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Continassa, il delitto perfetto

Esattamente quattro anni fa, il 14 dicembre 2007, due funzionari delle Nazioni Unite atterrarono all’aeroporto di Caselle, a Torino, e si diressero in via Bologna, in un’ex caserma dei vigili urbani dove, una volta entrati, trovarono sacchi a pelo, lenzuola stese a terra, vestiti sparsi, corpi infreddoliti. Erano le centinaia di profughi e rifugiati politici provenienti dal Darfur (Sudan), dalla Somalia, dall’Etiopia, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio e da altri paesi africani, e ciascuno di loro aveva la sua storia da raccontare, in un inglese stentato o in un italiano abbozzato, a noi – per lo più militanti dei centri sociali Askatasuna e Gabrio, ma anche studenti, artisti di strada, abitanti del quartiere – che li circondavamo in quella che era stata battezzata Casa Africa. La funzionaria dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) si schiarì la voce nel gelo e parlò. Disse che era lì per chiedere scusa ai rifugiati ufficialmente, a nome della sua istituzione, per il trattamento indegno che lo stato italiano stava loro riservando. Arrivavano da paesi dilaniati dalle guerre civili o martoriati da gravi crisi sociali. Ricordò che l’Italia – per cui disse di provare vergogna – ha sottoscritto una lunga serie di Convenzioni e Dichiarazioni internazionali in materia di asilo politico, di accoglienza dei profughi, di rispetto della persona e dei diritti considerati fondamentali nel consesso internazionale.

Ricordo quel giorno come fosse oggi, ed è da quelle scuse che vorrei partire per riflettere sulle reazioni al rogo della Continassa. Il sindaco, imitato da molti altri in questa settimana, ha scritto che l’episodio di sabato scorso è tanto più preoccupante perché avvenuto a Torino, “capitale italiana dell’integrazione”. Partirei da qui per chiarire anzitutto che il momento peggiore per abbandonarsi a magniloquenti banalità è quello in cui emerge che la verità della strada è diversa dalla rappresentazione fasulla che ne dà la politica. Ciò che è accaduto non è per nulla sorprendente, se si considerano le due facce dell’episodio: quella dell’incendiario, di colui che materialmente appicca il fuoco all’abitazione altrui, e quella di chi ha armato la sua mano con il fuoco – fuoco che, al contrario, non necessariamente è materiale. La storia dei profughi africani a Torino è una delle mille che possono chiarire quanto chi crea le premesse del degrado coincida spesso con chi si cosparge il capo di cenere: la parte apparentemente rispettabile della città, quella che ogni volta si sorprende – in modo particolarmente sospetto, la politica. Quei profughi, nell’inverno del 2006, vivevano in un capannone abbandonato tra Torino e Settimo, tra topi e principi d’epidemia, nell’indifferenza totale dei due comuni, che erano consapevoli della situazione, ma speravano restasse nel silenzio. Giornali come La Stampa, La Repubblica e Torino Cronaca, sempre pronti a sbattere il migrante in prima pagina quando si tratta di episodi (reali o inventati) di cronaca nera, censurarono sistematicamente il caso, anche (anzi soprattutto) quando il neonato Comitato di Solidarietà con Profughi e Migranti, sorto in seguito all’occupazione di Casa Africa, ne fece pubblica denuncia.

La “capitale” dell’integrazione, con l’indispensabile complicità dei mezzi d’informazione, tratta centinaia di esseri umani, che hanno diritto a un sostegno concreto, come un’imbarazzante rottura di scatole e un problema di ordine pubblico. È ciò che accade ai profughi come ai rom, quando la realtà o l’idea di una loro presenza sul territorio viene strumentalizzata politicamente dagli amministratori locali, anche di sinistra. La connivenza tra politica e informazione è, su questo piano, evidente e scandalosa. I mezzi di stampa creano l’atmosfera culturale necessaria allo shock annunciato del “pogrom”: gli italiani sono brava gente, dice a mezze parole il quotidiano qualunque, perché tollerano i loro ex perseguitati (i rom, sterminati dalla Germania con l’avallo e la collaborazione dell’Italia negli anni Trenta e Quaranta) ed ex colonizzati (somali, etiopi, eritrei). Brava gente, lasciano intendere “ai loro lettori”; ma la pazienza, sembrano suggerire ogni giorno, può avere un limite. Strana concezione dello spostamento e del viaggio: i soldati italiani che puntarono o puntano le loro armi sui paesi esteri, dalla Libia al Corno d’Africa un tempo, dall’Iraq di nuovo alla Libia di recente (da Giolitti a Mussolini, da Berlusconi a Napolitano) sono eroi; chi decide di venire in pace da altri paesi nel nostro, o chi addirittura è autoctono ma identificabile come diverso (come molti rom), è invece, al massimo, un ospite tollerato.

Su questa rappresentazione arbitraria della realtà i partiti della casta, dal Pd al Pdl, creano le loro campagne: per evitare i “pogrom” della gente comune, dicono da destra a sinistra, sia pur in modo diverso, è necessaria una combinazione di integrazione e repressione, che si concretizza in tanta cartaccia con una marea di marche da bollo, firme, timbri, qualche manganellata e qualche percossa qua e là, e un po’ di associazioni dove i ragazzi torinesi possano dispensare, dopo tutto questo, qualche sorriso (e l’integrazione diviene, come ogni cosa oggi, occasione di vasto lucro sulle sventure degli ultimi e sulle capacità o sui buoni propositi dei più giovani). Un sistema oliato, fatto di stratificazione giuridica degli oppressi, sfruttamento selvaggio, uso cinico degli apparati repressivi e governo sapiente delle anime, al fine di far risiedere nella nostra città un esercito di schiavetti disprezzati e controllati al minor costo – sociale ed economico – possibile. Ciò che non è chiaro è, in un simile scenario, chi dovrebbe integrarsi e, di preciso, a che cosa. Sono il primo, da italiano, a non volermi integrare a un’Italia e ad una Torino simili; ben consapevole che, in ogni caso, le costellazioni valoriali che abbiamo in mente quando immaginiamo ciò a cui ciascuno dovrebbe integrarsi, variano ormai ancor più da italiano a italiano che da italiano a straniero.

La mano che offre il fuoco è in questo meccanismo marcio nella sua essenza, sbagliato nei suoi presupposti e nei suoi fini; è situato nelle sedi dei quotidiani, dei partiti, nella Sala Rossa, nella Questura. Procede per firme su permessi di soggiorno a scadenza, fogli di via, decreti di espulsione; per titoli scandalistici, propaganda; rema nel torbido, fa incetta di qualunquismo. La mano che appicca l’incendio, ovviamente, non è la stessa. Nelle periferie di Torino vive la vittima bianca, maggioritaria, della “capitale dell’integrazione”: i padri e le madri cassintegrate e i ragazzi disoccupati, sottopagati, sfruttati, arrabbiati, disperati; qualche percossa della polizia e qualche sorriso da parte degli assistenti sociali se li beccano pure loro, e anche loro non sono granché integrati, né potrebbero (o vorrebbero) esserlo. Spossessati di qualsiasi cosa, nella metropoli dei grandi eventi da cui la periferia è esclusa, i proletari contemporanei devono convincersi, nell’eterno presente colmo di spettacolo, privo di spessore esistenziale, che hanno ancora una dignità, ancora una vita; il quartiere, la strada e il bar, il campo da calcio e il parchetto, sono l’unico scenario su cui i senza potere possono credere ancora di avere qualche potere. Credere, non di più: perché le ristrutturazioni edilizie e produttive avvengono sotto i loro sguardi impotenti, così come la repressione delle loro eventuali scappatelle dalla legalità, per arrotondare di qualche euro.

Resta poco su cui affermare un ruolo decisivo, e le donne, manco a dirlo, sono due volte vittime sacrificali: vittime immaginarie dello straniero, vittime reali del quartiere e della famiglia, sembrano l’ultima, triste, linea di resistenza di ciò che resta di una certa composizione tradizionale della classe operaia. “Mia figlia” o “mia sorella” non si toccano… Istruttivamente, il rogo della Cortinassa ha origine in un’ingiustizia tutta italiana, al cuore dei presunti “valori” del Belpaese, nell’eterno, immobile, disgustoso adagio popolare per cui le donne, e la loro sessualità, sono un problema da uomini. (Un adagio su cui anche la maggior parte degli uomini rom sarebbe d’accordo). Non sarà necessario verificare le voci, perché l’occasione è troppo ghiotta per mostrare di contare qualcosa, almeno “in quartiere”; siamo brava gente, ma la pazienza ha un limite, anche i giornali sembrano sussurrarlo a mezza voce. La politica dovrà stare zitta, e in effetti la consigliera di circoscrizione del PD è presente; la polizia lascerà fare, e comunque è tutta in Val Susa a difendere ben altri interessi. Non Marchionne, non Fassino, non i pescecani e i banchieri saranno attaccati, ma i rom, perché sono gli unici di cui il quartiere può – questa l’assurda verità – non avere paura.

Tutto serve a combattere per una città migliore, tranne l’ipocrisia. Il rogo è preparato negli anni da mille piccoli eventi, mille firme su mille documenti, leggi, provvedimenti giudiziari e di polizia, mille titoli su mille giornali. Non serve a nulla piangere adesso, soltanto perché uno squarcio di realtà ha rotto la patina imbellettata della capitale dell’integrazione, della cultura, bla bla, sì sì, e tutto il resto. Alla Continassa è andato in scena il delitto perfetto, buono sia per la destra che per la sinistra, per due tipi diversi di retorica: perfetta è la storia della sedicenne italiana violentata da due zingari e la reazione di alcuni, ma anche la confessione di lei, che permette ai responsabili illuminati del degrado sabaudo di pulirsi la coscienza con qualche articolo o intervista (a La Stampa sono bastate 10 righe di scuse; sempre “ai lettori”, naturalmente, non ai rom: ci mancherebbe!). Ma la perfezione di questo delitto risiede anche nell’ennesima conferma del buon funzionamento del divide et impera delle classi oppresse che permette a questa classe politica di sopravvivere ai propri crimini storici: perché alle Vallette la rabbia ha trovato, ancora una volta, lontano dalla Sala Rossa qualcosa da incendiare. Mentre vende il lavoro dei grandi e il futuro dei giovani a San Paolo e Unicredit il sindaco sa bene che, in fondo, finché le sue vittime avranno nei campi rom un bersaglio da praticare, il ruolo suo e dei suoi pari non sarà in pericolo. Ed è perfetto abbandonarsi anche a qualche magniloquente banalità: anche chi vive in centro vota; e vuole ancora al governo chi ha fatto di Torino la “capitale dell’integrazione”.

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