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Dieci pensieri sul referendum turco

 

Sembra che Recep Tayyip Erdoğan sia a cavallo.

Nel referendum costituzionale di ieri [domenica scorsa – N.d.T.] progettato per conferire poteri dittatoriali al presidente turco, il campo Erdoğaniano del Si ha prevalso, col 51.4% contro il 48.6%, secondo la stima provvisoria [Poi confermata – N.d.T.].

L’esito e le sue conseguenze, tuttavia, sono ben lontane dalla linearità.

Ecco alcuni pensieri preliminari sul significato dei risultati di domenica e sulle possibilità democratiche a venire.

 

1.

Il referendum si è svolto sotto uno stato d’emergenza. Nonostante l’utilizzo esplicito del terrore di stato, di metodi dittatoriali contro l’intera opposizione e della mobilitazione di tutte le risorse dello stato per la campagna del Si da parte del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, il voto per il “si” è riuscito a vincere solo con un margine ristretto.

Un “si” al 51% non legittima in alcun modo le fondamentali modifiche costituzionali al vaglio della ratifica. Piuttosto che determinare un trionfo decisivo (ed un consenso sociale dietro Erdoğan), il referendum ha prodotto un contesto maturo per una grave crisi.

 

2.

E’ molto probabile che le manipolazioni abbiano giocato un ruolo critico nell’esito del referendum. Il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), centrista, ed il Partito Democratico dei Popoli (HDP), filo-curdo e di sinistra, stanno riferendo che circa dai 2 ai 2.5 milioni di voti siano stati contati come validi senza il timbro ufficiale del Supremo Consiglio Elettorale (YSK), o debbano essere messi in discussione a causa di altre irregolarità.

Ieri sera [domenica scorsa – N.d.T.] quando si sono chiusi i seggi ed è iniziato il conteggio lo YSK, improvvisamente ed illegalmente, ha deciso di considerare validi questi voti. Questo nonostante il fatto che solo un paio d’ore prima la commissione avesse dichiarato che “il tentativo di marcare le schede con i timbri ufficiali dello YSK è di prevenire i brogli.”

Sono anche circolati sui social media video che mostravano membri filo-governativi delle commissioni elettorali timbrare deliberatamente per il “si” su schede non marcate. Verosimilmente, la maggior parte di questi voti illegali per il “si” sono stati espressi nelle province orientali, in particolare nella regione a maggioranza curda. Molto probabilmente il voto per il “no” avrebbe prevalso se queste dubbie preferenze fossero state annullate.

 

3.

Nonostante le condizioni dittatoriali pre-referendum e le possibili manipolazioni, l’AKP ha perso molto del centro di gravità della Turchia, vale a dire le grandi città che determinano la politica, l’economia, e la cultura del paese.

Istanbul, di gran lunga la città più grande della Turchia, è stata a lungo nelle mani dell’AKP e di Erdoğan (che è asceso alla presidenza dopo aver svolto il ruolo di sindaco della città). Ankara avrebbe dovuto essere un’altra facile vittoria per il Si. Eppure il voto per il “no” ha trionfato in entrambe le città.

In aggiunta, città costiere economicamente potenti come Izmir, Antalya, Adana, e Mersin hanno tutte mostrato una chiara maggioranza di “no”. Delle grandi città il Si ha vinto solo ad Antep, Konya, Bursa, e Kocaeli. E persino in alcune importanti roccaforti conservatrici islamiche, come il distretto di Üsküdar ad Istanbul, il Si ha deluso.

 

4.

Davanti al governo coloniale diretto, alle tattiche da stato di emergenza, alla repressione militare ed alla manipolazione elettorale, tutte le grandi città curde hanno ancora votato chiaramente contro le modifiche costituzionali.

Sebbene in alcune città il voto per il “no” si sia in qualche modo mostrato inferiore alla percentuale dell’HDP alle recenti elezioni, chiaramente i curdi non mandano giù la dittatura imposta di Erdoğan. E se è vero che la maggior parte dei voti manipolati sono comparsi nelle regioni curde, essi hanno più o meno votato allo stesso modo di quanto fatto in passato: ovvero, contro Erdoğan.

Il presidente – come ancora una volta hanno mostrato i voti di domenica – non può vincere i cuori e le menti dei curdi col puro terrore e con la guerra.

 

5.

L’alleanza dell’AKP con il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), fascista, si è mostrata disastrosa: in tutte le roccaforti del MHP, i voti per il “no” hanno surclassato quelli per il “si”. Ciò significa che il leader della fazione di maggioranza del MHP, Devlet Bahçeli, ha perso la legittimità, e che il partito può ben presto aspettarsi una grave crisi. Meral Akşener, leader della fazione di minoranza del MHP ed attiva sostenitrice del No, succederà probabilmente a Bahçeli a capo della base nazional-fascista.

In ogni caso, si tratta di un colpo per il campo conservatore-nazionalista.

 

6.

Il CHP ha annunciato che richiederà l’annullamento del voto. (In modo simile, l’HDP ha dichiarato che contesterà due terzi dei seggi.)

Se il CHP decide di ricusare seriamente i risultati, lo farà solo perché avrà il sostegno di varie fazioni interne allo stato. In altre parole, ciò indicherà che il nucleo dello stato turco pensa che l’atto di forza di Erdoğan stia seriamente danneggiando l’integrità dello stato e della società.

 

7.

A distanza di un giorno tondo dopo la proclamazione di vittoria di Erdoğan, solo paesi come Qatar, Guinea, Bahrain, ed Azerbaijan si erano direttamente congratulate con lui. Gli alleati storici della Turchia — i paesi NATO, oltre che al nuovo amico di Erdoğan, il presidente russo Vladimir Putin — si sono tutti astenuti dall’esporsi.

In maniera vistosa, gli USA e l’Unione Europea hanno inizialmente annunciato che prima di prendere posizione avrebbero aspettato la relazione degli osservatori dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione Europea). Oggi [Lunedi scorso – N.d.T.], questi ultimi hanno criticato il campo di contesa ineguale ed hanno espresso le proprie preoccupazioni riguardo alla decisione del Supremo Consiglio Elettorale di conteggiare schede e sigilli privi di marcatura ufficiale come validi. (Il portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner ha detto oggi [Lunedi scorso – N.d.T.] che il governo statunitense è al corrente dei timori dell’OCSE e che sta attendendo la relazione finale dell’agenzia.)

I Leader di altri paesi hanno detto che avrebbero rispettato l’esito del referendum, ma hanno nondimeno sottolineato la necessità di fondare un consenso ampio davanti alla crescente polarizzazione ed alla centralizzazione del potere.

Chiaramente, ad Erdoğan manca ogni appoggio significativo dagli alleati esteri della Turchia per una spinta dittatoriale.

 

8.

Nemmeno il grande capitale turco è contento.

L’organizzazione di lobbying del capitale finanziario, l’Associazione Turca dell’Industria e del Commercio (TÜSİAD), ha fatto appello all’unità nazionale ed al “mantenimento delle libertà [e] del pluralismo,” indicando che non sarebbe soddisfatta se Erdoğan procedesse con i suoi piani.

La TÜSIAD, chiaramente spaventata da ulteriore instabilità economica, sta allo stesso tempo premendo per “riforme economiche” draconiane. E queste preoccupazioni non sono limitate alle fazioni più secolari all’interno della grande borghesia turca.

L’Associazione Indipendente degli Industriali e dei Commercianti (MÜSIAD), l’Unione delle Camere e delle Borse valori turche (TOBB), il Consiglio delle Relazioni Economiche Estere (DEIK), e l’Associazione degli Investitori Internazionali della Turchia (YASED) parlano tutte della necessità di riforme, democrazia e simili.

La situazione è cristallina: il capitale turco è nel panico, e stanno pressando il governo per tornare alla “normalità”.

 

9.

Il discorso di Erdoğan la notte del referendum ha mostrato l’attitudine del vincitore e l’intenzione di spingere in avanti. Ha dichiarato che il popolo ha combattuto “una lotta di risveglio” e che il suo primo compito sarebbe di reintrodurre la pena di morte.

Oggi [Lunedi scorso – N.d.T.] si è spinto persino oltre: ha reiterato il suo desiderio di reinstaurare la pena di morte ed ha dichiarato di aver vinto “contro la mentalità crociata dell’Occidente e gli attacchi dei suoi scagnozzi all’interno”. Dopo la dichiarazione preliminare dell’OSCE, Erdoğan ha portato la propria retorica all’estremo. Ha detto all’OSCE di “stare al posto suo” ed ha aggiunto che “il blocco dei negoziati con l’UE non è una grande questione, possiamo semplicemente passare per un altro referendum.”

Evidentemente Erdoğan non ha intenzione di rallentare, nonostante il fatto che la sua egemonia stia ora seriamente traballando. Metà del paese gli si oppone, il grande capitale è nel panico, i partiti di opposizione stanno montando la lotta, e le reazioni internazionali sono molto fredde. Se Erdoğan continua a forzare i limiti del proprio potere, non mancherà molto prima che la struttura di potere che lo sostiene collassi.

 

10.

La notte del referendum, decine di migliaia di persone hanno affollato le strade e le piazze delle città in tutto il paese, in particolare nelle roccaforti di opposizione di Istanbul, Ankara, Izmir ed Antalya. Mentre scriviamo, queste proteste si stanno espandendo.

Ovviamente, questa opposizione popolare è stata oscurata dall’apparato mediale di governo. Ma mostra che i semi di un’alternativa democratico-popolare possono ancora germogliare.

Questo non è il tempo delle ritirata, ma piuttosto il momento ideale per un’offensiva delle forze rivoluzionarie e democratiche. L’ordine costituito è sul filo del rasoio. E come scrisse Nietzsche, “Ciò che sta cadendo merita di essere spinto.”

 

Tratto da Jacobinmag.com

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