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Tentato suicidio di un ragazzo nel carcere minorile di Torino

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Carcere minorile Ferrante Aporti

Il 13 ottobre un ragazzo nel carcere minorile di Torino ha tentato il suicidio.

Torino non è una città per giovani, gli affitti sono alle stelle e in continuo aumento per case pessime. La caccia al ‘degrado’ imbastita dal comune si concretizza nel relegare i giovani verso zone sempre più periferiche per trovare una propria emancipazione economica. Le offerte lavorative sono sempre più precarie e mal pagate. Di fronte alla crisi energetica il dibattito è superficiale e incentrato sulle attività con false soluzioni: sussidi unatantum, ma gli aumenti delle bollette creeranno ulteriori difficoltà, anche, all’emancipazione dei giovani costretti a lavorare ma a rimanere dipendenti delle famiglie per sopravvivere.


In questo contesto ostile per chi non si conforma si presenta il non-luogo delle carceri, un posto dimenticato dalla società da cui le informazioni trapelano solo tramite chi ci è passato, anche i garanti sembrano reticenti sulle condizioni di vita effettive dei detenuti. L’unica certezza è che le condizioni di vita sono disumane come se la finalità fosse una punizione fine a sé stessa e l’aspetto di ‘rieducazione’ sia tralasciato quando dovrebbe essere centrale soprattutto nel caso di un carcere minorile.
La domanda quindi sorge spontanea: e se invece la rieducazione desiderata dallo stato fosse proprio questa?


I giovani non hanno futuro quindi dovrebbero imparare a vivere in condizioni schifose e non protestare mai?


Sembra un analisi corretta se si guarda agli studenti arrestati e considerati ‘socialmente pericolosi’ dalla questura per le ultime mobilitazioni, per aver osato protestare contro l’essere obbligati a fare lavorari svalutanti gratis e senza tutele.
Anche nella vita quotidiana dei giovani si percepisce un desiderio repressivo quando i tentativi di evasione dalla realtà quotidiana fuoriesce dalla sfera del socialmente accettato e delle dinamiche riproduttive capitalistiche.
Un esempio semplice sono i comportamenti controculturali. Per esempio, partecipare a un rave, spesso le reazioni poliziesche sono sproporzionate come i diveti di dimora.
Più in generale, la prospettiva di un giovane è un lavoro precario che impegna tutta la giornata per tutta la vita con l’obiettivo di aprire un mutuo per la macchina, la casa e magari liberarsi verso i 60 anni dai propri debiti se hai una famiglia che ti sostiene.


Chi prova a evadere da questo progetto creato sulla nostra testa spesso finisce criminalizato. In questo contesto la galera è lo strumento repressivo ultimo finalizzato ad abituare alle ingiustizie e piegare ogni forma di ribellione verso una società ingiusta.
Quindi chiunque creda che la società dovrebbe essere inclusiva e rispettosa delle persone che la attraversano hanno il dovere di attivarsi per invertire il paradigma vigente.

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