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Dopo lo sciopero

L’indubbia riuscita dello sciopero generale di oggi – su scala nazionale, in tutte le forme e le articolazioni in cui esso si è espresso – pone a tutt* l’interrogativo più scottante: come continuare una mobilitazione che dovrà tornare nelle piazze e tracimare oltre, nei luoghi di lavoro, della formazione e della riproduzione sociale tutta.
Intanto alcuni punti fermi, a partire dagli elementi di riflessione che ci consegna la giornata odierna.

Innanzi tutto bisogna precisare che lo sciopero è servito, eccome! E questo già prima dei risultati odierni. Come primo effetto ha avuto quello di obbligare il governo a ritirare alcuni punti problematici della manovra come quelli relativi al riscatto della laurea e dell’anno di militare e l’annullamento delle festività laiche. Piccole cose intese dai manovratori come contentini per placare gli animi. Insomma, mobilitarsi serve sempre. Qualcuno lo ricordi a Bonanni!

I numeri, gli umori e l’atmosfera che oggi si percepivano in molte piazze dimostrano quanto la necessità dello sciopero fosse sentita. Le adesioni nei comparti forti del sindacalismo cgiellino sono state molto alte. Alcune fabbriche torinesi dell’indotto auto hanno visto anche una significativa astensione dal lavoro – e in alcuni casi anche la presenza in piazza  – di componenti solitamente restie come gli impiegati e i quadri. Segno che c’è una sentimento popolare e diffuso per il quale “la misura è colma”. C’è dunque la consapevolezza che le varie concessioni della Cgil a Cisl, Uil e Confindustria sono servite solo ad aumentare l’appetito predatorio di padronato e governo.

In molti casi è scesa in piazza quella composizione lavorista disposta alla logica dei sacrifici e al paternalismo à la Napolitano. Quella componente compatibile della sinistra e del sindacato per la quale “i sacrifici si possono fare ma facciamoli tutti!”. Il dato significativo è che questa parte oggi riempiva le piazze in sostanziale contro-tendenza alle proprie convinzioni, aderendo ad uno sciopero di fatto inteso diffusamente come mobilitazione contro i programmi di austerity e il commissariamento del paese da parte della Banca Centrale Europea (un’ambiguità e una contraddizione che è interna alla stessa Cgil, come abbiamo già avuto modo di dire, obbligata ad indire lo sciopero, malgré soi).

A partire da queste umili considerazioni di premessa, qualche spunto sulla necessaria ripresa della mobilitazione che dovrà darsi nelle prossime settimane, in direzione del 15 ottobre europeo.

1) La lotta dovrà necessariamente incrociare i precari (cioè: i giovani, oggi presenti solo nelle loro componenti militanti) e il ceto medio impoverito ed in progressivo impoverimento (partire Iva, lavoro autonomo di n-generazione). Va da sé che questi pezzi si mobiliteranno solo a fronte di altre forme e parole d’ordine. (Non si può cioè brandire come parola unificante il “facciamo pagare le tasse al lavoro non-dipendente!” – quando questo è oggi in buona parte l’altra faccia della precarietà e di un proletariato inconsapevole e ampiamente strozzato nell’auto-sfruttamento).

2) Evitare con tutte le forze che quella parte del mondo del lavoro oggi maggioritariamente scesa in piazza (salariati dipendenti) insabbi la propria frustrazione nell’accettazione del governo tecnico di emergenza nazionale, sotto la benedizione del solito Napolitano (le parole d’ordine del diritto all’insolvenza e del “non pagare il debito” dovranno fungere da faro d’orientamento).

3) Non perdere mai di vista il livello europeo della lotta. L’uscita dall’euro o la ri-territorializzazione nazionale della battaglia sarebbe solo un arretramento quando, oggi più che mai, necessitiamo di una propagazione virale continentale delle proteste e dei conflitti.

Le modeste proposizioni qui abbozzate evidenziano già da sole l’attuale impreparazione delle grandi organizzazioni (sindacali e non) a perseguire gli obiettivi e indicare i percorsi adeguati.
Quindi, finito lo sciopero, al lavoro… per la ripresa della mobilitazione!

Maelzel

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