
Fuck ICE! Note sulla rivolta.
Da giorni Los Angeles è sotto assedio, una vera e propria invasione poliziesca contro i lavoratori migranti ha scatenato un’odata di proteste e resistenza popolare.
Fuck ICE! Questo il grido che unisce la rivolta, la risposta, prima scomposta, ora sempre più organizzata e combattiva, al Blitzkrieg razzista della polizia anti immigrazione dell’istituto federale. I raid di questa gestapo in versione americana, sono iniziati una settimana fa in maniera massiccia e mediatizzata a favor di propaganda per l’amministrazione MAGA, benchè questa forza speciale si sia distinta anche sotto le amministrazioni democratiche per essere particolarmente violenta nella repressione e la caccia all’uomo “immigrato”. Va considerato che negli ultimi mesi il governo ha mediatizzato le deportazioni riempendo l’infosfera di immagini di persone in catene portate a testa in giù da poliziotti in passamontagna. In tanti e tante quelle immagini devono aver svegliato e destato qualcosa di più profondo della paura che volevano incutere: odio e orgoglio.
Alle centinaia di arresti hanno risposto in maniera spontanea molte persone impedendo e opponendosi all’intervento poliziesco e scontrandosi con la polizia che nonostante la sua violenza, si è ritrovata assediata nel giro di poche ore dentro le sedi dell’ICE di LA. A questa imprevista risposta la polizia e il governo federale hanno risposto con il pugno duro, inviando subito la guardia nazionale sotto il controllo diretto del presidente e, dopo ulteriori giorni e notti di rivolte centinaia di marines, con l’amministrazione municipale che ha dichiarato il coprifuoco.
Durante i primi blocchi e resistenze alle retate nel distretto tessile e in altre fabbriche, insieme ad altri viene arrestato il leader del sindacato SEIU David Huerta. Viene poi rilasciato su cauzione di 50 mila dollari dopo qualche giorno, ma la risposta del sindacato si fa sentire in decine di città con picchetti e cortei, dando slancio alla mobilitazione. Il coinvolgimento dei sindacati di base del lavoro di Los Angeles sembra avere avuto un ruolo importante nell’organizzare la resistenza ai rastrellamenti, fungendo da rete e supporto organizzativo per i lavoratori. SEIU denuncia inoltre il trattamento inumano a cui sono sottoposte le persone fermate dall’ICE.
L’intervento dell’ICE è avvenuto in maniera provocatoria e con vere e proprie marce militari in città con incursioni fatte da agenti mascherati e con veicoli senza targa. Alle prime risposte di resistenza sono stati usati gas e bombe stordenti e proiettili di gomma in una strategia abbastanza chiara di premeditazione e provocazione.
Le manifestazioni sono dapprima rimaste confinate in alcuni quartieri di Los Angeles ma si sono velocemente estese in molte città limitrofe e del nord. San Francisco, Austin, New York, Seattle, Chicago e moltissime altre. É difficile capire l’evoluzione delle proteste e quanto dureranno. Se saranno capaci di espandersi ulteriormente o se la dura repressione statale le farà rientrare. Ma è importante provare a fare il punto e mettere sul tappeto qualche provvisorio ragionamento. Vi proponiamo una piccola raccolta parziale e incompleta di foto e video da alcune città in cui la protesta a preso piede nella speranza di aiutare a fotografare il movimento sinuoso di questa fiamma. Le mobilitazioni si intersecheranno con le proteste contro la parata voluta da Trump per sabato 14 giugno.
La composizione che in queste ore e giornate si riversa nelle strade è significativa, e anche se va analizzata con estrema prudenza, vista la scarsità di informazioni e analisi disponibili da oltre oceano, ci sembra avere alcune caratteristiche particolari. La presenza di persone ispaniche e latine è preponderante, comunitaria in un certo senso, ma non è del tutto omogenea e sono presenti molti americani bianchi e afrodiscendenti. La sensazione è che da un nucleo comunitario e migrante si sia allargata a chi negli ultimi mesi e anni ha partecipato ai numerosi cicli del movimento americano compreso l’ultimo anno di proteste per la Palestina. Una composizione quindi mista, a maggioranza proletaria dei settori più sfruttati e razzializzati, ma con allargamenti al proletariato bianco metropolitano anti-MAGA e alla middle-class sempre metropolitana. I settori giovanili sembrano coinvolgere in maniera trasversale questi comparti differenti con un protagonismo evidente di chi ha avuto ruoli militanti e organizzatori nei cicli dell’ultimo anno.
I numeri inizialmente relativamente piccoli, qualche migliaia di persone si sono allargati velocemente anche se non arrivano immagini di raduni oceanici come in altri momenti di lotta recenti, i numeri sono comunque alti e significativi. La natura reattiva di queste rivolte sembra avere la sua forza nella qualità delle azioni e nella determinazione, nella capacità di resistere efficacemente alle retate nei posti di lavoro e ostacolare il lavoro dei funzionari federali. Questo è determinato dal fatto che l’intervento ICE di questi giorni è più di tutto una dimostrazione di forza e propaganda, in cui i manifestanti vengono ridotti e rappresentati come criminali, quando invece sono principalmente amici, parenti e lavoratori che hanno visto le persone vicine a loro rapite letteralmente nei raid polizieschi. In una città figlia dell’immigrazione l’intervento dell’ICE è stato prima di tutto uno shock, un atto di violenza da parte dello stato, che ha colpito senza troppe distinzioni.
I modi della lotta sin dai primi giorni esplodono, le persone vanno all’assalto. La polizia viene attaccata, sanzionata e respinta, le sedi dell’ICE assediate e gli arresti di massa respinti con forza. Dalle prime reazioni spontanee nascono veri e propri picchetti per difendere i posti di lavoro e sotto le sedi ICE per rallentarne il lavoro, i quartieri interessati dalle proteste sono raduno di presidi e cortei diffusi, spesso attaccati dalla polizia e dalla guardia nazionale in maniera spropositata.



Oltre ad assedi e resistenza agli arresti sui posti di lavoro, la rivolta ha colpito le arterie di trasporto di merci e persone, soprattutto a Los Angeles, obbligando alla chiusura la maggior autostrada che attraversa la megalopoli. Alcuni mezzi della polizia sono stati dati alle fiamme, ma l’immagine di riot diffusi e saccheggi sembra più che altro gonfiata dai media per giustificare l’intervento massiccio della polizia. La realtà sembra quella di una determinata resistenza alla polizia per l’autodifesa, che non deflagra in scenari di rivolta e distruzione delle strutture per la riappropriazione di merci.
Alcuni video ci dimostrano la contaminazione dei metodi di resistenza messi in atto nelle università per protestare contro il genocidio del popolo Palestinese. Le proteste di questi giorni, utilizzano scudi, coni stradali e vernice contro le incursioni dell’ICE.

Le parole d’ordine del movimento di sintetizzano attorno allo slogan “Fuck the ICE!” e vengono vergate con gli spray nei luoghi attraversati dai manifestanti. Le bandiere nazionali dei paesi d’origine dei lavoratori colpiti dalle deportazioni sono elette a vessilli della rivolta. La bandiera Messicana soprattutto spicca sopra tutte ed è utilizzata in maniera diffusa. Anche questo uso di una dimensione “nazionalista” ci sembra significativa, nella misura in cui rimanda alla contrapposizione al colonialismo interno ed esterno degli Stati Uniti, in cui le persone discendenti o direttamente provenienti dall’America latina sono un numero significativo e sono una parte importante del proletariato statunitense, con una lunga tradizione di auto-organizzazione e di lotte. Faticano invece a vedersi i simbolismi delle proteste anti-maga di matrice democratica e liberal, indice forse di una distanza reale dalla politica tradizionale, rafforzando l’idea di una resistenza spontanea e poco inquadrabile nella dialettica radical.
Le mobilitazioni di questi giorni mostrano diversi livelli di scontro interno agli Stati Uniti. Il primo più evidente è sicuramente quello che vede coinvolti i lavoratori migranti con le loro comunità contro le pressioni poliziesche. Il governo repubblicano, subito dopo la sua elezione, ha iniziato una campagna mediatica e operativa per disciplinare ancora di più la presenza e l’accesso di migranti sul territorio, con operazioni sensazionaliste, che nelle ultime settimane hanno preso di mira in maniera massiccia alcuni centri urbani come Los Angeles, considerate “città santuario” per le loro politiche tolleranti sull’immigrazione. Questo scontro ha dato origine alla prima vera opposizione significativa al governo di Trump, facendo intravedere qualcosa che potenzialmente potrebbe ampliarsi come nel 2020, quando le proteste Black Lives Matter dilagarono e incendiarono il paese.
Il secondo livello si innesta sul piano delle amministrazioni statali e locali Democratiche e il governo federale. Le minacce di arresto del governatore della California e gli attacchi all’amministrazione municipale di LA, sono anche il risultato di tensioni pregresse e tendenze e volontà dello stato californiano a rivendicare più autonomia politica ed economica. In questo caso nella necessità di poter usare la forza lavoro migrante come punto di forza di alcuni comparti delle imprese capitaliste sul territorio.
Il Governatore della California, che sicuramente non ha in simpatia movimenti e sindacati di base ha dichiarato nei giorni scorsi: “…Trump sta organizzando una retata militare in tutta Los Angeles, ben oltre il suo dichiarato intento di perseguire solo criminali violenti e gravi. I suoi agenti stanno arrestando lavapiatti, giardinieri, braccianti e sarte. Questa è solo debolezza, debolezza mascherata da forza. Il governo di Donald Trump non sta proteggendo le nostre comunità, le sta traumatizzando. E questo sembra essere il punto. Ha dichiarato guerra, una guerra alla cultura, alla storia, alla scienza, alla conoscenza stessa. I database stanno letteralmente scomparendo. Sta delegittimando le organizzazioni giornalistiche e sta aggredendo il Primo Emendamento e la minaccia di privarle dei fondi. Sotto minaccia, sta dettando cosa le università stesse possono insegnare. Questa cosa ci riguarda tutti. La California potrebbe essere la prima, ma è chiaro che non finirà qui. Dopo toccherà ad altri stati. Toccherà alla democrazia. La democrazia è sotto attacco sotto ai nostri occhi. Il momento che abbiamo temuto è arrivato. Non ci sono più pesi e contrappesi. Il Congresso è sparito. La carica più importante oggi è quella di cittadino. In questo momento, in questo momento, dobbiamo tutti far sentire la nostra voce ed assurgere ad un più alto livello di responsabilità. “
La consapevolezza che le mobilitazioni e la repressione che ne segue, con l’uso di forze armate che solitamente sono impegnate ad esportare “democrazia” all’estero, siano utilizzate dal governo federale per ristabilire il primato e il potere centrale è abbastanza chiara. Trump spinge sull’accelleratore, forzando allo scontro i territori dove il progetto MAGA incontra resistenze su più livelli. Come già era successo durante gli incendi di qualche mese fa, ogni pretesto è buono per far avanzare il controllo federale.

Il terzo livello di scontro è quello più generale e di lungo corso, che viene combattuto, in maniera sotterranea e poco esplicita, dentro lo stato profondo statunitense, fra l’establisment “globalista” che ha determinato le politiche di lungo corso interne ed esterne degli USA e la compagnie politica e economica aggregatasi attorno al progetto Trumpiano.
A meno di fermarsi alla rappresentazione di Trump come autoritario e folle, la stretta sul controllo sociale e l’attacco alle lotte ha implicazioni e un progetto probabilmente più profondo. Mentre si gioca la partita dei dazi per favorire la reindustrializzaione interna, che porterebbe più lavoro operaio, soprattutto per i settori di classe operaia specializzati e più garantiti, si bastona forte un altro settore operaio che invece è caratterizzato da precarietà e iper sfruttamento con pochi diritti. Un settore che, come quello più garantito, ha messo in campo lotte significative negli ultimi anni e conquistato diritti. Il tentativo sembra quello di dividere e agire perché questi settori non si saldino in lotte comuni, facendo leva sulle antiche e ben radicate divisioni del proletariato statunitense. Non è chiaro se questo tentativo possa riuscire o avere un effetto boomerang, stimolando l’emersione di forme di lotta di classe nei posti di lavoro, ma è evidente che le lotte dimostrano di avere delle possibilità di influenza rispetto a come verrà imposto il complesso e contraddittorio programma trumpiano.
Un altro elemento da considerare, senza scadere nel wishfull thinking, è che l’utilizzo così duro e diretto della repressione sui settori popolari metropolitani, può sfuggire di mano, soprattutto se il quadro istituzionale non è compatto. Come nel 2020, la pressione sta portando ad un ampliamento dei fronti di lotta e delle città coinvolte. Le forme di contrapposizione si inaspriscono e gli spazi per la mediazione si esauriscono in fretta. Altri settori di classe potrebbero cogliere l’occasione e va considerato comunque che il fronte studentesco è ancora caldo e che gli sviluppi della guerra israeliana continuano ad ampliarsi. Va considerato inoltre, che l’impiego massiccio di forze di polizia, i larga parte razziste e violente, può portare a episodi imprevedibili che potrebbero gettare benzina sul fuoco. Inoltre c’è da chiedersi quanto le forze armate possano svolgere il compito di polizia interna senza frustrazioni o episodi di rifiuto se messe davvero di fronte a ordini drastici. Finora, l’utilizzo dei marines è limitato al fatto di averli dislocati a Los Angeles, senza metterli in campo come fatto con la guardia nazionale. Molti dei soldati schierati in questi giorni è probabile che si possano trovare di fronte alle loro stesse comunità.
Inoltre, un altro effetto collaterale, probabilmente calcolato, è che l’immagine esterna degli USA e la desiderabilità del modello americano ne risultano fortemente danneggiati, spingendo sempre di più la propria legittimità internazionale sul solo uso della forza imperiale. È facile che questo attacco alle comunità latino americane presenti sul territorio abbia ripercussioni importanti negli stati d’origine, incrementando il sentimento anti-americano, in un contesto in cui la politica statunitense si rivolge nuovamente e insistentemente verso quello che considerano il loro “cortile di casa”.
Queste considerazioni sono provvisorie e precarie e bisogna aspettare lo sviluppo delle prossime giornate di lotta per capire cosa succederà. Una cosa però è chiara, qualcosa sia agita in basso direttamente nel ventre della bestia, e questo è fonte di speranza chi subisce tutti i giorni lo sfruttamento del sistema. Fuck ICE!
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