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Il vero volto del “Piano Mattei” per l’Africa

La retorica del Governo Meloni ricalca in buona sostanza quella riproposta in questi anni da una figura chiave per la politica italiana: il numero uno di Eni, Claudio Descalzi. Omettendo qualsiasi analisi critica degli effetti delle campagne fossili. Dal Mozambico alla Tunisia, passando per la Nigeria. Il commento di Alessandro Runci di ReCommon

da Altreconomia

Mancano ancora i dettagli ma le intenzioni del famigerato “Piano Mattei” sembrano piuttosto chiare: far arrivare dall’Africa più gas e molti meno migranti. Le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo prefigurano: “Oggi abbiamo un problema di approvvigionamento energetico in Europa e l’Africa, è un produttore enorme di energia […] se aiutiamo l’Africa a produrre energia per portarla in Europa possiamo risolvere insieme molti problemi”, ovvero quello delle migrazioni, da un lato, e quello della sicurezza energetica europea, dall’altro.

Un discorso che ricalca in buona sostanza la retorica utilizzata in questi anni da un’altra figura chiave per la politica italiana, il numero uno di Eni, Claudio Descalzi, che non a caso ha spesso accompagnato le missioni della presidente del Consiglio. “We don’t have energy, they have energy” (loro hanno energia, noi no) ha dichiarato l’amministratore delegato intervistato dal Financial Times, “dobbiamo aprirci all’Africa, dobbiamo essere i loro compagni di viaggio e aiutarli a svilupparsi”, ha rimarcato sempre Descalzi durante un convegno. L’altro aspetto su cui i due sembrano essere in totale sintonia è che l’approccio dell’Italia nel continente debba basarsi sul rispetto e sulla reciprocità, lontano da atteggiamenti predatori.

Sia la presidente del Consiglio sia il manager evitano però di considerare un aspetto fondamentale, ovvero che l’Italia è già tra i Paesi che hanno maggiormente investito nel continente africano, specialmente attraverso la sua principale azienda. Proprio Descalzi ha dato nuova spinta alla campagna africana di Eni, mettendo a segno alcune delle più importanti scoperte di gas al mondo, in Egitto e in Mozambico, fino a diventare il secondo produttore di idrocarburi della regione.

Tuttavia, l’ormai arcinota retorica degli investimenti per lo sviluppo si scontra con la realtà di molti territori, dove l’operato di Eni ha avuto risvolti ben diversi da quelli sperati da Meloni e Descalzi. Uno dei fiori all’occhiello della gestione Descalzi è rappresentato, come già detto, dalle immense scoperte di gas realizzate in Mozambico, che hanno trasformato il Paese nell’ultima grande frontiera estrattiva del continente africano. Si stima che i bacini possano contenere oltre duemila miliardi di metri cubi di gas, facendo del Mozambico il terzo Paese in Africa per riserve. “Siamo l’unica società che invece di produrre per esportare come tutti fanno perché si guadagna molto di più, produciamo anche per la parte domestica. Lo faremo in Mozambico”, affermava Descalzi nel maggio del 2015. Pochi mesi dopo, Eni siglava un accordo con British petroleum (Bp) che prevedeva la vendita per i prossimi 20 anni dell’intero ammontare della produzione dell’impianto Coral South alla multinazionale britannica. 

Secondo un’analisi condotta dall’Ong francese Friends of the Earth, il 90% della produzione di gas mozambicana è stata già destinata all’export attraverso accordi di lungo termine con operatori asiatici ed europei. Questi investimenti avranno dunque un impatto minimo per i quasi 20 milioni di mozambicani che ancora oggi non hanno accesso all’energia. E non è neppure detto che i progetti di Eni in Mozambico serviranno a garantire l’approvvigionamento energetico dell’Italia, nonostante le garanzie da oltre 1,5 miliardi di euro poste dal ministero dell’Economia attraverso Sace, giustificate proprio dal contributo che questi investimenti avrebbero dovuto apportare alla sicurezza energetica del nostro Paese. Sarà infatti l’inglese Bp a decidere dove esportare i carichi di Gas “naturale” liquefatto (Gnl), naturalmente in funzione dei prezzi nei vari mercati. Dei primi dieci carichi partiti dal terminal di Coral South, infatti, solamente due sono giunti in Italia, mentre gli altri sono andati verso India, Giappone, Corea del Sud e così via.

Il contributo dell’industria del gas per l’economia mozambicana sarà inoltre molto più ridotto di quanto promesso. Secondo alcune analisi indipendenti, realizzate da OpenOil e da Oxfam America, Maputo incasserà meno della metà dei ricavi previsti dalle vendite di gas e la gran parte solamente a partire dal 2040. Situazione ulteriormente aggravata da meccanismi fiscali che permettono alle aziende e alle multinazionali (fossili e non) di non pagare le loro tasse nel Paese (il nostro approfondimento sul numero di giugno di Altreconomia).

Dal punto di vista sociale, poi, l’espansione dell’industria del gas si è tradotta in una vera e propria maledizione per la Regione di Cabo Delgado, dove sono concentrate le operazioni. Migliaia di persone sono state costrette a lasciare i propri villaggi e le loro terre per far spazio alle infrastrutture dell’industria, mentre ampi tratti di mare sono stati dichiarati off-limits, privando intere comunità dei loro mezzi di sussistenza. In un contesto del genere, il risentimento verso il governo di Maputo e le multinazionali occidentali è cresciuto a dismisura, creando terreno fertile per l’avanzata del gruppo di miliziani d’ispirazione jihadista, al-Shabaab. Il risultato è stato l’avvio di un conflitto, tutt’ora in corso, che nella regione ha scatenato l’inferno, causando in pochi anni cinquemila morti e un milione di sfollati. Attualmente, Capo Delgado è occupata militarmente dall’esercito mozambicano e da quello ruandese, ma è presente anche un contingente delle forze armate europee. Ciò nonostante gli attacchi continuano e la popolazione è costretta a spostarsi continuamente per sfuggire alle incursioni dei miliziani.

Finora la Tunisia è stato il Paese su cui si sono maggiormente concentrate le iniziative di Meloni a Sud del Mediterraneo. Ed è anche uno dei Paesi dove Eni opera da più tempo, fin dal 1961. Sebbene la produzione petrolifera del Paese sia molto ridotta rispetto a quella dei suoi vicini, la Tunisia riveste comunque un ruolo fondamentale nello scacchiere energetico del Mediterraneo. Il suo territorio è infatti attraversato dal Transmed, il gasdotto costruito e gestito da Eni, che trasporta il gas algerino fino in Italia. La presenza di Eni in Tunisia si concentra soprattutto nella Regione di Tataouine, nell’estremo Sud del Paese. Un triangolo desertico che delimita il confine con Algeria e Libia, sotto cui si trova la metà delle riserve di petrolio e gas tunisine.

Nonostante ciò, Tataouine è una delle regioni più marginalizzate della Tunisia, con tassi di povertà e disoccupazione giovanile tra i più alti del Paese. A partire dal 2017, la popolazione della Regione è insorta contro le compagnie petrolifere, Eni in primis, arrivando persino a bloccare la produzione per diverse settimane. Il movimento di El Kamour rivendicava posti di lavoro per le comunità locali e che una parte dei proventi dell’industria fosse destinata a un fondo per lo sviluppo della regione, che ancora oggi è affetta da gravissime carenze infrastrutturali e di servizi. Malgrado gli accordi e le promesse da parte delle compagnie petrolifere, la situazione a Tataouine non è mai migliorata, e la principale risposta da parte del governo tunisino è stata la militarizzazione dell’area, che ha reso ancor più difficile la vita dei suoi abitanti.

Spostandosi in Nigeria, altro Paese in cui Eni opera dagli anni Sessanta, a maggio di quest’anno la Commissione ambientale dello Stato di Bayelsa, dove Eni gestisce il terminal di esportazione del petrolio, ha quantificato in 12 miliardi di dollari i danni causati dall’estrazione petrolifera. Secondo lo studio, almeno 110mila barili di petrolio sono stati versati nei fiumi, paludi e foreste, il 90% dei quali proveniente da impianti di proprietà di sole cinque compagnie petrolifere, tra cui Eni. 

Se davvero l’Italia vuole “guardare all’Africa con occhi africani” come dichiarato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, sarebbe bene che iniziasse con l’ascoltare le voci di chi vive in territori sacrificati in nome del petrolio e del gas. “La soluzione è liberare l’Africa da certi europei” diceva Enrico Mattei. Di quegli europei, oggi, potremmo far parte anche noi.

Alessandro Runci, ReCommon

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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