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Chi vuole evitare il passato?

Table of Goods (2017), installazione di Grada Kilomba.||||

di Matilde Flamigni per Il Lavoro Culturale

 

L’amore non c’entra nulla con questo; l’amore c’entra eccome.

Originariamente pubblicato con il titolo Lose Your Mother. A Journey Along the Atlantic Slave Route (Farrar, Straus and Giroux, New York, 2007), il libro di Saidiya Hartman offre una potente riflessione sull’utilizzo della storia e della memoria per affrontare le questioni della tratta atlantica, della schiavitù e delle sue ricadute sul presente. Oggi Perdi la Madre è finalmente disponibile in italiano, grazie all’impegno della casa editrice indipendente Tamu e all’ottima traduzione di Valeria Gennari, che con cura permette di meglio avvicinarsi ad un testo complesso e, al contempo, necessario.

A metà tra il saggio storico e l’autobiografia, nell’incedere dei capitoli Hartman affronta diversi temi rilevanti che rimangono tuttora, o forse ora più che mai, aperti e conflittuali. Tra questi, il nodo della cittadinanza e della giustizia razziale, l’aspetto contraddittorio delle riparazioni e delle petizioni di risarcimento per gli eredi degli schiavi, il legame indissolubile tra il lavoro forzato e l’ascesa delle società capitaliste. Alcune riflessioni vengono riprese nell’introduzione alla nuova edizione della traduttrice e attivista Barbara Ofosu Somuah, capace in poche pagine di declinarli all’interno del movimento globale per le vite nere e nel contesto italiano della realtà vissuta della nerezza, dando particolare centralità alla questione delle leggi di cittadinanza e delle politiche di appartenenza.[1]

Il racconto segue le tappe del viaggio dell’autrice dall’America al Ghana. Lì, attraverso le nove rotte degli schiavi che ne tagliavano il territorio, Hartman visita il castello portoghese di Elmina, entra nelle segrete della fortezza di Cape Coast, cerca le rovine della piazza del mercato di Salaga e percorre la capitale asante di Kumasi, sulle tracce di uomini e donne che, una volta divenuti merci, vennero depredati delle loro vite e  trasportati al di là dell’Atlantico.

È un libro scomodo, nel senso letterale, di quelli per cui devi riaggiustare il cuscino sulla poltrona mentre leggi. Nel suo viaggio, Hartman rievoca i fantasmi della schiavitù e ti obbliga fare i conti con la sua «vita postuma». Il questo senso, «il passato non è né inerte né dato», e la questione della costruzione della memoria affatto neutrale. Riconoscere nella tratta e nella schiavitù una storia complessa, impossibile da confinare alle Americhe, ma fatta di attori diversi e a volte inaspettati, lungi dall’assolvere, obbliga invece a mettere in gioco molto più di quello che pensavi. Come ricorda l’autrice, infatti, «non è possibile che gli autori della devastazione siano anche innocenti. È l’innocenza che costituisce il crimine» (p. 210).

Ogni anno diecimila africani americani raggiungono il Ghana, percorrendo all’inverso il viaggio che aveva portato i loro antenati nel Nuovo Mondo, alla ricerca di un legame con il passato che gli permetta di trovare un’identità nel presente, oltre il trauma della diaspora. Sin dalle prime pagine, Perdi la madre mostra come l’essenza stessa della schiavitù si identifichi con un senso di spaesamento costante, che ti segue ovunque tu sia. Per Hartman, è questo sentimento di estraneità che non permette di abitare una quotidianità, ma di “stare” precariamente in un luogo come in un altro e, quindi, «di vivere in un paese senza esercitare alcuna pretesa sulle sue risorse» (p.115).

Passando dagli Stati Uniti alla storia imperiale europea, il mio pensiero è andato all’articolo 22 della Costituzione liberale di Cadice del 1812 (www.congreso.es/docu/constituciones/1812/ce1812_cd.pdf). Esso apriva la possibilità di diventare cittadini «agli spagnoli che per qualsiasi linea sono considerati e reputati nativi dell’Africa […] attraverso la porta della virtù e del merito». Il passaggio è particolarmente ambiguo poiché rivela, da un lato, che i neri di condizione libera non erano di per sé inclusi nella cittadinanza e, dall’altro, che per esserlo avrebbero dovuto provare la loro condizione sociale, morale ed economica. Queste disposizioni particolari, per la verità comuni a tutto il mondo Atlantico, esplicitavano una più sottile condizione: chi discendeva dagli schiavi poteva essere trattato come straniero. Ciò, permetteva inoltre di delimitare i confini dell’esclusione e dell’inclusione nella società, nella comunità, nella famiglia.

A diventare schiavi erano coloro considerati estranei, costretti a dimenticare il proprio passato e condannati  a quella che Orlando Patterson definisce la «morte sociale»». Al contrario, durante i “viaggi del ritorno” alla ricerca di un’appartenenza, la solidarietà razziale viene espressa nel linguaggio della parentela, utilizzata per ricostruire il legame con la famiglia africana. In questo senso, per la comunità della diaspora il passato diventa un paese in cui tornare, dove poter riabbracciare la madre perduta e non sentirsi più orfani.

A partire dagli anni ’90, intorno alle rotte degli schiavi e ai ritorni dei loro discendenti americani si sviluppa un nuovo settore turistico, che diviene presto indispensabile per le entrate economiche di diversi paesi africani. Viene così assecondata la costruzione di una memoria pubblica della schiavitù, convenientemente declinata rispetto al rapporto tra il continente africano e i suoi figli dispersi.

Una volta giunta in Ghana, Hartman è comunque una obruni (straniera). Essere considerata semplicemente una ricca turista non è l’unico boccone amaro da digerire. Durante il suo viaggio, l’autrice deve fare i conti con una rivelazione ben più profonda e dolorosa: anche se non si identifica con la linea del colore, il solco tra schiavi e padroni rimane indelebile. In effetti, anche il linguaggio della parentela è pervaso dalla disuguaglianza e, dato che esso «riguardava tanto l’esclusione come la filiazione» (p.62), la realtà è che persino nell’intimità e nell’amore esiste il possesso.

Tuttavia, l’autrice custodisce in sé la nostalgia di una identità collettiva panafricana, il sogno degli africani americani che avevano attraversato l’Atlantico e abbracciato le lotte decoloniali degli anni ‘50 e ’60. Intellettuali, tecnici, attivisti si erano trasferiti in Ghana inseguendo un desiderio di libertà, un luogo immaginato, nutrito dalla fantasia. Ma per lei l’Utopia si sbriciola nella sfiorita pensione Marcus Garvey di Accra. «La mia non era l’epoca dei sogni, ma quella del disincanto» (p. 58), prende nota.

Nella sua ricerca, Hartman incontra mercanti, aristocrazie guerriere, reali delle grandi città costiere e altri agenti che fungevano da intermediari nella tratta atlantica. Per secoli, le élite africane avevano messo in vendita la gente comune, incessantemente minacciata dal pericolo di essere fatta prigioniera in cambio di tessuti, pistole, polvere da sparo, alcol e conchiglie di ciprea. Il prestigio si basava infatti su denaro, beni di lusso e merci ricercate che non generavano nuovo benessere, ma servivano semplicemente a mantenere le gerarchie di classe e di status.

La frattura dell’Atlantico si rivela quindi ancora più complessa e dolorosa da elaborare, poiché dall’altra parte non c’è nessun nobile passato da ritrovare o di cui essere fieri. Le parole Aime Cesaire in Diario di un ritorno al paese natale tornano alla mente con la loro potenza disarmante:

No non siamo mai stati cavalieri del re del Dahomey, né principi del Ghana con ottocento cammelli, né dottori a Timbuctù mentre era re Askia il grande, né architetti a Djenné, né soldati nel Sudan e neppure guerrieri. […] confesso che siamo stati in ogni epoca mediocri lavapiatti, lustrascarpe di scarso rilievo, nel migliore dei casi stregoni coscienziosi e il solo indiscutibile primato che abbiamo battuto è quello della resistenza alla frusta… […]

Sento salire dalla stiva le maledizioni incatenate, i singulti dei moribondi, il rumore di uno che viene buttato in mare… i lamenti di una donna che partorisce… il raschiare di unghie che cercano la gola… i ghigni della frusta… il rimestare dei parassiti fra la gente sfinita.

Se questo «frantumava ogni illusione di unanimità di sentimento nel mondo nero» (p.100), per Hartman indica anche la direzione da intraprendere nella sua ricerca della storia dimenticata e silenziata degli schiavizzati. Le loro vite non solo non erano ricordate, ma era stata negata loro anche la memoria. La spoliazione si era concretizzata nella sottrazione sistematica dei beni, dei diritti e anche dei ricordi. E per questo parte da sé.

Per riannodare i fili di un albero genealogico impossibile, l’autrice prova a ripercorre la storia taciuta della sua famiglia. Nei diversi tentativi di ricostruire il proprio passato, si rivolge alle zie Laura e Beatrice, custodi delle poche informazioni a disposizione. Esse le raccontano una storia tutta declinata al femminile. Infatti, secondo il principio del partus sequitur ventrem, nel mondo Atlantico era la condizione della madre schiava a definire lo status legale dei figli, che ne ereditavano la posizione sociale. In questo passaggio, la dimensione di genere e il suo intersecarsi con l’esperienza della schiavitù, presente in sottotraccia in ogni pagina del libro, ma forse poco affrontata direttamente, emerge maggiormente. I figli della spoliazione portano il marchio della schiava e ne sono la progenie. Al contempo, le eredità custodite da Beatrice e Laura hanno in sé la potenzialità di «valorizzare una rete di intimità e di filiazione estranee alla legge dell’approvazione paterna» (p.107).

Malgrado ciò, per Hartman la ricerca dei senza nome e delle memorie interrotte dalla schiavitù si rivela un’impresa impraticabile. Il suo lavoro di indagine si muove nelle mancanze, in luoghi vuoti e nei silenzi dell’archivio sfuggevole della schiavitù. In mondo fatto d’oro e di sporcizia, abitano i mostri. Nei sentieri che dalle province del nord portavano alla costa, nelle celle dei castelli, nelle stive delle navi, uomini cannibali si cibano degli schiavi e delle schiave. La loro carne era il nutrimento del sistema atlantico della tratta e il loro sangue vampirizzato dal capitale mercantile. Nelle segrete delle fabbriche[2] di materia umana dell’Africa occidentale rimanevano solo gli scarti dei dimenticati, delle cui vite era impossibile riempire i vuoti: «la folla stipata in quella stanza sarebbe rimasta senza nomi e senza volti» (p. 170). Nelle pagine più difficili del libro, emerge in tutta la sua violenza la natura del crimine della schiavitù.

L’antropologa Adeline Masquelier, a proposito dell’immaginario Mawri sulla Nigeria, mostra come le forme stregoneria, vampirismo e cannibalismo siano alcuni dei modi in cui le persone si confrontano con l’esperienza dolorosa della migrazione. Anche Hartman indica una connessione tra la migrazione – forzata o meno, passata e presente – e il capitalismo mostruoso e atropofago.

Nonostante ciò, per l’autrice il dislocamento e la spoliazione possono diventare il terreno su cui costruire un nuovo insieme di possibilità. L’ultima tappa del viaggio è a Gwolu, nel nord ovest del paese. Sulle tracce di vecchi sentieri polverosi, dell’ombra degli alberi di baobab e delle rovine di antichi muri difensivi, Hartman arriva in uno dei tanti luoghi remoti in cui uomini e donne comuni avevano scelto di fuggire dall’economia della predazione. «Alla fine, quando la distanza tra loro e il vecchio mondo sembrava incolmabile, iniziarono a sentirsi al sicuro» (p.275) e le genti  sisala, letteralmente “coloro che si mettono assieme”, decisero di unirsi, dando inizio a una storia di resistenza e rivalsa.

Se nelle storie degli imperi non c’è posto per gli schiavi, il desiderio di libertà accomuna invece in un modo inatteso le due sponde dell’Atlantico. Per Hartman, l’esperienza della fuga diventa l’eredità da rivendicare e la base per un’identità comune fondata da e nella spoliazione. Le pagine finali del libro sono un potente invito a costruire “comunità maroons, in cui essere chiamato schiavo non è più un marchio di disonore, ma un nuovo impegno di affiliazione attraverso cui «accettare il rischio e la promessa di essere senza patria» (p. 128). In pratica, perdere la madre.

Bibliografia di riferimento:

Aimé Césaire, Diario del ritorno al paese natale, trad. Graziano Benelli,  Jaka Book, Milano, 2004.

Adeline Masquelier, Of Headhunters and Cannibals: Migrancy, Labor, and Consumption in the Mawri Imagination, «Cultural Anthropology», vol. 15, n. 1, (2000), pp. 84–126.

Federica Morelli, Free People of Color in the Spanish Atlantic: Race and Citizenship, 1780–1850, Routledge, London, 2020.

Orlando Patterson, Slavery and Social Death: A Comparative Study, Harvard University Press, Cambridge, 1982.

Eric Williams, Capitalism and Slavery, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1944.

[1]  Hartman interviene diverse volte sulla questione della cittadinanza e su ciò che rappresenta nel contesto statunitense: «Anche io vivo nell’epoca della schiavitù, e con questo voglio  dire che vivo nel futuro che essa ha creato. Questo futuro è la crisi della cittadinanza ancora in atto» (p. 167). Per quanto riguarda la dimensione italiana, ho trovato la stessa attenzione al tema nella recente pubblicazione di Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza, 66thand2nd, Roma, 2021. Inoltre, Barbara Ofosu-Somuah si sta occupando di tradurre in inglese Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ, Firenze, 2019), la prima antologia interamente scritta da donne afroitaliane a cura di Igiaba Scego.

[2] Harman ci ricorda che il termine “fabbrica” fu utilizzato inizialmente dai britannici per riferirsi ai forti commerciali africani, dimostrando un’ulteriore connessione tra il sistema schiavista e la rivoluzione industriale delineato dal trinidadiano Eric Williams.

 

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