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USA, morti di Serie A e morti di Serie B

Assistiamo all’arcinota palla mediatica colta al balzo. Due innocenti agenti vittime di un clima di esasperazione generale, di urlato odio verso le forze dell’ordine (anche fomentato, per le ali più destre-repubblicane, dai rappresentanti stessi delle istituzioni). Si diffondono in pompa magna le foto dei due poliziotti uccisi, le loro biografie civili, sappiamo con chi erano sposati, quanti figli avevano e quanto questi siano giovani (tutto ad accrescere in sensazionalismo, col solito pizzico di necrofilia). Come adesso, così per i militari sionisti d’Israele morti in estate durante Protective Edge, 66 contro migliaia di palestinesi. Allora dalle colonne di Repubblica potevamo conoscere a menadito la purezza, la genuinità e la biografia di giovani appena sposati, ex studenti modello trucidati da terroristi. In questi casi continuiamo a chiederci: e i figli delle centinaia di migliaia di morti ammazzati in Palestina? I mariti, le mogli, i fratelli, le sorelle degli afroamericani vittime della Polizia d’America ?

Al solito, ci sono morti di serie A (pochissimi) e morti di serie B (tutti gli altri, i più, il 99%). Morti che l’America e sodali vogliono nascondere, morti come Brown, Garner, Rice, perché esito e dimostrazione di un continuum storico del sentimento razzista (in casa dei più grandi esportatori di democrazia e civiltà) e morti che invece si sfruttano per deviare un discorso pubblico che, viste le proteste, stava diventando destabilizzante. Un gesto individuale è l’occasione per passare da carnefici a vittime, per mostrare che la violenza c’è ma da entrambi le parti, che come è sbagliata quella allora è sbagliata questa. Il ritornello è palese: in un clima così esplosivo torniamo a convivere pacificamente. Ma qual è il prezzo di questa convivenza? Le manifestazioni che si susseguono lo stanno dicendo: il prezzo è l’oscuramento della quotidiana violenza della polizia che i tribunali non risolvono, che lo Stato non risolve perché ne è complice. Una convivenza tutta di comodo e di parte, per una pace sociale che non è vera pace.

Non si ferma però qui la reazione. L’abbiamo accennato sopra: la ricomposizione delle istituzioni con la polizia, ora vittime grazie alle solite gigantografie mediatiche, non è avvenuta senza sommovimenti interni. Accuse di colpevolezza verso il sindaco di New York arrivano dalle stesse forze dell’ordine, complice secondo loro di aver espresso solidarietà alla comunità nera in sue recenti dichiarazioni, tanto che gli agenti gli hanno voltato le spalle al suo arrivo in conferenza stampa per commentare la notizia del doppio omicidio. Ancora ci chiediamo: perché tanta indignazione istituzionale per due morti, perché non hanno voltato le spalle alla sentenza del Gran Giurì che ha assolto l’assassino di Michael Brown? Non è quindi un gesto di protesta per l’inefficienza dello Stato sempre, è ben altro. E’ la prova che il corpo di polizia è cosciente e reale della sua impunità, e lavora alacremente per mantenerla intatta.

 

All’America non basteranno teatrini mediatici, appelli all’amore ecumenico per stiepidire il clima. Anche perché è certa America stessa che non lo vuole, che vuole marcare l’innocenza della polizia. Un presidente nero che apre a Cuba e negli stessi giorni si trova uccisi in casa due poliziotti da un afroamericano: ad Obama e alle istituzioni in generale non basteranno abbondanti dichiarazione di gran cordoglio e solidarietà alle forze dell’ordine. Sono questi giorni, quel voltare le spalle di certo Stato ad altro Stato, i prodromi di una recrudescenza (qualora ce ne fosse bisogno) della polizia a gestione delle future piazze contro il razzismo? Staremo a vedere. Intanto possiamo dire che un obiettivo almeno Brinsley con il suo gesto l’ha raggiunto: ha mostrato al mondo da che parte sta la polizia di New York. Le decine di migliaia di manifestanti che hanno attraversato l’America hanno ragione: la polizia è razzista, i suoi morti valgono di più.

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