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Ecocidio, imperialismo e liberazione della Palestina/1

La devastazione di Gaza non è solo genocidio, ma anche ecocidio: la distruzione deliberata di un intero tessuto sociale ed ecologico.

di Hamza Hamouchene, da ECOR Network

Questo articolo si basa su un capitolo del libro collettivo di prossima uscita “Rising for Palestine: Africans in Solidarity for Decolonisation and Liberation”, curato da Raouf Farah e Suraya Dadoo, e che sarà pubblicato da Pluto Press all’inizio del 2026.

Dal suolo avvelenato e dai terreni agricoli decimati al collasso dei sistemi idrici e ai mari soffocati dai rifiuti, l’assalto di Israele rivela come la violenza coloniale sia inseparabile dal danno ambientale. Collegando la lotta palestinese alla lotta globale contro il capitalismo fossile e l’imperialismo, questa analisi sostiene che la giustizia climatica sia impossibile senza la liberazione palestinese.

A prima vista, può sembrare fuori luogo o addirittura inappropriato scrivere di questioni climatiche ed ecologiche nel contesto del genocidio in corso a Gaza. Tuttavia, ciò che sta accadendo a Gaza non è solo un genocidio: è anche un ecocidio, o quello che alcuni hanno descritto come un olocidio: l’annientamento deliberato di un intero tessuto sociale ed ecologico. Gaza è disseminata di oltre 40 milioni di tonnellate di detriti e materiali pericolosi, molti dei quali contengono resti umani. All’inizio del 2024 una parte significativa dei terreni agricoli di Gaza era già stata decimata, con frutteti, serre e colture fondamentali spazzate via da bombardamenti incessanti. Gli uliveti e le fattorie sono stati ridotte a terra compatta e le munizioni e le tossine contaminano il suolo e le acque sotterranee. Nel frattempo, l’acqua del mare di Gaza è intasata da liquami e rifiuti a causa dell’interruzione dell’elettricità da parte di Israele e della distruzione degli impianti di trattamento. 

Comprendere la distruzione ecologica che sta avvenendo all’interno del genocidio di Israele mette in luce le intersezioni critiche che esistono tra la crisi climatica/ecologica e la lotta di liberazione palestinese. Non ci può essere una vera giustizia climatica globale senza la liberazione palestinese, così come la lotta per la libertà palestinese è intrinsecamente legata alla sopravvivenza della terra e dell’umanità. Ciò che segue traccia il profondo intreccio tra la devastazione ecologica di Israele e la sua violenza coloniale in Palestina, che ha raggiunto il culmine nell’attuale genocidio. Mostra come il danno ambientale sia stato, fin dall’inizio, una caratteristica fondamentale della dominazione coloniale sionista, usato come arma di controllo e cancellazione. Da lì, l’analisi si muove attraverso tematiche sostanziali: le sproporzionate vulnerabilità climatiche imposte ai palestinesi, il dispiegamento del greenwashing e dell’eco-normalizzazione da parte di Israele per mascherare la sua occupazione e l’apartheid, l’attuale ecocidio a Gaza e il ruolo di Israele all’interno dell’ordine capitalista globale dei combustibili fossili. L’analisi si conclude concentrandosi sulla resistenza dei palestinesi attraverso pratiche radicate nella terra, nella cultura e nella cura, offrendo non solo un rifiuto della dominazione, ma una visione della giustizia ambientale strettamente legata alla liberazione.
 

Orientalista ambientale

Israele ha a lungo dipinto la Palestina pre-1948 come un deserto vuoto e arido, un’immagine che contrasta con l’oasi fiorente che si suppone sia stata creata dalla fondazione dello Stato di Israele. Questa narrazione ambientalista razzista dipinge gli indigeni della Palestina come selvaggi che non si prendono cura, e persino distruggono, la terra su cui hanno vissuto per millenni. Questo discorso ambientale non è né nuovo né unico per il colonialismo israeliano. In quello che definisce “orientalismo ambientale”, la geografa Diana K. Davis osserva come gli immaginari anglo-europei del XIX secolo spesso hanno ritratto l’ambiente del mondo arabo come “in qualche modo degradato “, implicando la necessità di un intervento per migliorarloripristinarlonormalizzarlo e ripararlo.

L’ideologia sionista del riscatto della terra è esemplificata dalla narrazione costruita attorno al progetto di rimboschimento guidato dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF), un’organizzazione parastatale israeliana. Attraverso il rimboschimento, il JNF ha cercato di cancellare i resti fisici e simbolici di 86 villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba 2. Con il pretesto della conservazione, il JNF ha utilizzato come arma la piantumazione di alberiper nascondere la realtà dello sfollamento di massa coloniale, della pulizia etnica, della distruzione degli ambienti e dell’espropriazione, creando al contempo un nuovo paesaggio per sostituire quello indigeno.

Ghada Sasa analizza brillantemente tali pratiche eco-coloniali, descrivendole come colonialismo verde: l’appropriazione dell’ambientalismo da parte di Israele per eliminare i palestinesi autoctoni e usurpare le loro risorse. Descrive come Israele usa le designazioni di conservazione (parchi nazionali, foreste e riserve naturali) per 1) giustificare l’accaparramento delle terre; 2) impedire il ritorno dei rifugiati palestinesi; 3) destoricizzare, giudaizzare ed europeizzare la Palestina, cancellando l’identità palestinese e sopprimendo la resistenza all’oppressione israeliana; e 4) ripulire la sua immagine di apartheid 3.

L’espropriazione israeliana delle risorse si estende anche all’acqua della Palestina. Poco dopo la creazione di Israele nel 1948, il JNF prosciugò il lago Hula e le zone umide circostanti nel nord della Palestina storica 4, sostenendo che ciò era necessario per espandere i terreni agricoli. Tuttavia, non solo il progetto non riuscì ad espandere i terreni agricoli “produttivi” per i coloni ebrei europei appena arrivati, ma causò danni ambientali sostanziali, distruggendo specie vegetali e animali fondamentali 5, degradando gravemente la qualità dell’acqua che sfociava nel Mar di Galilea (Lago di Tiberiade), interrompendo il flusso a valle del fiume Giordano 6.

Più o meno nello stesso periodo, la Mekorot – la compagnia idrica nazionale israeliana – iniziò a deviare l’acqua dal fiume Giordano verso i coloni israeliani della zona costiera e verso le città e gli insediamenti ebraici nel deserto del Naqab (Negev7. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, Israele intensificò il saccheggio dell’acqua del fiume Giordano. Oggi, il Giordano, in particolare il suo tratto inferiore, è stato ridotto a poco più di un torrente inquinato pieno di terra e liquami 8.

Gli attacchi di Israele all’ambiente palestinese, sia attraverso il rimboschimento che con il prosciugamento delle risorse idriche, mostrano come gli atteggiamenti nei confronti dell’ambiente si trovino all’interno della più ampia impresa coloniale. Il colonialismo di insediamento è una forma di dominazione che interrompe violentemente le relazioni delle persone con il loro ambiente “minando strategicamente la continuazione collettiva delle comunità indigene sulla terra” 9. Visto in questo modo, il colonialismo di insediamento è la supremazia ecologica: cancella le qualità delle relazioni che contano per i popoli indigeni, mentre impone al loro posto le ecologie coloniali. Come osserva Kyle Whyte, “le popolazioni dei coloni stanno lavorando per creare le proprie ecologie a partire dalle ecologie dei popoli indigeni, il che spesso richiede che i coloni portino ulteriori materiali ed esseri viventi” 10

A questo proposito, Shourideh Molavi sostiene allo stesso modo che la violenza coloniale è “prima di tutto una violenza ecologica”, un tentativo di sovrascrivere un ecosistema con un altro. Eyal Weizman concorda, sostenendo che “l’ambiente è uno dei mezzi con cui si attua il razzismo coloniale, si espropriano le terre, si fortificano le linee d’assedio e si perpetua la violenza” 11. Weizman osserva che in Palestina: “La Nakba ha anche una dimensione ambientale meno conosciuta, la completa trasformazione dell’ambiente, del tempo, del suolo, la perdita del clima indigeno, della vegetazione, dei cieli. La Nakba è un processo di cambiamento climatico imposto dal colonialismo” 12.
 

La crisi climatica in Palestina

È in questo contesto di trasformazione israeliana dell’ambiente della Palestina che i palestinesi si trovano ora ad affrontare l’intensificarsi della crisi climatica globale. Entro la fine di questo secolo, le precipitazioni annuali in Palestina potrebbero diminuire fino al 30% rispetto al periodo 1961-1990 13. Il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) prevede che le temperature aumenteranno tra i 2,2 e i 5,1°C, con conseguenti cambiamenti climatici potenzialmente catastrofici, tra cui l’intensificazione della desertificazione 14. L’agricoltura, una pietra angolare dell’economia palestinese, sarà gravemente colpita. Stagioni di crescita più brevi e l’aumento del fabbisogno idrico aumenteranno i prezzi dei prodotti alimentari, minacciando la sicurezza alimentare. 

La vulnerabilità climatica dei palestinesi dovrebbe essere compresa nel contesto brutale di un secolo di colonialismo, occupazione, apartheid, espropriazione, sfollamento, oppressione sistemica e genocidio. A causa di questa storia, ci sono – e ci saranno – profonde asimmetrie nel modo in cui la crisi climatica influirà su Israele rispetto a come influirà sui Territori Palestinesi Occupati (TPO), come ha descritto Zena Agha 15. Così, mentre l’occupazione israeliana in corso impedisce ai palestinesi di accedere alle risorse e di sviluppare infrastrutture e strategie adattive, Israele è uno dei paesi meno vulnerabili al clima della regione e uno dei più pronti ad affrontare il cambiamento climatico. Questo perché ha accaparrato, saccheggiato e controllato la maggior parte delle risorse della Palestina, dalla terra all’acqua all’energia, sviluppando, sulle spalle dei lavoratori palestinesi e con il sostegno attivo delle potenze imperialiste, una tecnologia che può alleviare alcuni degli impatti del cambiamento climatico. In poche parole, la capacità di adattarsi ai cambiamenti climatici in Palestina e in Israele è profondamente stratificata, strutturata in base alla etnia, alla religione, allo status legale e alle gerarchie coloniali. Questo è spesso indicato come apartheid climatica o eco-apartheid 16.

Uno degli ambiti in cui questo problema è più evidente è l’accesso all’acqua. A differenza dei paesi vicini, non c’è carenza d’acqua tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Eppure una crisi idrica cronica colpisce i palestinesi in Cisgiordania e Gaza a causa della supremazia ebraica imposta dall’occupazione e delle infrastrutture idriche dell’apartheid. Da quando ha occupato la Cisgiordania nel 1967, Israele ha monopolizzato le fonti d’acqua, un potere formalizzato nell’accordo di Oslo II del 1995, che ha concesso a Israele il controllo di circa l’80% dell’acqua della Cisgiordania. Mentre Israele ha migliorato la sua tecnologia idrica e ampliato l’accesso oltre la Linea Verde, i palestinesi hanno visto il loro accesso diminuire a causa dell’apartheid, del furto di terra e dell’espropriazione. Ciò include l’esercizio da parte di Israele del controllo sulle fonti d’acqua, le rigide quote di approvvigionamento per i palestinesi, la negazione dello sviluppo (come lo scavo di pozzi) e la ripetuta distruzione delle infrastrutture idriche palestinesi. Di conseguenza, la popolazione ebraica israeliana tra il Giordano e il Mediterraneo vive con i lussi della desalinizzazione e dell’abbondanza, mentre i palestinesi affrontano carenze croniche che peggioreranno a causa del cambiamento climatico. La disparità è impressionante: nel 2020 il consumo giornaliero di acqua pro capite di Israele è stato di 247 litri, oltre il triplo degli 82,4 litri disponibili per i palestinesi in Cisgiordania 17. In Cisgiordania, i 600.000 coloni illegali di Israele usano sei volte più acqua della popolazione palestinese di 3 milioni di persone. Inoltre, gli insediamenti illegali israeliani consumano fino a 700 litri pro capite al giorno, anche per beni di lusso come piscine e prati, mentre alcune comunità palestinesi – scollegate dalla rete idrica – sopravvivono con appena 26 litri a persona, un livello vicino alla media delle zone colpite da disastri e ben al di sotto della quantità di acqua sufficiente a coprire i bisogni personali e domestici, ovvero tra 50 e 100 litri di acqua a persona al giorno, come raccomandato dalle Nazioni Unite e dall’OMS 18.

Nel 2015, solo il 50,9% delle famiglie della Cisgiordania aveva accesso quotidiano all’acqua, mentre nel 2020 B’Tselem ha stimato che solo il 36% dei palestinesi della Cisgiordania aveva un accesso affidabile tutto l’anno, con il 47% che riceveva acqua per meno di 10 giorni al mese. A Gaza la situazione è ancora peggiore. Anche prima dell’attuale genocidio, solo il 30% delle famiglie aveva accesso quotidiano all’acqua, una cifra che è diminuita drasticamente durante gli assalti israeliani 19. Israele non solo impedisce l’ingresso di acqua pulita a Gaza, ma impedisce anche la costruzione o la riparazione di infrastrutture vietando i materiali essenziali. Il risultato è catastrofico: prima del genocidio, il 90-95% dell’acqua di Gaza non era potabile o adatta all’irrigazione 20. L’acqua contaminata ha causato oltre il 26% delle malattie segnalate ed è stata una delle principali cause di mortalità infantile, responsabile di oltre il 12% delle morti infantili nel territorio 21. Nel febbraio 2025, con il protrarsi della violenza genocida e l’aggravarsi della carestia, Oxfam ha stimato che la quantità di acqua disponibile a Gaza era di 5,7 litri a persona al giorno. In questo contesto di accesso limitato all’acqua, gli effetti del cambiamento climatico sulla disponibilità e sulla qualità dell’acqua avranno conseguenze mortali, in particolare a Gaza.
 

Eco-normalizzazione e greenwashing nell’era delle energie rinnovabili

In questo contesto di crescenti crisi idriche, ambientali e climatiche affrontate dai palestinesi, Israele si presenta come un campione delle tecnologie verdi, della desalinizzazione e dei progetti di energia rinnovabile nella Palestina occupata e oltre. Usa la sua immagine verde per giustificare la sua politica coloniale e l’espropriazione, tingendo di verde il suo regime coloniale e di apartheid e coprendo i suoi crimini di guerra contro il popolo palestinese presentandosi come un paese verde e avanzato in un Medio Oriente arido e regressivo.
Questa immagine è stata rafforzata dagli Accordi di Abramo che Israele ha firmato con gli Emirati Arabi Uniti (EAU), il Bahrein, il Marocco e il Sudan nel 2020 e attraverso accordi per l’attuazione congiunta di progetti ambientali riguardanti le energie rinnovabili, l’agroalimentare e l’acqua. Si tratta di una forma di eco-normalizzazione: l’uso dell'”ambientalismo” per fare greenwashing e normalizzare l’oppressione israeliana e le ingiustizie ambientali che produce nella regione araba e oltre 22.

La normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele nel dicembre 2020 è arrivata attraverso un accordo tra due potenze occupanti, facilitato dal loro patrono imperiale (gli Stati Uniti sotto Trump), in base al quale Israele e gli Stati Uniti hanno anche riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale. Da allora, gli investimenti e gli accordi israeliani in Marocco si sono intensificati, soprattutto nei settori dell’agroalimentare e delle energie rinnovabili.

L’8 novembre 2022, durante la COP27 di Sharm El Sheikh, la Giordania e Israele hanno firmato un memorandum d’intesa mediato dagli Emirati Arabi Uniti per continuare uno studio di fattibilità su due progetti interconnessi, Prosperity Blue e Prosperity Green, che insieme formano il Project Prosperity. In base all’accordo, la Giordania acquisterà 200 milioni di metri cubi di acqua all’anno da una stazione di desalinizzazione israeliana sulla costa mediterranea (Prosperity Blue). Questa stazione sarà alimentata da un impianto solare da 600 megawatt (MW) in Giordania (Prosperity Green), che sarà costruito da Masdar, una società statale di energia rinnovabile degli Emirati Arabi Uniti. La retorica benevola dietro Prosperity Blue maschera il saccheggio decennale dell’acqua palestinese e araba da parte di Israele (descritto in precedenza), e lo aiuta a negare la responsabilità per la scarsità d’acqua regionale, mentre si dipinge come un custode dell’ambiente e dell’energia idrica. Mekorot, uno dei principali attori nella desalinizzazione israeliana, si posiziona come leader globale, grazie in parte alla narrativa del greenwashing di Israele. I profitti che genera finanziano sia le sue operazioni che la pratica dell’apartheid idrico contro i palestinesi da parte del governo israeliano.

Nell’agosto 2022, la Giordania si è unita a Marocco, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto, Bahrein e Oman nella firma di un altro memorandum d’intesa con due società energetiche israeliane, Enlight Green Energy (ENLT) e NewMed Energy, per implementare progetti di energia rinnovabile in tutta la regione, tra cui solare, eolico e stoccaggio di energia. Queste iniziative rafforzano l’immagine di Israele come hub per l’innovazione delle energie rinnovabili, consentendogli allo stesso tempo di approfondire il suo progetto coloniale di insediamento ed estendere la sua influenza geopolitica in tutta la regione. L’obiettivo è quello di integrare Israele nella sfera energetica ed economica della regione araba da una posizione di dominio, creando nuove dipendenze che rafforzino l’agenda di normalizzazione e presentino Israele come un partner indispensabile. Con l’aggravarsi della crisi ecologica e climatica, i paesi che dipendono dall’energia, dall’acqua o dalla tecnologia israeliana potrebbero iniziare a considerare la lotta palestinese come meno importante della garanzia del proprio accesso.

Il coinvolgimento di aziende del Golfo come la saudita ACWA Power e l’emiratino Masdar in queste imprese coloniali indica una caratteristica strutturale chiave della regione araba. Piuttosto che vedere la regione come un insieme indifferenziato, è fondamentale riconoscere le sue gerarchie e disuguaglianze interne. Il Golfo funziona come una forza semi-periferica – o addirittura sub-imperialista. Non solo è significativamente più ricco dei suoi vicini, ma partecipa anche alla cattura e al travaso del plusvalore a livello regionale, riproducendo le dinamiche centro-periferia di estrazione, marginalizzazione e accumulazione per spossessamento.

(1. Continua)

* Illustrazioni di:  Fourate Chahal El Rekaby
** Traduzione di Ecor.Network


Note:

  1.  Davis, D.K. (2011). ‘Imperialism, orientalism, and the environment in the Middle East: history, policy, power and practice’. In: Davis and Edmund Burke (eds.), Environmental Imaginaries of the Middle East and North Africa. Athens, Ohio: Ohio University Press.
  2. Galai, Y. (2017). ‘Narratives of redemption: “The international meaning of afforestation in the Israeli Negev”’, International Political Sociology 11, no. 3: 273-291. https://doi.org/10.1093/ips/olx008 (external link).
  3. Sasa, G. (2022). ‘Oppressive pines: Uprooting Israeli green colonialism and implanting Palestinian A’wna’, Politics, 43(2), 219-235.
  4.  “Rehabilitation of the Hula Valley,” Water for Israel, KKL-JNF, https://www.kkl-jnf.org/organization-chief-scientist/water-for-israel/w… (external link)
  5. Ibid.  
  6. Zeitoun, M. and Dajani, M. (2019). ‘Israel is hoarding the Jordan River – it’s time to share it’, The Conversation, 19 December. https://tinyurl.com/53dad4tk (external link).
  7. The Grassroots Palestinian Anti-Apartheid Wall Campaign (2025) ‘Weaponizing Water For Israel’s Genocide, Apartheid and Ethnic Cleansing’. https://stopthewall.org/2025/03/22/weaponizing-water-for-israels-genoci… (external link).
  8. Amnesty International (2017) ‘The Occupation of Water’. https://tinyurl.com/3yedrnnd (external link)
  9. Molavi, S. C. (2024). Environmental Warfare in Gaza: Colonial Violence and New Landscapes of Resistance. London: Pluto
  10. Whyte, K. (2018). ‘Settler Colonialism, Ecology, and Environmental Injustice’, Environment and Society, 9, 1 (September): 135
  11. Molavi, S. C. (2024). Op. cit
  12. Ibid.  
  13. Tippmann, R. and Baroni, L (2017). ‘ClimaSouth Technical Paper N.2. The Economics of Climate Change in Palestine’.
  14. United Nations Development Programme (UNDP) Programme of Assistance to the Palestinian People (2010). Climate Change Adaptation Strategy and Programme of Action for the Palestinian Authorityhttps://fada.birzeit.edu/handle/20.500.11889/4319 (external link).
  15. Agha, Z. (2019, 26 March). ‘Climate Change, the Occupation, and a Vulnerable Palestine’, Al-Shabaka. https://al-shabaka.org/briefs/climate-change-the-occupation-and-a-vulne… (external link)
  16. Dajani, M. (2022, 30 January). ‘Challenging Israel’s Climate Apartheid in Palestine’, Al-Shabakahttps://al-shabaka.org/policy-memos/challenging-israels-climate-aparthe… (external link)
  17. B’Tselem (2023, May). ‘Parched: Israel’s policy of water deprivation in the West Bank’. https://www.btselem.org/publications/202305_parched (external link)
  18. Howard, G., Bartam, J., Williams, A., Overbo, A., Fuente, D., Geere, JA. (2020). Domestic water quantity, service level and health, second edition. Geneva: World Health Organization. Licence: CC BY-NC-SA 3.0 IGO.
  19. The Applied Research Institute – Jerusalem (ARIJ). (2012, June). ‘Water resource allocations in the Occupied Palestinian Territory: Responding to Israeli claims’. https://www.arij.org/wp-content/uploads/2014/01/water.pdf (external link).
  20. Lazarou, E. (2016). ‘Water in the Israeli-Palestinian conflict’, European Parliamentary Research Service. https://www.europarl.europa.eu/ (external link)
  21. Kubovich, Y. (2018, 16 October). ‘Polluted Water Leading Cause of Child Mortality in Gaza, Study Finds’, Haaretzhttps://www.haaretz.com/middle-east-news/palestinians/2018-10-16/ty-art… (external link)
  22. This section has benefitted a lot from Manal Shqair’s analysis. For more details, please see Shqair, M. (2023). ‘Arab–Israeli eco-normalisation: Greenwashing settler colonialism in Palestine and the Jawlan’. In: Hamouchene, H. & Sandwell, K. (Eds) Dismantling Green Colonialism: Energy and Climate Justice in the Arab Region. London: Pluto

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