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L’importante non è partecipare

Lo scorso 15-16 novembre la rivista ucraina «Commons» ha organizzato un dibattitto dal titolo «In Search of Europe». Utilizzando il terreno offerto dalla richiesta di ingresso del paese nell’Ue, relatori e relatrici si sono confrontati su vari nodi di ampio respiro. Tra questi, nella sessione «The Dilemma of Democracy: Participation and/or Procedure», Gigi Roggero ha posto a critica entrambi i poli del rapporto, cioè la democrazia e la partecipazione. Pubblichiamo il suo intervento.

***

 di Gigi Roggero, da Machina

Esprimo da subito un dubbio rispetto all’impostazione che avete dato all’incontro. Ci chiedete il ruolo della partecipazione nel costruire la società, se la democrazia può esistere senza un coinvolgimento civico attivo, infine se la democrazia partecipativa può essere una risposta al vento di destra che spira in Europa e nel mondo. È chiara la vostra critica alle forme contemporanee di partecipazione, e qui vi è convergenza. Il punto, però, è che tale critica poggia su una precondizione, un preconcetto direi, sotteso alle domande che ponete: la bontà della democrazia, ovvero lo sviluppo della democrazia come obiettivo da porre alle pratiche di partecipazione. E qui, alla base, vi è divergenza.

Vi propongo dunque di radicalizzare la nostra discussione, ponendo a critica il presupposto da cui mi sembra partiate: la democrazia, appunto. Non sto parlando di questa o quella democrazia, bensì della democrazia senza aggettivi, sans phrase.

Per farlo, potremmo ripartire dalle origini del concetto, ricordando come ad Atene la democrazia sia nata secondo visibili linee di esclusione: il demos era composto dai cittadini, escludendo cioè gli schiavi, le donne e gli stranieri. Oppure, avanzando alle origini della modernità, sappiamo che la democrazia si fonda sulla figura dell’individuo-cittadino. Alla domanda su chi sia costui, ci pensa John Locke a rispondere: chi ha la proprietà della propria persona. Perché la proprietà della propria persona è il fondamento della proprietà privata. Ancora una volta ne sono esclusi gli schiavi, i poveri, i folli, le donne (la cui esistenza è, nella visione lockeana, costantemente preda di improvvisi sussulti isterici).

Penso tuttavia che il punto cruciale, l’oggetto della nostra critica, debba essere la democrazia nel suo pieno sviluppo: la democrazia politica moderna. Non si tratta dell’unico regime politico che in questi secoli si sia accoppiato o si accoppi con il sistema capitalistico. E tuttavia – questa è la tesi – la democrazia è il regime politico ideale del sistema capitalistico. Perché è basato sull’homo oeconomicus smithiano, ossia lo sviluppo capitalistico del cittadino proprietario di Locke. È l’uomo nuovo prodotto dal capitale, che è prima di tutto un sistema di produzione antropologico, ossia che produce e riproduce soggettività. Non aver direttamente affrontato questo aspetto decisivo, ossia aver liquidato l’homo oeconomicus smithiano come pura ideologia tesa esclusivamente a mistificare la sottesa verità dell’economia politica, è forse il principale limite di Marx, quello che apre le porte al nefasto materialismo determinista del marxismo.

In questo quadro, la democrazia è la forma politica della riduzione dell’individuo a homo oeconomicus, un individuo astratto che nel corso del Novecento, nella sconfitta del suo antagonista, diviene individuo-massa. Egli è un uno vuoto in un insieme di tanti uni vuoti, ricomposti dal capitale nella forma della competizione economica e dalla democrazia nella forma della competizione elettorale. Se vogliamo dirla in altro modo, le elezioni sono il sistema di partecipazione dell’homo oeconomicus. Gli individui-massa, dunque, partecipano al sistema politico nella misura in cui vengono spogliati di ogni loro condizione materiale: non sono proletari o borghesi, uomini o donne, bianchi o neri. Ognuno di loro è ridotto al proprio piano formale astratto, individui-massa in competizione con altri individui-massa.

Rispetto alle forme passate di democrazia cambia allora il problema, tanto da renderle incommensurabili rispetto a ciò che ci troviamo di fronte. Il problema qui non è più l’esclusione, bensì l’inclusione. Il capitalismo contemporaneo, e la democrazia come sua forma politica ideale, sono una formidabile e maledetta macchina di inclusione. Dentro questa macchina tu puoi dire tutto quello che vuoi, nella misura in cui tutto quello che dici non ha la possibilità materiale di inceppare la macchina stessa.

Perciò la democrazia è una grande forma di neutralizzazione delle contraddizioni, di pacificazione dei conflitti, di depoliticizzazione. È solo capovolgendola su questa base che possiamo far camminare la critica alla partecipazione sulle gambe. Nel regime di neutralizzazione democratica, la partecipazione è infatti separata dalle sue radici, cioè il prendere parte, il militare in una parte collettiva, l’organizzare una parte contro un’altra parte. Neutralizzando il prendere parte dentro questa spaccatura del rapporto sociale, la democrazia può così ricomporre gli individui nella figura universalmente astratta del popolo.

Come ben evidenziate nella vostra presentazione, l’era digitale costituisce la «fase suprema» di questo processo, o almeno una sua lampante esaltazione: siamo tutti chiusi nelle nostre bolle, contemplando l’illimitata libertà di un’inutile opinione individuale. Ma prima di ciò, il problema è che l’opinione è la forma naturale di espressione dentro il sistema democratico, la libertà impotente dell’individuo-massa. Una libertà separata dalla pratica e dunque ridotta a diritto, una decisione separata dall’organizzazione e dunque ridotta a chiacchiera, una forma di vita separata dall’organizzazione del conflitto e dunque ridotta a talk show.

Attenzione, non stiamo dipingendo un sistema di alienazione senza via di uscite. La gabbia d’acciaio è un’immagine di straordinaria efficacia, ma solo se la utilizziamo con cautela metaforica. Tant’è che, storicamente e crediamo anche in prospettiva, le possibilità soggettive del conflitto vanno ricercate non sui margini dell’esclusione, ma nel centro della gabbia, nel pieno dell’inclusione, dove le promesse vengono tradite, o il senso di quello che si fa si scolla dalla collocazione nella gerarchia sociale.

Ecco allora l’ipotesi di ricerca che riproponiamo: l’immaginazione di una nuova politica radicale dovrà sviluppare una critica altrettanto radicale della democrazia. Questo orizzonte strategico non è in contraddizione con il possibile utilizzo, tattico e situato, del campo democratico. Ben sapendo che lì, dentro e contro, ci muoviamo in partibus infidelium. L’aver lasciato questa critica della democrazia alle forze di destra o reazionarie è stato un errore fatale, derivante da una postura reattiva e difensiva nei confronti delle esperienze «totalitarie» (concetto che ha oscurato la possibilità di comprensione, la classica notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere). Gli ossessionati dai «totalitarismi» hanno così aperto le strade al totalitarismo democratico. Il giuramento di fedeltà alla democrazia è stato la nefasta risposta al fascismo e al nazismo, che tra l’altro proprio dalla democrazia venivano. Ora è vitale non perseverare nell’errore.

Quella che viene definita «crisi della democrazia» non significa infatti il ritorno del fascismo (da non confondere con l’esistenza dei fascisti, anche al governo, e con torsioni più o meno autoritarie), ma il pieno sviluppo della democrazia stessa. E a coloro che vedono la democrazia esclusivamente nella partecipazione elettorale chiediamo cos’altro sono i social network se non un gigantesco strumento di partecipazione democratica dell’individuo-massa, cioè di espressione di opinione completamente sganciata dalla costruzione di decisione? Quando nel 2014 l’astensione alle regionali in Emilia Romagna sfiorò il 63%, l’allora leader del Pd (il partito democratico, appunto) Renzi twittò entusiasta: non conta quanti votano, quello che conta è prendere un voto in più degli altri. Da un punto di vista democratico hanno indubbiamente ragione. A meno che, riprendendo il caro Brecht, non arriviamo ad affermare che è il loro punto di vista ad avere torto.

***

Gigi Roggero è il direttore editoriale di DeriveApprodi. Pubblicista militante e curatore, per Machina, della sezione freccia tenda cammello. Ha pubblicato con DeriveApprodi: Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia e metodo (2019), Per una critica della libertà. Frammenti di pensiero forte (2023); è inoltre co-autore di: Futuro anteriore e Gli operaisti.

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