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Sulla settimana di mobilitazione a Taranto

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Sembra una barzelletta macabra l’intreccio tra le “grandi opere” disseminate nel Sud dello stivale, e le nocività devastanti che causano. Non una partita che si gioca solo tra infrastrutture, e devastazione ambientale, ma anche e soprattutto sulla pelle degli abitanti dei territori prescelti per essere un luogo di morte.

L’ILVA di Taranto è uno tra i mostri più famosi per la scia di nocività e morte che lascia dietro di sè, dal giorno della sua costruzione. Da ormai decenni sono riconosciute le gravi nocività dell’impianto siderurgico di Taranto, eppure istituzioni, governi e chi per loro non hanno mai fatto nulla perché si proteggesse l’ambiente e la salute dei cittadini. Una tragedia quotidiana per chi vive a Taranto e nelle zone limitrofe, ma soprattutto l’ennesimo teatrino elettorale su cui ci si espone per amore di accaparrare qualche voto e che, al giorno dopo delle elezioni, viene rimesso da parte.

L’ Ilva si porta dietro, e dentro, un portato di questioni e di contraddizioni però, e questo non può passare in secondo piano. Ci sono persone, uomini e donne, vecchi, giovani, bambini, che si sono visti crescere un mostro di morte alle loro spalle. C’è il ricatto lavorativo. C’è la tutela e la difesa dell’ambiente e della salute. C’è lo sfruttamento devastante e senza pietà di un territorio: l’Ilva sta consumando qualsiasi risorsa del territorio circostante, inquinandolo nel frattempo e distribuendo morte, continuando a prosciugare in attesa che non ci sia più nulla da prendere. Nel frattempo c’è un pendolo sulla testa di tutti gli abitanti, che oscilla tra malattia e disoccupazione, tra emigrazione e morte, e che è uno dei tanti equilibri tutti costruiti dall’alto su cui politica, imprenditori e compagnia varia giostrano i loro giochetti, tutti mirati solo a guadagnare il più possibile finché ancora ce n’è.

Si è forse arrivati a un punto di non ritorno: le carte sono ormai chiare a tutti, e nessuno crede più ai giochetti. Da più di una settimana gli abitanti di Taranto si sono mobilitati contro l’ecomostro e le istituzioni che non li hanno mai difesi. A dare il via a questa settimana di agitazione è stato il corteo che si è tenuto in memoria delle migliaia di vittime di cancro che ha provocato l’impianto industriale, corteo avvenuto ad un mese dall’ultima morte: un ragazzo di 15 anni che da tre anni combatteva un sarcoma. Dopo il corteo, tuttavia non ci si è fermati, e si sono susseguiti azioni tra le cui più importanti l’occupazione del Municipio e la chiusura degli impianti con un catenaccio.
“Se chiudono le scuole, noi chiudiamo l’industria” sono queste le parole che tantissime donne pronunciano quando appongono i lucchetti e le catene nei cancelli dell’industria. Perché, da una settimana a questa parte, le scuole del quartiere Tamburi, limitrofo all’Ilva, sono chiuse. Ma non solo, per quegli abitanti non si esclude un’evacuazione di massa.
Cosa produce l’ecomostro?

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“Tutto l’acciaio del mondo non vale la vita di un solo bambino” è lo slogan scritto negli striscioni e che si grida durante le manifestazioni. Produce acciaio, produce morte, devastazione, espropriazione. Per il profitto di pochi, si mette a rischio un territorio, migliaia di persone: la barzelletta dell’ILVA sta arrivando alla fine? O è solo l’epilogo di una brutta storia, ma come ce ne sono a centinaia in tutto il Sud?
Basta poco per guardare come la costruzione della Tap distrugga i secolari uliveti presenti in Puglia; basta guardare un po’ più a Ovest per immergersi nella terra dei fuochi; basta spostarsi di qualche centinaia di kilometri per osservare il triangolo industriale di petrolchimici di Augusta-Priolo-Melilli (Sicilia), o alle trivellazioni a largo delle nostre coste, o agli inceneritori mangia rifiuti e produttori di morte. E il gioco al massacro non finisce qui: se da un lato si aprono sempre più luoghi di devastazione come quelli sopracitati, dall’altro lato si costruisce una sanità sempre più scadente, si chiudono i centri oncologici e si privatizzano molti settori. Anche curarsi, nei luoghi in cui la malattia è indotta, diventa un lusso per pochi.
Eppure ancora c’è la forza di opporsi e di dire: “non siamo riusciti a salvarvi” a tutti i bambini e le bambine morte, ma dal dolore immenso che questo può provocare, fare ripartire la lotta. Forse non è più tempo di aspettare che sia qualcuno a chiudere l’ILVA, così come non è più tempo di affidare a nessuno le decisioni sulle trivellazioni o gli smantellamenti di impianti vecchissime e le bonifiche.
D’altronde lo striscione delle donne di Taranto, sotto il Comune, la mattina dell’8 marzo, lanciava un messaggio molto chiaro: Sulla nostra Salute, sui nostri territori e sulle nostre vite, decidiamo noi.

 

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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