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Ecuador: un referendum ferma l’estrazione di petrolio nella foresta amazzonica

Domenica scorsa in concomitanza alle elezioni presidenziali che hanno visto prevalere la candidata progressista Luisa González, del partito correista Revolución Ciudadana, con il 33% ha avuto luogo un altro importante voto: un referendum in cui si doveva decidere se proseguire o meno lo sfruttamento di un grande giacimento petrolifero nel parco nazionale Yasuní.

Il parco nazionale Yasuní è un’ecosistema tra i più ricchi e incontaminati della Terra all’interno della foresta amazzonica. Comprende un’area di circa un milione di ettari di terreno in una zona di incontro fra la foresta amazzonica e le Ande, attraversata dall’equatore, nell’est dell’Ecuador. Si stima che in un solo ettaro del parco Yasunì ci siano più specie animali che in tutta l’Europa e più specie vegetali che in tutto il Nord America. Con 1.300 specie di alberi, 610 di uccelli, 139 di anfibi, 121 di rettili e 268 di pesci è riserva mondiale della biosfera Unesco dal 1989 e patria di diverse comunità indigene – Waorani e Kichwa, innanzitutto, oltre a Tagaeri e Dugakaeri, gli ultimi gruppi che vivono in isolamento volontario nel Paese.

Nel 2006 fu scoperto un enorme giacimento di petrolio all’interno dell’area del parco che per lunghi anni provocò un fitto dibattito tra chi sosteneva l’estrazione e chi si oppeneva allo sfruttamento. Nel 2016 l’ex presidente Rafael Correa propose alla comunità internazionale di dare all’Ecuador 3,6 miliardi di dollari per rinunciare a operare su un’area la cui conservazione è tuttora considerata d’interesse mondiale, non solo nazionale. La proposta non venne accolta, e cominciarono le estrazioni su un’area denominata “Blocco 43”, corrispondente all’incirca allo 0,01 per cento di tutto il parco nazionale Yasuní.

La Petroecuador fu autorizzata a operare su circa 300 ettari di terreno, ma sostiene di averne sfruttati fino a oggi non più di 80. Attualmente produce più di 55mila barili di petrolio al giorno, circa il 12 per cento della produzione nazionale dell’Ecuador.

Il governo in carica ha sostenuto la necessità dei giacimenti di petrolio, adducendo che l’interruzione delle trivellazioni costerà quasi 1,2 miliardi di euro di introiti allo Stato, stimando per il paese circa 16 miliardi e mezzo di dollari di perdite in vent’anni in caso di blocco. Ma sette ecuadoregni su dieci hanno votato contro l’estrazione ed in difesa del parco nazionale. Una decisione considerata “storica” perché si tratta della prima consultazione popolare di sempre in Ecuador richiesta da cittadini e cittadine, ma soprattutto perché dimostra che il costo ambientale ed umano dell’estrattivismo è ben compreso dalla popolazione.

Yasunidos, il principale gruppo ambientalista promotore del referendum, ha proposto di riempire il buco economico che si creerà promuovendo nella zona un turismo basato sul rispetto dell’ambiente, investendo nell’elettrificazione dei trasporti pubblici per diminuire la dipendenza dal petrolio ed eliminando alcune esenzioni fiscali alla parte più ricca della popolazione.

Lo Stato ha ora un anno di tempo per smantellare le strutture: Petroecuador ha però già avvertito che è materialmente impossibile rispettare la scadenza a causa dei protocolli necessari alla chiusura dei pozzi e allo smantellamento delle strutture. La cessazione delle operazioni ricadrà sul prossimo governo: che non potrà disattendere la decisione popolare. Ci sono però molti modi per continuare a tenerla in sospeso. Come sappiamo bene alle nostre latitudini non è detto che il risultato di un referendum popolare sia rispettato dai governi dunque la battaglia sarà ancora lunga e significativa.

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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