando la dialettica tra lotta di classe e sviluppo capitalista era forte – durante i Trenta gloriosi – qual è stato il ruolo della sinistra? Era quello del riformismo classico, espansivo verso le classi popolari perché la lotta di classe era potente e che la relazione di cui ho appena parlato era in piena crescita. Se guardiamo la sequenza che si è parta con la crisi del 2008, qual è stato il ruolo della sinistra? Obama, Hollande, Renzi e anche la stessa Merkel – un centro-destra molto particolare, quasi social-democratico – sono tutti dei riformisti ma è il contenuto delle riforme che è cambiato. Oggi sono solo passi indietro nelle condizioni di vita proletarie, il legame tra riformismo e progressismo si è definitivamente rotto e assistiamo alla saldatura tra riformismo e restaurazione. Anche se i rapporti di forza tra le classi sono oggi diametralmente opposti rispetto agli anni Settanta, il ruolo che il Capitale ha riservato alla sinistra resta lo stesso, quello di assicurare la transizione tra le diverse fasi di sviluppo. Ecco perché oggi la sinistra si trova in posizione di estrema debolezza: fa lo sporco lavoro di questa fase storica.
Sul versante sociologico, c’è anche un immenso problema nel rapporto che i simpatizzanti di sinistra hanno con i fenomeni qualificati come populisti. Una cosa che puzza di disprezzo di classe lontano un miglio, in particolare nei contesti post-elettorali. Possiamo metterci tutti i discorsi tipo gli elettori “hanno votato male”, sono “ignoranti”, “non sanno scrivere”, etc. In Italia hanno l’abitudine di scimmiottare la maniera in cui “la gente” scrive, con gli errori di ortografia e i punti esclamativi. Delle prese in giro che rappresentano una vera e propria involuzione storica. Nel XX secolo gli ambienti del cattolicesimo sociale o quelli comunisti facevano esattamente il contrario, cercavano di portare l’operaio al parlamento, prendevano sul serio il loro compito di educazione popolare, ecc. Oggi invece vedere una persona “ignorante” rende le persone di sinistra completamente pazze, le fa vomitare. Un disprezzo di classe molto chiaro, senza dubbio. È sintomatico di uno spostamento completo dei referenti della classe intellettuale di sinistra.

Dopo l’elezione di Trump, molte analisi hanno insistito sull’importanza del voto dei bianchi in suo favore. Si è parlato di “whitelash”, un contraccolpo razzista dell’America bianca. Che ne pensi?

Non credo bisogna prendere alla leggera il razzismo americano. Ma bisogna essere chiari, in questa fase storica il nostro ruolo è di essere contro la tranquillità sistemica, lo status quo. Tutto ciò che muove effettivamente le linee di fronte all’interno della società è un buon elemento. Mi sembra poi fuorviante fare paragoni con gli anni Trenta e il montare del fascismo. In quegli anni la democrazia era configurazione del potere molto nuova che non aveva alcuna stabilità, non si può agitare oggi questo spettro perché le fasi storiche sono completamente diverse. I rappresentanti del populismo sono infatti completamente compatibili con il sistema capitalista democratico.
Il primo riflesso degli intellettuali, in particolare a sinistra, è di ragionare sulle figure del populismo: Trump e il suo passato di miliardario, di molestatore. È un’attitudine essenzialmente di decostruzione, purtroppo ripresa dalla quasi totalità degli attivisti “radicali”, che si propongono di rivelare “la grande illusione del populismo”. Ma questo dovrebbe essere l’approccio degli intellettuali, dei giornalisti, degli accademici non quella dei militanti politici! Dovremmo invece domandarci come agire lì dentro, in questa riconfigurazione della geografia del potere, in questo cambiamento delle aspettative di una parte delle classi popolari. Trump è un personaggio orribile, non c’è dubbio su questo, ma è più interessante osservare i suoi referenti sociali all’interno della società. Ciò che è interessante è che una parte dei suoi elettori – senza ragionare in termini di maggioranza o minoranza – ha trovato il modo, come aveva detto Michael Moore prima del voto, di lanciare “la propria molotov” attraverso questo candidato. L’elemento razziale credo quindi che bisognerebbe piuttosto pensarlo come una parzialità che non ci deve bastare. Trump o il FN sono spesso elettori di più di quarant’anni, magari disoccupati, che hanno conosciuto un’altra epoca, vissuto delusioni e che vedono nel loro voto una possibilità di rivincita sul sistema. Chi manca all’appello? Gli afroamericani ovviamente ma anche i giovani. Sulla questione giovanile facciamo fronte a un nodo che non arriviamo ancora a problematizzare. In questo segmento della classe vediamo una estraneità totale non solo rispetto alla politica ma alla vita pubblica in generale, a tutto ciò che oltrepassa la dimensione della famiglia, degli amici e degli affetti. È veramente un tappo da far saltare.
Inoltre, i termini della sociologia elettorale sono soddisfacenti? Non ne sono cosi sicuro se vediamo che le donne non hanno votato di più per Clinton e che certi immigrati hanno scelto di votare Trump. La verità di questo voto può riassumersi così: “quelli che ci governano ci fanno male, ora è il nostro turno di far loro male”. Alcuni compagni non capiscono questa cosa quando abbordano la questione del voto si limitano a banalità del tipo “Trump è un politico come gli altri, non aiuterà la gente”. Ovvio, ma la questione non è questa!
Dietro il voto “populista”, bisogna anche vedere una manifestazione della nostra propria debolezza. Dall’inizio della crisi nessun gruppo antagonista è stato capace di problematizzare la questione della rottura, della volontà di potere sociale, di poter fare, di poter fargliela pagare. Siamo rimasti spesso su dei ragionamenti molto gradualisti, “le lotte partono dal basso”, “si costruiscono poco a poco”, ecc. È tutto giusto ma è sufficiente? In Italia eravamo tutti innamorati del “Que se vayan todos” argentino. Ed ecco che un partito politico lanciato da un blog appare con la sola parola d’ordine del “che se ne vadano a casa questi politici di merda” e in qualche mese delle persone senza alcuna esperienza politica riescono a trasformarsi nel primo partito politico italiano. Una cosa che dovrebbe condurre “il movimento” a interrogarsi sulla sua capacità ad avere un impatto sul reale e comprendere cosa si muove effettivamente nella materialità dei rapporti sociali.

E la xenofobia?

Quella è ancora un’altra cosa. Oggi viene da un sentimento che si può riassumere cosi “io valgo qualcosa” e il tipo appena arrivato? “Valgo più di lui”. Il fondo è dare valore alla propria esistenza, non lasciarsi fare. Bisogna arrivare ad agire là dentro, soprattutto a distinguere la xenofobia dal razzismo puro e duro, dal suprematismo bianco. È il caso delle proteste contro i centri d’accoglienza sui migranti che si moltiplicano in Italia in questi ultimi tempi. Il caso tipico è: 30 rifugiati arrivano in un paese, siamo in Italia, non c’è reddito minimo né welfare, lo Stato è percepito come distante, essenzialmente parassitario e senza nessun tipo di base. Per queste popolazioni la personificazione dello Stato è l’accoglienza ai migranti. Mina alla base una credenza ingenua nella sovranità, del tipo “se sei in una comunità non ti lasceremo indietro”. Una specie di esclusione a-classista in opposizione agli “altri” e che si può riassumere così “A me nessuno dà nulla, loro hanno tre pasti al giorno, una casa è una cosa inaccettabile! Che valgo meno di lui? No, allora mi ribello”. Poi ovviamente c’è anche il razzismo puro e duro del rifiuto dell’altro, ma non bisogna perdere di vista che in queste proteste xenofobe c’è una forte percezione della propria de-valorizzazione rispetto ai migranti.

In un editoriale d’Infoaut pubblicato dopo le elezioni amministrative, quando il Movimento 5 stelle ha conquistato il comune di Torino e di Roma ai danni del centro sinistra avete detto che chi non si è divertito davanti alle facce sfatte dei membri del Partito democratico è un nemico di classe. Perché?

È che ci fa piacere vedere balbettare tutti questi commentatori politici. Ecco cosa rappresenta l’espulsione delle eterne giunte centriste italiane: capiscono che non sono più intoccabili e vedi la sconfitta sui loro visi. Che piacere! Poi si può reagire a queste elezioni volendo salvare la democrazia o la partecipazione democratica. Per quanto ci riguarda pensiamo sia meglio vedere queste elezioni siano qualcosa che sta facendo smuovere le linee di fronte nella società e che fa paura alla gente che ci governa, il partito trasversale che gestisce effettivamente la globalizzazione (e in questo, l’abbiamo detto, il ruolo delle sinistra è assolutamente cruciale).

Ritornando sul discorso “dell’irrazionalità” di questi voti, voi ci vedete una forma d’intelligenza? O almeno un rifiuto sul quale si possono costruire dei processi politici?

Sì assolutamente. Queste votazioni sono ovviamente una forma mistificata, ma ciò è vero per ogni politica borghese e democratica. Parlo ora delle conseguenze pratiche dei nostri ragionamenti. Dopo vent’anni di giunte di centro-sinistra, il Movimento 5 stelle ha raccolta tra 60% e 70% dei voti in alcuni quartieri popolari di Torino. Che dovremmo fare in questo contesto? Il collettivo politico di cui faccio parte, Askatasuna, si è sempre costruito in opposizione alla dimensione istituzionale in tutte le sue forme, non abbiamo mai fatto compromessi su questo semplicemente perché si tratta di un elemento centrale della nostra opzione politica. Questo contesto ci obbliga però ad adattare la nostra maniera di confrontarci e affrontare la dimensione istituzionale. Oggi attaccare il M5S frontalmente per farli cadere – quando hanno contro di loro tutto l’apparato mediatico, il sistema dei partiti e gli ingranaggi intermedi dell’amministrazione – significherebbe essere percepiti come l’alleato oggettivo della macchina del potere del PD, del partito trasversale delle grandi opere come il TAV Torino-Lione, dei procuratori, dell’ordine delle multinazionali. È una cosa che ci alienerebbe oggi le simpatie di molti quartieri popolari facendoci perdere ogni forma di riconoscimento sociale. Preferiamo quindi vedere nel populismo qualcosa che apre a delle aspettative crescenti, ossia al fatto che “le cose possono cambiare”.
Per anni in Italia il potere ha organizzato un abbassamento continuo di ciò che siamo pronti ad accettare per sopravvivere: la generazione nata negli anni Novanta ha conosciuto solo questo. Il fatto che ci siano nuove aspettative per l’avvenire, verso la propria vita e che siano aspettative che crescono è oro per noi visto che sappiamo che non potranno in ogni caso realizzarsi nel voto!

Quali modelli d’intervento concreti sono stati messi in campo a Torino nella prospettiva di rompere il blocco populista e di prendere le sue promesse elettorali alla lettera?

Prenderli alla lettera, è esattamente questo: essere presenti nel momento in cui il populismo entra in crisi con sé stesso. Durante la loro campagna elettorale, il M5S ha detto che si sarebbe occupato dei quartieri popolari. Non era solo propaganda, sono andati porta a porta dagli abitanti delle case popolari fatiscenti per dirgli “ci occuperemo di voi”. In autunno quindi con il Comitato popolare Lucento-Vallette, abbiamo organizzato delle manifestazioni sotto all’ufficio che si occupa delle case popolari per esigere la manutenzione. E ha funzionato una settimana dopo! In quel momento gli abitanti si sono detti che la lotta paga e che bisogna ricominciare a vincere delle cose.
Un altro esempio è il caso di questa famiglia – un padre con tre bambini – che ha subito uno sfratto in ottobre. Il proprietario è un palazzinaro che affitta appartamenti minuscoli a prezzi e esorbitanti, soprattutto agli immigrati. Un mattino hanno cambiato la serratura ma è arrivato un gruppo di solidali a fermarli, il camion dei traslochi è stato danneggiato, sono stati obbligati a rimettere i mobili al loro posto e rendere l’appartamento al padre. In seguito siamo andati dal M5S dicendo loro “Avete detto che avreste fermato gli sfratti, ora bisogna tener fede alle promesse”. Bisogna riacchiapparli su queste cose, essere un passo davanti a loro. È essenziale riuscire a capire il momento in cui il populismo entra in contraddizione con sé stesso e in quel momento riuscire a essere all’origine di qualcosa che ci renda più forti, un’opzione politica di effettiva attivazione sociale. La parola d’ordine da difendere è prima quelli che lottano. Non gli italiani o gli immigrati ma quelli che lottano, è una cosa difficile ma dobbiamo arrivare lì.

Puoi dirci che cosa succede oggi in Italia rispetto al referendum costituzionale del 4 dicembre?

A luglio in Val di Susa è stato lanciato questo percorso “C’è chi dice NO”. Il punto principale per noi è riuscire a rappresentarci non come antagonisti, centri sociali o chissà quale altra etichetta che ci affibbiano o che ci scegliamo ma di arrivare ad auto-nominarci all’interno del campo del NO al referendum di Renzi, il campo della collera sociale, utilizzando il suo stesso registro.
Rispetto ai contenuti, la riforma voluta dal Matteo Renzi tocca il cuore del funzionamento dello Stato. Tende ad accelerare le riforme legislative dando più potere all’esecutivo. Ritorniamo quindi alla questione centrale delle riforme. Il governo italiano ha per ora scaricato i costi della crisi sui giovani, sui migranti e sulle donne (attraverso il lavoro riproduttivo) ma per rilanciare il ciclo di accumulazione bisogna ora attaccarsi al blocco centrale della società, ossia quello dei pensionati, del settore pubblico e “garantito” ossia chi è stato toccato solo marginalmente dalla ristrutturazione. Si tratta di qualcosa che succederà sicuramente per ragioni legate alla fase economica e alla posizione nell’universo della globalizzazione del micro-paese che è l’Italia. I processi di riforma devono essere accelerati per riuscire a levare ogni possibilità di reazione popolare. Noi non ci crediamo più ma il governo invece sì! Hanno più loro paura di un movimento sociale di massa e di situazioni di rifiuto effettivo che noi fiducia nel costruirli!
Bisogna assumersi che ci muoviamo in terra sconosciuta, il terreno ambivalente di questo referendum del 4 dicembre. Nel NO c’è Berlusconi e la destra ma anche tante persone di sinistra che vogliono difendere la Costituzione – niente di più lontano da noi. Il referendum polarizza però molto fortemente la società. Dal lato del SI: il governo Renzi, Confindustria, l’UE, la Casa Bianca, i giudici, Jp Morgan e tutte le banche. Dall’altra parte: gli sfigati, i populisti, gli ignoranti, quelli che non capiscono l’innovazione e le meravigliose sorti che gli riservano le riforme. È una questione che tocca il cuore della questione di cosa vuol dire essere un militante. Quando esistono polarizzazioni enormi e che la linea di frattura nella società si sovrappone a quella che divide le classi, non ci deve interessare? Essere antagonisti è soltanto fare manifestazione che non siano sfilate? No, significa cercare gli antagonismi che emano dalla società per dar loro la possibilità di realizzarsi verso un’effettiva rottura. Io credo che troppo spesso i compagni si accontentino della nostra marginalità prescrittiva e delle riserve “alternative” in cui il Capitale ci vuole confinati. Ci rassicuriamo sulla nostra separazione rispetto a un mondo che consideriamo essenzialmente cattivo quando invece è pieno di contraddizioni e quindi di possibilità. Il tentativo di differenziarsi ha come obiettivo soprattutto quello di rassicurarsi, di costruirsi delle barriere di sicurezza da un terreno “sporco” come fa spesso la sinistra. Con “C’è chi dice NO” abbiamo provato a fare il contrario, siamo “quelli del NO” e abbiamo la pretesa di confonderci e, su questa contingenza temporale, dissolvere la nostra identità politica in questo NO.
Come al solito, serve flessibilità tattica e rigidità strategica: se siamo chiari con noi stessi, non abbiamo certo bisogno di rassicurarci sulla nostra identità politica. Negarsi permette di essere al cuore di quella composizione e portarla su un altro piano: innanzitutto quello della partecipazione e non solo quello della delega elettorale. Essere effettivamente in questo NO molto variato sperando di riuscire a dargli un’altra direzione. È qualcosa di molto ambivalente ma la stessa realtà è ambigua: o ci poniamo il problema di essere in questa ambivalenza oppure siamo finiti, ce ne restiamo nelle nostre riserve indiane a bere birra.
Se il NO passa e il governo Renzi non rassegna le dimissioni, potremo poi puntare ancora più in alto sul piano del conflitto. La sfida principale è esattamente di oltrepassare la caratteristica più nociva del populismo: la delega elettorale, il fatto di aspettarsi che il cambiamento venga da qualcun altro e non da un protagonismo sociale vissuto fino in fondo.

Una manifestazione “c’è chi dice NO” ha avuto luogo a Firenze il 5 novembre 2016 e ha ricevuto un grande eco mediatico, puoi dircene di più?

La manifestazione contro il meeting di Renzi a Firenze non è stata organizzata prendendo l’etichetta dei centri sociali ma è stata messa in piedi con i comitati ufficiali del NO. Abbiamo provato almeno a fare allusione a una possibile attivazione di coloro che si riconoscono in questo voto negativo. La manifestazione è stata vietata e il corteo ha portato avanti un chiaro tentativo di violare la zona rossa, ciò è stato presentato come una necessità perché era un’ingiustizia, che ci era stato fatto un torto e che non lo avremmo accettato. Il risultato sono stati degli scontri di piazza che hanno coabitato con un certo consenso sociale. È li che si vede che questo blocco del NO può essere rotto. Beppe Grillo ovviamente non ha sostenuto il corteo ma una parte della sua base lo ha fatto! Tutte le persone che compongono questa base non sono certo i nostri referenti politici ma li riusciamo a distinguere attraverso il conflitto. La vera scommessa è di portare questo NO in piazza, con i loro copri e la materialità delle persone. Per il momento restiamo nel campo dell’opinione e cerchiamo di farne un uso antagonista. Abbiamo rotto quel blocco, siamo arrivati a una pratica del conflitto che parla a molti e li porta sulle nostre posizioni: è necessario non subire più. La prossima scommessa sarà di non avere solo il consenso di una parte di questo “blocco populista” ma di portarlo effettivamente nelle strade in una dimensione di scontro sociale diffuso e di massa…

 

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