Israele, migliaia di migranti in sciopero
Secondo fonti della polizia, ieri nelle piazze di Tel Aviv erano almeno 10mila i migranti in marcia, ma le associazioni per i diritti umani parlano di 30mila persone: “Chiediamo alla società israeliana di fermare questa legislazione brutale e al governo di rivedere le nostre richieste di asilo e smettere di inviarci nelle prigioni”, ha detto un manifestante alla stampa. “Siamo rifugiati e tutto quello che chiediamo è lavoro – ha commentato un altro eritreo – Non possiamo tornare nei nostri Paesi, è a rischio la nostra vita e quella delle nostre famiglie”.
Stamattina la protesta prosegue: sono tremila i migranti che stanno camminando da Levinsky Park (simbolo delle proteste e ritrovo della comunità africana, ghettizzata a Sud di Tel Aviv) verso l’ambasciata statunitense, la sede dell’Unione Africana, la sede dell’Unione Europea, l’agenzia Onu per i rifugiati e diverse ambasciate europee. “Chiediamo alla comunità internazionale di intervenire e fare pressioni su Israele perché riconosca i nostri diritti”, hanno detto i manifestanti in marcia.
Secondo alcune associazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, sono già 300 i richiedenti asilo arrestati nelle ultime tre settimane, dal momento in cui la legge ha dato autorità alle forze di polizia di arrestare e detenere in speciali centri i migranti illegali.
Ad oggi sono circa 55mila gli eritrei e i sudanesi residenti in Israele, in un limbo giuridico che impedisce loro di essere riconosciuti come richiedenti asilo e li obbliga ad una vita precaria e di estrema povertà. Considerati “infiltrati” perché entrati senza permesso in territorio israeliano, rischiano la detenzione fino ad un anno in una vera e propria prigione, Holot, nel deserto del Naqab, definita “centro di raccolta” dalle autorità israeliane: i migranti detenuti possono uscire durante il giorno, ma devono presentarsi tre volte per firmare la presenza, un obbligo che rende impossibile condurre una vita normale o cercarsi un lavoro.
Anche le Nazioni Unite alzano la voce contro la nuova politica di detenzione israeliane e le prigioni “aperte” per i richiedenti asilo: il rappresentante dell’UNHCR, Walpurga Englbrecht, ha espresso ieri sostegno ai migliaia di manifestanti ritrovatisi in Piazza Rabin a Tel Aviv e accusato Israele di violare la Convenzione sui Diritti del Rifugiato del 1951, non tenendo in alcun conto la ragione per cui migliaia di africani sono fuggiti dai Paesi di origine, ma limitandosi ad etichettarli come “infiltrati” o “illegali”.
Il clima all’interno dell’opinione pubblica è però sempre più caldo: agli istinti razzisti di gran parte della società israeliana, si aggiungono gli incitamenti e i discorsi violenti di parlamentari e leader di partiti politici, intenzionati a cavalcare l’onda della “paura del diverso” e della “caccia all’immigrato”. Ieri il sindaco di Tel Aviv, Ron Hulda, ha pronosticato un’escalation delle violenze, imputando al governo l’incapacità di affrontare la questione e il tentativo di ignorare sia le richieste degli immigrati che i timori dei residenti: “La manifestazione di oggi è solo l’inizio di un processo che sfortunatamente non potrà che peggiorare. Vedremo violenza nelle strade”.
Molto diverso l’approccio del Likud: ieri il presidente della coalizione Likud-Beitenu, Yariv Levin, ha condannato lo sciopero in corso, definendolo “una bomba a orologeria che può essere disinnescata solo deportando gli infiltrate nel loro Paese d’origine”.
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