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Inflazione, pandemia e crisi climatica. La fine del mondo, la fine del mese

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Ieri l’inflazione negli Stati Uniti ha raggiunto i 6,8 punti percentuali (sommando gli aumenti del 2021 fino ad oggi). E’ l’aumento più alto dal 1982 e coinvolge differenti settori: dal gas, al cibo, all’edilizia ed al prezzo delle case e dell’usato. I prezzi della benzina hanno raggiunto l’aumento record (dal 1980) del 58,1% nel solo mese di novembre.

Joe Biden si è affrettato a dichiarare che “i numeri dell’inflazione non riflettono l’attuale realtà delle cose”, asserendo che per quanto riguarda l’aspettativa sui prezzi è prevista una decrescita in alcuni settori strategici.

L’inflazione viene trattata come una manifestazione transitoria, collegata ai fenomeni determinati dall’irruzione della pandemia e che è destinata presto o tardi a tornare sotto controllo. D’altro canto questa narrazione è anche il frutto del serrato fuoco di fila che i repubblicani stanno mettendo in campo ripetendo il classico copione conservatore in caso d’inflazione: è colpa della spesa pubblica e la soluzione è nuova austerity, almeno per le classi popolari.

Se è evidente che questo nuovo fenomeno in termini di genesi non ha niente a che fare con la stagflazione degli anni ’70 (cioè la combinazione di elevata inflazione e crescita bassa o nulla) e dunque il bignami conservatore appare come un banale esercizio propagandistico, allo stesso tempo si può nutrire qualche dubbio sul fatto che l’impennata dei prezzi sia unicamente congiunturale.

I democratici, quanto i repubblicani (ed in generale i governi occidentali) continuano a gridare, a vuoto, “terra in vista!”, mentre la risoluzione alla crisi pandemica sembra essere molto più lontana, e le popolazioni sembrano iniziare a prenderne atto. Questo è un primo punto: se la genesi dei blocchi e dei ritardi delle merci e dei semilavorati che generano gli aumenti dei prezzi (con il rincaro esponenziale dei vari fenomeni speculativi sui nodi della catena) deriva dagli effetti della pandemia, non si capisce perché questi blocchi dovrebbero di colpo cessare dal momento che siamo ancora all’interno della crisi, salvo una modifica repentina e generale della supply chain che non sembra neanche lontanamente pensabile. Banalmente i magazzini, le fabbriche, i luoghi di trasporto continueranno ad essere luoghi dove si veicola il contagio e le quarantene, le astensioni dal lavoro, i lockdown parziali o totali continueranno a verificarsi, seppur con meno violenza, ma pur sempre con una certa diffusione in grado di pesare in generale sulla realizzazione di valore aggiunto. Per le caratteristiche del capitalismo contemporaneo basta l’emersione di cluster circoscritti in punti strategici ed intere filiere si trovano in difficoltà. Alle date condizioni la tentazione del padrone “stupido” (di cui i nostri confindustriali sono tra i più brillanti esponenti) è quella di scaricare la crisi il più possibile sui lavoratori, aumentando i ritmi e comprimendo i salari, ma come si può pensare che da una forza-lavoro già debilitata, duramente colpita dal virus e che è già impiegata a dei ritmi straordinari si possa estrarre ulteriore tempo e fatica senza una contropartita? Significativi in questo senso i dati snocciolati oggi da Repubblica rispetto al caporalato nel nostro paese, che consegnano un’espansione del fenomeno tanto nell’agroalimentare, quanto nella logistica e nell’edilizia, tale che sono state trovate irregolarità in circa il 78% delle ditte controllate. Il lavoro semischiavistico è già qua, ma comunque non riesce a rispondere a tutte le funzioni necessarie.

Anche l’ipotesi di recuperare questi scarti con nuove assunzioni di massa rappresenta una sfida per il capitale: costi aggiuntivi, formazione, nessuna garanzia che in breve tempo i nuovi addetti non si ammalino a loro volta e infine il fatto che non è detto che la forza lavoro aggiuntiva sia disposta a farsi assumere allo stesso salario prepandemico (su questo si tornerà più avanti).

Se già di per sé dunque c’è ben poco di congiunturale in questa pandemia, bisogna considerare che probabilmente l’elemento del contagio è solo una faccia del prisma che compone questo strano fenomeno inflazionistico.

E’ difficile stimare il ruolo degli eventi climatici estremi nell’attuale impennata dei prezzi, ma non bisogna avere dubbi, i grandi incendi, le alluvioni, le tempeste e su scale più piccole anche eventi meno radicali hanno avuto per lo meno a livello locale delle conseguenze significative. Sono evidenti quelle collegate ai danni ai raccolti ed all’estrazione di risorse, meno quelle nuovamente generate dalle interruzioni sulla circolazione delle merci.

Anche qui non siamo di fronte ad un fenomeno che andrà svanendo, ma che probabilmente si amplierà ulteriormente andando a colpire zone del globo finora a riparo dagli eventi estremi. Di fatto d’altronde la pandemia può essere considerata alla stregua di un particolare effetto della crisi climatica più generale.

Qui infine viene il terzo aspetto, cioè l’insubordinazione operaia all’interno della supply chain, il rifiuto della lavoro, o almeno di determinate condizioni di lavoro ed il formarsi di una soggettività operaia che dentro la pandemia si è posta importanti domande, ma già prima mostrava i propri segni di turbolenza. Nell’articolo che abbiamo pubblicato ieri qui si spiegano bene i meccanismi che stanno coinvolgendo la supply chain USA.

Più in generale le Grandi Dimissioni negli Stati Uniti stanno assumendo una dimensione politica e probabilmente, ma sarebbe da indagare meglio, tra i fattori che hanno provocato questo fenomeno di massa se ne possono annoverare due con certezza: la sospensione del tempo di lavoro causata dalla pandemia come momento di riflessione, di emersione di nuovi bisogni e necessità, di relativizzazione dell’ideologia del “valore” del lavoro salariato da un lato, dall’altro la possibilità, alle date condizioni del mercato del lavoro di assumere un rapporto di forza differente con la controparte.

Difficile farsi un’idea di quanto questo fenomeno sia reale anche in Italia, anche qui sarebbe necessario un lavoro serio di ricerca, ma sicuramente si sta facendo avanti un approccio differente ad alcuni aspetti del lavoro. Lo sciopero generale convocato da CGIL e UIL ha probabilmente tra le sue cause detonanti proprio la pressione dai settori di base dei sindacati confederali (al centro della piattaforma un tema sociale e di salario indiretto come l’aumento dei fondi destinati a fare fronte all’emergenza bollette).

E’ difficile ritenere un generale aumento dei prezzi come una cosa positiva, ma i fenomeni che si stanno mettendo in movimento sono un’opportunità per rimettere in gioco i rapporti di forza della fase precedente. Come già precedentemente la questione della finitezza delle risorse, anche quella dell’inflazione oggi si ripresenta come contraddizione del capitale, e pone ulteriori dubbi sul paradigma della crescita infinita. Come influirà sui mega-progetti estrattivisti che dovrebbero fungere da rilancio? Come investirà e sta già investendo i rapporti geopolitici? E non ultimo, come modificherà i rapporti di forza nel mercato del lavoro? Tutto questo è una posta in palio di questa fase anomala, un sintomo di un quadro più generale di insostenibilità delle forme di organizzazione della produzione e riproduzione sotto il capitalismo, ma un sintomo destinato a durare e a ripresentarsi.

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