
Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato
Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana
di Laila Hassan, da Effimera
“La guerra di liberazione non è un’istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]
A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni.
Se c’è un atteggiamento che in questi anni mi ha particolarmente colpita è l’incapacità di alcuni ambienti in solidarietà con la Palestina di comprendere il significato della lotta palestinese. La rabbia palestinese non è un sentimento che il pubblico occidentale, in lacrime, commosso di fronte alle immagini dei corpi dilaniati palestinesi, può accettare. La rabbia del colonizzato è incomprensibile, fuori dalle regole dell’accettabilità, è animalesca per natura. Un sentimento che può generare mostri, e che ci ha attaccato addosso l’etichetta di incivile, barbaro, dannato. Non è la scoperta dell’acqua calda, né la pretesa di teorizzare qualcosa che è già stato scritto da militanti e intellettuali impegnati nelle più disparate tradizioni anticoloniali, ma l’atteggiamento paternalista, colonizzatore e razzista messo in campo da chi “ti vuole difendere” è ciò da cui dobbiamo stare alla larga.
Utilizzo quindi queste righe per diversi motivi: primo, su tutto, dare sfogo alla mia frustrazione, da palestinese, italiana, militante di un’organizzazione palestinese in Italia. In secondo luogo, per condividere con chi leggerà alcuni dei pensieri che hanno abitato i nostri corpi, spesso in tensione e arrabbiati, spesso incapaci di trovare nello sguardo del solidale un alleato di cui fidarsi.
Le lotte anticoloniali che hanno caratterizzato la metà del ‘900 – stesso periodo in cui si ufficializzava l’istituzione coloniale in Palestina, hanno attraversato diverse fasi, tradizioni, pratiche, riflessioni politiche, momenti in cui le scelte dei colonizzati hanno assunto forme e modalità adatte alle contingenze. Allo stesso modo, pensare che i palestinesi abbiano prediletto una forma di resistenza all’altra vuol dire non essere in grado di leggere la situazione coloniale, né di entrare in connessione con la prassi anticoloniale.
Spesso, negli ambienti “di sinistra”[2] – bianchi non per colore della pelle ma per postura politica – si commette l’errore di non comprendere la varietà delle forme di resistenza e la loro fluidità. In Palestina durante la Grande Rivolta del 1936-39 si sono sperimentate pratiche tra le più disparate tra loro, lo sciopero (durato 6 mesi), assalti armati alle pattuglie inglesi, boicottaggio del pagamento delle tasse, organizzazione della resistenza armata nelle colline.
Tutto insieme.
Perché scrivo tutto ciò? Perché come palestinesi esigiamo il diritto alla nostra opacità. Opacità che si esprime nella mancanza di volontà nel dover negoziare continuamente con l’ambiente “solidale” italiano la nostra postura politica, le nostre rivendicazioni e anche il logorante esercizio di rivendicare il nostro diritto alla resistenza. L’opacità diventa quindi una necessità contro l’imposizione della pratica rivelatoria per cui per essere ascoltati siamo costretti a svelare le nostre fragilità, il nostro dolore e a fare un racconto personale ed emotivo della catastrofe palestinese. In questi anni, la nostra soggettività politica è stata quindi relegata ai margini, resa voce inascoltabile, aliena, risultato del fatto che il pubblico occidentale – soprattutto quello delle sinistre liberali e non – non si è mai liberato della postura orientalista e colonizzatrice per cui devono decidere per noi. Da qui deriva un atteggiamento paternalista che infantilizza la soggettività palestinese, accettata sono nella sua dimensione sofferente. La mancanza di spazio per il processo di soggettivizzazione palestinese ha diversi tipi di conseguenze; una delle più critiche è l’impossibilità per i palestinesi di poter elaborare un piano politico. Se non lo possiamo fare noi, lo faranno gli altri, i non palestinesi. Gli europei, gli occidentali. Infatti, come dimostrato dalla storia della lotta di liberazione del nostro popolo, dalla fase degli accordi di Oslo a quelli di Camp David, alla richiesta di disarmo avanzata alle fazioni della Resistenza durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, sono sempre forze esterne a produrre l’elaborazione politica di ciò che è auspicabile, praticabile e realizzabile per il progetto palestinese.
Oggi con Gaza si riproduce la stessa dinamica.
L’orientalismo di ritorno è quindi quell’atteggiamento per cui non solo lo spazio a noi deputato è quello personale, dell’eterna vittima, del 5×1000, ma anche in questo caso la modalità con cui esprimiamo il nostro dolore e lutto deve passare il vaglio dello sguardo dell’altro rispetto a noi. La rabbia, sentimento generato dall’esperienza dell’ingiustizia sistemica e prolungata nel tempo e nello spazio, della volontà di vendetta, è il motore che, insieme ad altri sentimenti, genera volontà e coraggio. Il razzismo interiorizzato, anche di chi frequenta l’ambiente della generica solidarietà con la Palestina, si esplicita attraverso forti prese di posizione che criticano la nostra ossessione per il martirio. Ci viene detto che il progetto palestinese, secolarizzato, comunista, della Palestina Rossa (ma dov’è questa Palestina Rossa? Parlate proprio voi che avete trasformato l’internazionalismo anti-imperialista in carriere nelle ONG?), non prega i martiri, non li commemora. Ciò è ancora più sorprendente quando pensiamo al ruolo dei martiri nella memoria partigiana della Resistenza italiana. E quindi piazza dei martiri sì, ma se sono bianchi.
La Rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un bagno di sangue.
Come palestinesi impegnati nel lavoro di ricerca accademica, militanti di organizzazioni della diaspora, non abbiamo mai trovato disponibilità a poter esprimere i nostri pensieri e analisi su giornali, riviste italiane. Il nostro spazio è all’estero, nei media arabi o nelle diaspore dei barbari che ci assomigliano. Al contrario, le voci degli ebrei sionisti liberali trovano ampio spazio di espressione nella maggior parte delle testate di “sinistra”; non è un caso. La voce dell’ebreo critico verso l’occupazione, alcuni garantiti anche dal passaporto israeliano, che pubblica un articolo alla settimana tra una conferenza con esponenti del PD ed ex primi ministri israeliani (noi ci ricordiamo bene le azioni di “pace” con il fosforo bianco di Olmert), e una visita a Massafer Yatta, ma con la casa di famiglia a Jaffa espropriata a qualche palestinese nell’ormai lontano 1948 (che pesanti voi palestinesi che siete ancora fermi nel passato!) o che addirittura si arrogano il diritto di spiegarci Said e Fanon (audaci!). Se quindi noi, palestinesi, arrabbiati, inascoltabili, fuori dai confini dell’accettabilità non riusciamo a leggere la fase del nostro tempo, lo facciamo fare a chi da intellettuale impegnato, militante, ha svolto questa funzione prima di noi. Perché nella nostra riflessione collettiva il ruolo del pensatore, dello studioso non può e non deve rimanere slegato dal lavoro di lotta, organizzativo e militante (lo so, suoniamo così novecenteschi, tant’è!). Partiamo da una domanda, la stessa che Césaire si poneva durante la conferenza della Négritude nel 1987 a Miami: “Quanti di me sono morti?”. Cerco di rispondere a questa domanda chiedendomi “quanti di noi sono ancora vivi?”. E se davvero non era previsto che sopravvivessimo, ora che siamo sopravvissuti, cosa facciamo con questa vita che abbiamo in mano? Per me la risposta è semplice: lottare.
Forse dovremmo dare vita alla nostra Palestitude, crearci uno spazio nuovo, dove praticare il diritto all’opacità di cui scrivo e quello della rappresentazione quando ne abbiamo voglia, nelle modalità in cui desideriamo. Parliamo di nuovo di Fanon, perché? Quest’anno cade il centenario dalla sua nascita e tantissimi spazi sociali, organizzazioni e accademici hanno organizzato iniziative dedicate alla sua memoria e all’eredità del suo pensiero politico. Alcuni di questi, gli stessi che permettono al militante martinicano di abitare i loro spazi, hanno negato la possibilità ai membri dei Giovani Palestinesi d’Italia di partecipare a delle iniziative di divulgazione sulla causa palestinese a causa del loro posizionamento “estremo” in riferimento alla lettura politica del 7 ottobre. Io stessa sono stata costretta a ritirare la mia partecipazione a uno di questi eventi spiegando che non posso scindere il mio impegno militante da quello di scrittura e che, per me, i due vanno di pari passo.
Fanon, che credo di aver compreso semplicemente perché leggo la storia di lotta del mio popolo, nel suo articolo “Gli intellettuali e i democratici francesi di fronte alla Rivoluzione algerina” ci aiuta a spiegare alcune delle contraddizioni che oggi emergono nel rapporto tra il movimento di liberazione palestinese e la “sinistra” liberale e non italiana.
Parlando di coscienza nazionale Fanon scrive: “appoggiare senza riserve le rivendicazioni nazionali dei popoli colonizzati è uno dei primi doveri degli intellettuali, per i quali in questo caso si adopera il termine “intellighenzia” e raccontando l’inizio della fase della lotta armata algerina contro le forze coloniali, analizza il rapporto tra la sinistra democratica francese e la sua incapacità di comprendere la portata delle azioni algerine. Specifica:
“il popolo, quello vero, gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi del paese colonizzato si rendono conto senza sforzi che esistere nel senso biologico della parola equivale ad esistere in quanto popolo sovrano. La sola soluzione possibile, l’unica via di salvezza per questo popolo sta nel rispondere il più energeticamente possibile al genocidio perpetrato contro di lui.”
Queste parole mi risuonano profondamente perché riassumono esattamente ciò che proviamo a rivendicare da tempo: la nostra via di salvezza contro l’eliminazione biologica della nostra presenza è la lotta. Come popolo sovrano, non come popolo sottomesso alla volontà delle potenze coloniali e alle decisioni delle loro istituzioni (Nazioni Unite, Unione Europea…) che ci concedono a parole le briciole della nostra terra. Parlando della guerra in Algeria, Fanon si sofferma sull’atteggiamento della sinistra francese nei riguardi di un’azione militare contro dieci civili francesi uccisi in un’imboscata e afferma:
“tutta la sinistra francese con un sussulto unanime grida: non vi seguiamo più. Si orchestra la propaganda, s’insinua nelle menti e affossa convinzioni di per sé assai vacillanti. Compare il concetto di barbarie e si stabilisce che in Algeria la Francia combatte la barbarie”.
Non siamo di fronte alla stessa dinamica? Sostituiamo Algeria con Palestina e Francia con Israele, non stiamo forse parlando degli stupri del 7 ottobre e dei presunti bambini decapitati? Noi abbiamo smesso di essere compresi quando abbiamo smesso di morire inermi, vittime perfette, quando abbiamo deciso – a più riprese nel corso della nostra centenaria lotta di liberazione – di alzare la testa contro il colonialismo.
“Dal 1956 gli intellettuali e i democratici francesi di tanto in tanto si rivolgono all’FLN (…) Consigli e critiche si spiegano con il desiderio mal represso di guidare, orientare finanche il movimento di liberazione dell’oppresso. (…) Lungo questa linea di oscillazione, i democratici francesi, che sono al di fuori della lotta o che manifestano la volontà di seguirla dal di dentro e magari parteciparvi in qualità di censori, consiglieri, per incapacità o rifiuto di scegliersi un terreno preciso di lotta all’interno del dispositivo francese, fanno minacce e ricatti. La pseudo giustificazione addotta è che per esercitare un’influenza sull’opinione pubblica francese bisogna condannare certi fatti, respingere le escrescenze inaspettate, conservare le distanze di fronte agli “eccessi”. In questi momenti di crisi, di scontro, si chiede al FLN di orientare la violenza, di renderla selettiva.”
Visto che noi palestinesi facciamo fatica a formulare un pensiero politico complesso, lascio che sia Fanon a parlare, perché sembra decifrare con precisione l’atteggiamento di chi pretende di orientare il pensiero palestinese.
Sempre nelle stesse pagine, il militante dell’FLN affronta una questione che nel caso palestinese è spesso oggetto di dibattito: chi è il colono? Chi è l’occupante? Qual è la differenza tra civile e militare?
“La situazione coloniale è in primo luogo conquista militare ininterrotta e rafforzata da una amministrazione civile e poliziesca. In Algeria, come in ogni colonia, l’oppressore straniero si oppone all’autoctono perché ne limita la dignità e costituisce una negazione della sua esistenza in quanto nazione. La condizione dello straniero, del conquistatore, del francese in Algeria è quella dell’oppressore. Il francese in Algeria non può essere neutrale o innocente. In Algeria ogni francese opprime, disprezza, domina. La sinistra francese, che non può restare indifferente e impermeabile ai suoi stessi fantasmi, adotta in Algeria, nel periodo che precede la guerra di liberazione, delle posizioni paradossali.”
Il sionismo nasce come movimento coloniale che tra le sue fondamenta ha la negazione dell’esistenza della nazione e del popolo palestinese e solo attraverso la sua presenza militare e civile riesce dagli anni del mandato britannico ad oggi a condurre il suo progetto di insediamento coloniale. Esistono quindi civili israeliani in Palestina? Quel è stato il ruolo del trasferimento dei “civili” in Palestina nel disegno del progetto coloniale? È responsabilità palestinese la loro condizione futura o presente?
“Oggi ogni francese in Algeria è un soldato nemico. Finchè l’Algeria non sarà indipendente, questa conseguenza logica va accettata”
“L’algerino patisce in blocco il colonialismo francese, non per schematismo o xenofobia, perché, in realtà, ogni francese in Algeria ha con l’autoctono dei rapporti basati sulla forza”.
Tale rapporto di potere e forza è esemplare nel caso palestinese e lo possiamo vedere anche in esempi semplici e vicini come nel caso della relazione tra due i registi Basel Adra e Yuval Abraham, vicintori del premio Oscar per il film-documentario “No Other Land”; nonostante il pubblico occidentale abbia voluto celebrare l’amicizia perfetta, desiderata tra il buon palestinese il buon israeliano, per le ragioni descritte qui sopra, tra le altre la volontà di governare il discorso dell’oppresso e di mantenere in vita la legittimità dell’oppressore, la relazione di potere esistente tra i due è chiara. Anche dal punto di vista corporeo, basti osservare lo spazio occupato da Yuval durante la cerimonia di conferimento dell’Oscar, una scena che non dimenticheremo facilmente.
Leila Khaled si, Anan Yaeesh no.
Da più di un anno Anan Yaeesh, militante palestinese, si trova in prigione in Italia. Accusato di terrorismo internazionale, Anan che da quando era un giovane ragazzo di Tulkarem e ha deciso di prendere parte alla Resistenza durante gli anni della Seconda Intifada. “Israele” l’ha imprigionato, torturato. Per questo motivo in Italia, ad Anan, viene riconosciuta la protezione internazionale. E per questi stessi motivi oggi si trova dietro le sbarre della democrazia italiana. Dopo aver respinto la richiesta “israeliana” di estradizione, la magistratura italiana lo accusa di terrorismo internazionale. Ma ad Anan non vengono imputati reati commessi sul suolo italiano, ma viene accusato di aver preso parte ad azioni di Resistenza in Palestina.
In questo anno di prigionia, Anan ha scritto lettere dal carcere rivendicando con forza il diritto del suo popolo ad alzare la testa, nei modi ritenuti legittimi e utili alla lotta di liberazione. Non solo, Anan ha iniziato uno sciopero della fame, in segno di protesta contro l’ingiusto processo nei confronti della Resistenza palestinese; qualche giorno fa l’ultima notizia di un suo atto di autolesionismo per chiedere il rispetto dei diritti basilari in carcere.
Ma tutti tacciono su Anan. È sorprendente vedere come la maggior parte delle realtà in “solidarietà” con la Palestina ha fatto orecchie da mercante quando si trattava di chiedere a gran voce la sua liberazione e di rivendicare il diritto della popolazione palestinese a resistere. A breve si concluderà il processo e, ancora, di Anan non si parla. Dall’altro lato, però, sempre negli stessi ambienti, non ci si astiene dall’utilizzare l’immaginario della Resistenza palestinese, come nel caso del feticismo verso figure come Leila Khaled o della venerazione delle combattenti curde dello YPJ, comprensibili grazie alla riproduzione di un immaginario di femminilità vicino allo sguardo occidentale.
Continuando la lettura delle pagine di Fanon in “Decolonizzazione e Indipendenza” il discorso del militante dell’FLN sull’atteggiamento della sinistra francese non comunista è interessante perché ci può aiutare a tracciare delle linee di similitudine con lo sguardo che la sinistra occidentale oggi posa sulla resistenza palestinese, soprattutto quando essa assume forme vicine all’islam politico. La sinistra preferisce condizionare la solidarietà: imporre limiti, giudicare, ricattare:
“barattare il colonialismo francese con il «colonialismo» rosso o nasseriano gli sembra un’operazione infruttuosa, perché, come essi affermano, in quest’epoca di grandi blocchi si impone un allineamento e i loro consigli sono espliciti: bisogna scegliere il blocco occidentale. Questa sinistra non comunista di solito non si pronuncia quando noi cerchiamo di spiegarle che, per il momento, il problema del popolo algerino è anzitutto di liberarsi dal giogo colonialista francese. Rifiutando di mantenersi unicamente sul piano della decolonizzazione e della liberazione nazionale, la sinistra francese non comunista ci scongiura di abbinare i due sforzi: rifiutare il colonialismo francese e il comunismo sovietico neutrale.”
E ancora:
“Dobbiamo confessare che ci riesce insopportabile vedere dei francesi che credevamo amici comportarsi con noi come dei mercanti e compiere questa specie di odioso ricatto in cui la solidarietà vuole imporre fondamentali restrizioni ai nostri obiettivi.”
E allora.
Scrivo queste parole come augurio, affinché la sinistra nostrana si guardi allo specchio e riconosca il proprio atteggiamento coloniale e quindi razzista.
Che smetta di riabilitare il pensiero anticoloniale solo quando serve a ripulire la propria coscienza.
“Noi non vogliamo mettere sotto accusa i democratici francesi, ma attirare la loro attenzione su certi atteggiamenti che ci sembrano in contraddizione con i principi dell’anticolonialismo.” La critica non risiede quindi in un mero senso di frustrazione personale ma nell’auspicio che si possa guardare la situazione palestinese attraverso i principi dell’anticolonialismo.
Concludo riportando l’appello che FLN rivolse alla sinistra francese, come riflessione sul ruolo dell’intellettuale impegnato, militante alcuni forse direbbero organico nei progetti di liberazione nazionale dal colonialismo:
Il FLN si rivolge alla sinistra francese, ai democratici francesi e chiede loro di incoraggiare tutti gli scioperi intrapresi dal popolo francese contro l’aumento del costo della vita, le nuove imposte, le restrizioni delle libertà democratiche in Francia, conseguenze dirette della guerra in Algeria.
Il FLN chiede alla sinistra francese di rafforzare la sua azione di informazione, di seguitare a spiegare alle masse francesi le caratteristiche della lotta del popolo algerino, i principi che l’animano, gli obiettivi della Rivoluzione.
Il FLN rivolge un saluto ai francesi che hanno coraggiosamente rifiutato di prendere le armi contro il popolo algerino e sono ora in carcere.
Tali esempi devono moltiplicarsi perché sia chiaro a tutti, e in primo luogo al governo francese, che il popolo francese rifiuta questa guerra fatta in suo nome contro il diritto dei popoli, per mantenere l’oppressione, contro
L’avvento della libertà.
NOTE
[1] Fanon F. (1971) Opere Scelte. Decolonizzazione e Indipendenza. Violenza, spontaneità è un testo pubblicato in italiano nel 1971 curato da Giovanni Pirelli e pubblicato da Einaudi, una traduzione del testo originale uscito nel 1959 pubblicato da François Maspero editore. Il testo a cui faccio riferimento qui è tratto da vari articoli pubblicati sul «El Moudjahid» n. 13, 14 dicembre; n. 14, 15 dicembre; n. 15, 30 dicembre 1957. Ripubblicati in «Pour la Révolution africaine». Gli scritti di «El Moudjahid. Organe Central du Front de Libération Nationale», non portavano mai firme, essendo, o volendo essere espressione di elaborazione collegiale. Dopo la morte di Fanon, per iniziativa dell’editore Maspero e con la collaborazione di Josie Fanon e di alcuni ex redattori del giornale, furono identificati (non senza incertezze e pareri discordi) quegli articoli la cui stesura era attribuibile a Fanon. Essi furono pubblicati nella IV sezione di Pour la Révolution africaine.
[2] con “sinistra” intendo sia gli ambienti della sinistra istituzionale sia quelli di “movimento”, dai collettivi agli spazi sociali che spesso sono stati i protagonisti di questo atteggiamento censorio.
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