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Intervista a Dikotomiko. Blaxploitation, Black Horror, Black in Horror

Ci siamo già occupati di Dikotomiko – il duo di saggisti rappresentato da Mirco Moretti e Massimiliano Martiradonna, collaboratori regolari di Nocturno e di altre riviste specializzate e conduttori di un omonimo blog cinematografico – in occasione dell’uscita del loro ottimo libro del 2019, Lo specchio nero: I sovranismi sullo schermo dal 2001 a oggi. Dopo l’uscita recentissima di Black Fears Matter! Viaggio nel Black Horror contemporaneo, Les Flâneurs Edizioni 2023, approfittiamo della disponibilità di Dikotomiko per porgere loro alcune domande di approfondimento sul contenuto, estremamente interessante, del volume.

di Walter Catalano da Carmilla

1) Comincio chiedendovi da dove nasce la scelta di limitare il discorso sul cinema nero al solo horror senza estendere la ricerca anche ad altri generi che hanno avuto, anche loro, una uguale, se non maggiore importanza. Ricordo per esempio il grande successo internazionale del poliziesco Shaft del 1971, forse l’epitome della blaxploitation, con tanto di Oscar per la miglior canzone per Shaft’s Theme, e nomination per la migliore colonna sonora a Isaac Hayes, ben due seguiti, una serie tv CBS negli anni ’70 e ancora un remake nel 2000; oppure i film mainstream, fortemente militanti, di figure cardinali come Melvin Van Peebles: ad esempio Watermelon Man del 1970 o Sweet Sweetback’s Baadasssss Song del 1971. Forse le uniche opere che escono davvero dal ghetto, della razza e del genere, e fanno parlare di sé anche all’estero.

D. Ripensandoci oggi, la scelta ha origini direi viscerali, totalmente analoghe alle motivazioni che ci spinsero a scrivere Lo Specchio Nero. Allora fu la repulsione per l’ondata nera di fascismi e sovranismi (due ismi che restano per noi sinonimi), a scatenare la nostra caccia alle tracce di quell’ondata nel cinema, e alla loro pressoché totale assenza nel cinema italiano.Stavolta è stata l’esplosione di Black Lives Matter ad arrivarci nelle viscere. E a preparare il terreno all’arrivo di Get Out, il primo film di Jordan Peele, che ha completato l’opera: dopo la prima, la seconda, la terza visione, la sensazione di trovarci al cospetto di un oggetto filmico epocale è cresciuta sempre più. Non era l’ennesimo film horror a sfondo politico. Era un film politico che utilizzava l’horror per dire a milioni di spettatori in tutto il globo una cosa semplicissima ma sovversiva fino al midollo: vivere in America con la pelle nera è una cosa spaventosa. Orribile. Che fa paura. E la colpa è tutta dei bianchi. Ecco perché ci siamo concentrati sul genere horror. E abbiamo cercato, inoltre, di limitarci alla contemporaneità, ai film di questi ultimi anni. Perché è quello che ci piace e che ci interessa maggiormente, non abbiamo mai avuto ambizioni enciclopedistiche. Ci piacciono comunque tantissimo i film che hai citato, e tutta la Blaxploitation. Avremmo potuto includere altre opere recenti, come l’immenso Detroit di Kathryn Bigelow: ma se avessimo sfondato l’argine dei generi, l’effetto domino ci avrebbe travolto e oggi il libro avrebbe tremila pagine. Penso anche a Small Axe di Steve McQueen, la miniserie composta da cinque film e dedicata alla storia e alle vite della comunità afro-britannica: altra opera fondamentale, che forse meriterebbe un libro intero. Anzi, ora che ci penso…

2) Voi considerate il black horror, e il cinema nero in generale, come un unico flusso sostanzialmente carsico, con momenti di visibilità e successo ed altri di stagnazione. Non ti sembra che questa sia un po’ una forzatura e non ci sia stata invece nessuna reale continuità fra un fenomeno come la blaxploitation, controparte artistica contemporanea di lotte sociali e politiche rivoluzionarie in quegli anni ancora in pieno corso, le Black Panthers, per esempio; e una moda sostanzialmente innocua e superficiale come quella di oggi – di fatto un’invenzione fortunata di Jordan Peele, un prodotto come un altro – in un momento di totale aridità creativa e ideologica segnato da uno show business ipocritamente politically correct: addirittura abbiamo visto, fra le tante paradossali baggianate, un surreale Macbeth di colore, nel film di Joel Cohen – non giustificato da un contesto appropriato come fu per la versione teatrale vudù di Orson Welles o per quella giapponese, tra shogun e samurai, di Kurosawa – ma, come se niente fosse, attribuito ad una ridicola Scozia medievale incongruamente popolata da un melting pot di caucasici e di africani, mescolati come in una città statunitense attuale; oppure serie tv che traspongono testi classici – come Rosemary’s Baby o Sandman, per esempio – in cui molti dei canonici protagonisti bianchi vengono virati al nero per una questione di immagine e di quote produttive (identica cosa avviene per l’LGBT: c’è quasi, si direbbe, una percentuale prescritta di gay e lesbiche obbligatoria per i personaggi in ruolo). Un paradigma, mi pare, assolutamente antitetico: allora si demolivano, a proprio rischio e pericolo, i luoghi comuni di un ordine consolidato; oggi, lisciando cortigianamente il pelo alle convenzioni – teoriche – della “società civile”, si instaura invece una sorta di dittatura del politicamente corretto, un conformismo uguale o forse addirittura peggiore del precedente.

D.  Sweet Sweetback’s Baadasssss Song è una splendida rivincita, una spallata dirompente al Potere Bianco, come tutta la Blaxploitation autentica. All’epoca ci furono pure un sacco di infiltrati, però, e di film che cavalcarono il fenomeno per guadagnarci su, colmi di papponi gangster e puttane, e svuotati di contenuti rivoluzionari. Tra questi, c’erano sicuramente film etichettabili come “blacks in horror” e non facevano che alimentare pregiudizi e luoghi comuni. Anche il black horror contemporaneo ha diverse facce, e qualche infiltrato. Primo fra tutti, il film-patacca per eccellenza: Antebellum. Fatto apposta per salire sul carrozzone di Get Out, che per noi – come sai – non è affatto un prodotto come un altro, e nemmeno un’invenzione fortunata. Get Out è per noi la Rivoluzione, il razzismo gettato in faccia ai bianchi liberal, la demolizione del concetto fasullo di “post-racial country” secondo il quale l’America si sarebbe gettata alle spalle il razzismo istituzionale solo perché Obama ha abitato per un po’ alla Casa Bianca.Un filo nero che passa attraverso i decenni c’è sicuramente, e altrettanto sicuramente ci sono stati lunghi periodi durante i quali il filo è stato talmente sottile da diventare invisibile. Oggi quel filo lo irrobustiscono Jordan Peele & Co., nonostante il tasso di ipocrisia che impregna tutto lo show business: su quello siamo totalmente d’accordo. Se ad un film mediocre appiccichi un cast “a quote”, il risultato sarà sempre un film mediocre, anzi peggiore. Se però al contrario riesci a scrivere un ottimo film dell’orrore, se la sceneggiatura risulta ben scritta ed efficace, se i tuoi punti di riferimento sono i classici “bianchi” ma riesci ad utilizzarli per dire che “noi afroamericani abbiamo paura a vivere qui, anche se è casa nostra”, beh. Noi ci spelliamo le mani a furia di applaudire.La cosiddetta dittatura del politically correct per noi non esiste, così come la cancel culture. Quella che vediamo è invece una inedita attenzione a tutto quello che fino a pochi anni fa non è stato rappresentato affatto, la reazione ad un secolo e passa di politically uncorrectness. Pertanto tutto questo non dovrebbe essere visto con fastidio o sospetto, ma come un sacrosanto riposizionamento dell’immaginario. La presenza della pelle nera in prima fila nel cinema di genere per noi fa da combustibile, vi inietta nuova linfa, e non ha assolutamente niente di conformista, anzi. Il rischio di vedere una sostituzione al potere nell’industria del cinema, un passaggio di consegne cruento o meno, è lontanissimo… proprio come The Great Replacement, altro spauracchio amato dai sovranisti.  Se invece pensiamo alla censura, autocensura e agli infiltrati, il discorso è diverso e guardacaso coincide spesso con film o serie tv semplicemente brutti, e mi pare di capire – anche se non li ho visti – che gli esempi da te fatti rientrino proprio nella categoria.

3) A un certo punto, a proposito di Django Unchained di Tarantino, citate le parole di Spike Lee: «Non guarderò il film […]. La schiavitù americana non era uno spaghetti western di Sergio Leone. È stata un olocausto. I miei antenati sono schiavi. Rapiti e portati via dall’Africa. Li onorerò». Giustissimo. Ma la stessa operazione di appropriazione spettacolare e svendita di un evento storico doloroso e tragico non è esattamente quella di Jordan Peel per i suoi horror? La questione quindi si riduce ad una mera questione – di nuovo – razziale o, se preferisci, identitaria: se sei nero puoi svendere la denuncia delle sventure dei tuoi avi, se sei bianco no. Analogamente, se sei ebreo puoi fare film sulla Shoah, se sei un goi no; se sei omosessuale puoi spettacolarizzare l’omofobia, altrimenti no; se sei disabile, se sei donna…ecc. ecc. Non ti sembra un po’ un circolo vizioso ?

D. E’ un tema estremamente contorto. Direi che quello che conta è il risultato finale, non il colore della pelle del regista. Siamo totalmente dalla parte di Tarantino, che è riuscito a coniugare l’entertainment con la rappresentazione degli orrori della schiavitù. Il monologo di Di Caprio in Django Unchained è quasi insostenibile nella sua efficacia, lo stesso attore ne fu molto scosso. Io nelle parole di Spike Lee ci vedo una reazione comprensibile ma non condivisibile. E’ come se dicesse: “come osa questo bianco di merda sbatterci in faccia questo orrore, senza pudore, con così tanta ferocia?”. Quel bianco di merda è però lo stesso che ha compresso la storia Americana in un rifugio immerso nella neve, in The Hateful Eight, con risultati esaltanIntrattenimento militante, che è poi il timone che guida tutti i film di Jordan Peele. E certo, sarebbe un circolo viziosissimo se la licenza di rappresentazione degli orrori della storia fosse rilasciata su basi identitarie. Ma non è così, per fortuna. Tarantino è in grado di mettere in scena la schiavitù, i due registi di Antebellum no. E non perchè uno sia bianco e l’altro nero. No, semplicemente perché sono due fighetti arroganti e incapaci.

4) Potreste darmi una definizione sintetica e precisa di cosa sia esattamente un black horror ? In un capitolo dite che non bisogna confondere il black horror con i blacks in horror e che il primo è un’arte marziale. Spiegateci meglio.

D. “Il black horror è un’arte marziale” ha scritto Roberto Silvestri nella postfazione, riferendosi al black horror contemporaneo che ha lo scopo di combattere, con ogni mezzo immaginario e necessario, quel mostro longevo che è la white supremacy con il suo carico di pregiudizi e oppressione. Già, ma che cos’è il black horror? Innanzitutto black history is black horror. E’ poi cinema dell’orrore diretto da neri, ma può essere anche solo interpretato da neri, e diretto principalmente ad una platea black. Esiste da quando esiste il cinema, anche se per molto tempo si è trattato soltanto di bianchi che realizzavano prodotti per sfilare soldi dalle tasche dei neri. Per quanto ci riguarda il black horror è una bomba lanciata contro la white supremacy nel cinema, un fenomeno moderno, che comincia con La Notte dei Morti Viventi: l’eroe, il leader, il personaggio più carismatico, bello e intelligente del film di Romero è Ben, ovvero Duane Jones. Il black horror spesso coincide, infine, con la lotta di classe, come ne La Notte del Giudizio. Blacks in horror, invece, indica la mera presenza di personaggi neri all’interno di film dell’orrore: una presenza che per decenni è stata confinata a pochi, precisi, deprimenti ruoli e che quindi rappresenta una parte del grattacielo della white supremacy che il black horror intende abbattere.

5) Come sapete, perché ne abbiamo parlato più volte, non sopporto Jordan Peele. L’unico suo film che non mi è dispiaciuto è il meno pretenzioso, il primo, Get Out. Un horror onesto con un’idea carina alla base: il tema del razzismo è al servizio della storia e non il contrario. Ho trovato invece inguardabile Us, tanto che mi sono rifiutato di vedere Nope, so che mi annoierei a morte. Ugualmente mi sono sembrate false e stucchevoli le serie tv black, Them ispirata a Peele ma non direttamente dovuta a lui, e Lovecraft Country, da lui sceneggiata e prodotta, con parecchie buone idee ma tutte sprecate. Il punto più basso in assoluto però per me è il remake di Candyman, un film che – sempre per la solita forzatura di voler essere a tutti i costi ‘a tema’ – rovina uno splendido horror, davvero inquietante, pauroso, destabilizzante nella versione originaria, per trasformarlo in un polpettone melenso e didascalico: il riscatto nero, i poliziotti bianchi cattivi, ecc. ecc. La solita solfa. Rivogliamo Bernard Rose: sarà anche bianco ma il suo film è infinitamente migliore ! Insomma o horror o black: meglio un meccanismo di genere che funziona che un proclama di finta militanza. Peele è un mestierante che ha trovato un tema da sfruttare ma lo ha già reso logoro e ripetitivo: ha inventato una moda, un brand per distinguersi nello show business. Per quanto potrà durare ? Io dico per poco, già si avverte la stanchezza e il fiato corto. Provate a smentirmi, film per film.

D. Romero ha lanciato la bomba, dicevamo. Ma Get Out è l’11 settembre per il cinema horror bianco. Con il suo confezionamento da film piccolo, la sceneggiatura che strizza l’occhio alla serie B e a tante altre cose, e sopratutto la rappresentazione della borghesia bianca e liberal come il male assoluto, contro un protagonista nero. Resistenza, violenza e vittoria. Altro che pace e fratellanza.Poi viene US. Un titolo che somiglia molto a U.S., Stati Uniti. Us significa noi, ma“noi” chi siamo? Noi famiglia? Noi cittadini? Noi americani? Noi umani? L’unica certezza è che a ogni “noi” corrisponde un “loro”, e da questa riflessione Jordan Peele è partito. Per realizzare un film enorme, che passa dal basso all’altissimo senza fermarsi mai, illuminando le mille facce della paura di “loro”: loro che ci rubano il lavoro, loro che vivono nel nostro inconscio, nel nostro scantinato, negli specchi e negli schermi. US è anche la rappresentazione più abbagliante e sibillina della violenza classista (quindi implicitamente razzista, anche se le questioni epidermiche qui sembrano in secondo piano) che sta alle basi della costruzione degli Stati Uniti. E’ tante altre cose, ma ci fermiamo qui.Tocca poi a Nope, il film che va ancora oltre, ancora più in alto, avvicinando l’horror alla fantascienza classica, quella di AI Confini della Realtà.  Mette insieme l’alba del concetto stesso di Cinema e le manie occidentali di controllo e fama, alcune profondissime riflessioni sul linguaggio e un’approccio inedito al tema dell’incontro/scontro tra umani e alieni: e non può che essere inedito, visto che vediamo due afroamericani confrontarsi con gli alieni. E non è un incontro molto frequente nella storia del cinema. Eppure, il racconto di Nope parte, procede, cresce e deflagra utilizzando i toni del cinema epico, rimandando alla Società dello Spettacolo, invitando a guardare in alto. Se hai sentito qualcuno tirare in ballo Spielberg a proposito di Nope, ti garantisco che non è un parallelo assurdo come sembra. Passando al piccolo schermo, Them è una serie che ha diviso pubblico e critica, come si suol dire. E di solito quando una serie o un film è definito “divisivo”, a noi piace tantissimo. Them fa innanzitutto paura, bisogna dire. E tra brividi, apprensioni e spaventi, illumina temi molto ma molto interessanti, a cominciare dalle raccapriccianti clausole che infestavano i contratti di vendita degli immobili fino al 1968. Clausole razziste, segregazioniste, che sembrano scritte dai nazisti. Un altro mostro è il razzismo delle banche che avrebbero dovuto concedere mutui. E ce ne sono tanti altri di mostri, in Them. Lovecraft Country parte da un’intuizione geniale: quella di utilizzare l’universo orrorifico creato da un suprematista bianco come Lovecraft, ed inserirlo in una storia con protagonisti neri immersi negli Stati Uniti della Jim Crow Era. Roba che lo scrittore di Providence si sarebbe suicidato solo al pensiero. Non è una serie perfetta, procede tra alti e bassi, ma gli alti sono altissimi. Citiamo solo il primo episodio, Sundown, nel quale il gruppetto di protagonisti intraprende un viaggio che li porterà subito ad attraversare una sundown town, ovvero una delle tante città degli Stati Uniti abitate interamente da bianchi: qualsiasi afroamericano sorpreso in città dopo il tramonto poteva subire minacce, essere aggredito, linciato, ucciso. All’ingresso in queste città c’erano dei cartelli, tipo: “Nigger, don’t let the sun go down on you in our town». Black horror. Black history is black horror.Infine, c’è lui. Candyman.  Rievocato dopo un paio di decenni dal tuo adorato Jordan Peele, e dalla regista Nia DaCosta. Certo, il film del 1992 è una presenza ingombrante: apologo del black horror, feroce villain generato dall’odio razziale, e come se non bastasse involontario angelo della vendetta per Rodney King. Lode eterna per Bernard Rose. Il sequel/reboot di Nia DaCosta nasce su basi edilizie: se il primo Candyman era figlio del ghetto, oggi quel ghetto non esiste più. La gentrification l’ha spazzato via, rimpiazzandolo con case costose e très chic dove vivono artisti, intellettuali e borghesi. E sono proprio loro ad interrogarsi sulla questione razziale odierna, ai tempi di Black Lives Matter. In un certo senso anche Candyman si è un po’ imborghesito, è un tantino meno furioso. Non ammazza innocenti, è più selettivo nella scelta delle vittime. Usa un criterio politico, che per quanto urlato e prevedibile, resta politico.

6) Per concludere: mi devo vergognare se affermo, da cultore di horror e da persona di sinistra, di apprezzare molto di più un film mainstream, in tutti i sensi, sul tema della razza, come Green Book, di tutta la filmografia di Jordan Peele ed emuli?

D. Green Book è piaciuto anche a me, in fondo siamo tutti dei gran teneroni. Ma alla fine della visione resta in bocca quel retrogusto amarognolo tipico di una ricetta sempre uguale a sé stessa da decenni, con gli stessi ingredienti di A Spasso Con Daisy: tra il bianco e il nero c’è un rapporto economico a stabilire le regole, e solo grazie a quel tipo di regole le persone possono avvicinarsi e superare le differenze, accettarsi. O peggio ancora, tollerarsi (scusa la parolaccia). Io ti consiglierei di guardare Nope, chissà che non avvenga il miracolo…

Lo farò, cari amici di Dikotomico. E chissà… Intanto grazie della bella intervista e della vostra disponibilità e buon proseguimento con il vostro lavoro!

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