
Un “pericoloso comunista” sindaco di New York… E vai!
Riprendiamo questo articolo apparso su Il Pungolo Rosso sulla elezione di Mamdani a sindaco di New York. Il contenuto ci pare largamente condivisibile in diversi punti.
In particolare condividiamo l’approccio che si concentra sui processi di assemblaggio di una nuova identità di classe negli Stati Uniti – di cui queste elezioni sono un sintomo – e la postura dialettica rispetto al rapporto tra movimenti sociali ed opzioni politiche neoriformiste che rifugge tanto da un’impostazione ideologica, quanto dagli entusiasmi per la rinascita di una “vera sinistra”.
Buona lettura!
Ce l’ha fatta. Il “pericoloso comunista”, l’”odiatore degli ebrei”, l’uomo che “distruggerà New York” (copyright del solito Donald Trump), per giunta musulmano, è il nuovo sindaco di New York.
Ne discute ormai il mondo intero. O almeno il mondo occidentale intero.
Con una furia incontenibile Trump e i trumpiani; con molta cautela i centro-sinistri, a cominciare dalla vecchia guardia del partito democratico amerikano fino all’organo italiano della “sinistra per Israele”, al secolo “la Repubblica”. Secondo loro ha vinto la “Z Generation”. Sono molto preoccupati per le aspettative dei votanti per Mamdani, per questo puntano sul dato della giovane età, su cui ha insistito anche l’abile neo-sindaco nel suo discorso di investitura.
Ma non è questione d’età. E’ questione che da 26 anni, dalle giornate del movimento No Global (30 novembre-1 dicembre 1999) a Seattle – con l’assedio ai vertici del WTO e l’annessa battaglia di strada con la polizia – gli Stati Uniti sono il teatro di ondate di movimenti sociali e politici in tendenza sempre più radicali. Questi movimenti, il più potente dei quali è stato finora il Black Lives Matter scoppiato a fine maggio 2020, hanno espresso, insieme ad una ripresa delle lotte sindacali operaie, il profondo malessere, la rabbia di vastissimi settori del proletariato statunitense, e la necessità di una nuova fase della vita politica statunitense, sollecitando la nascita di nuove rappresentanze politiche.
Non essendoci all’oggi una situazione rivoluzionaria né negli Stati Uniti né nel resto del mondo occidentale, era giocoforza che le nuove rappresentanze politiche nascessero dentro il partito democratico e dentro il partito repubblicano. In quest’ultimo è nato e si è affermato il trumpismo, che ha come suo obiettivo politico la spaccatura in profondità del proletariato statunitense, da realizzare attraverso la violenta contrapposizione tra settori di proletariato bianco esasperato e decaduto e la massa dei proletari immigrati e delle minoranze di colore, indicati come il capro espiatorio per la decadenza dell’Amerika. Nel partito democratico, invece, è nata l’area Sanders e DSA (i DSA, Democratici socialisti d’America) con l’obiettivo di disinnescare il malessere e la rabbia di decine e decine di milioni di proletari/e vessati dal razzismo, taglieggiati dall’inflazione e sprofondati in una precarietà senza limiti, incanalandolo nei giochi elettorali – di farlo, attraverso la denuncia delle oligarchie capitaliste e programmi di politica sociale di una certa audacia, dati i tempi.
Mamdani è il frutto di queste dinamiche di riaccensione della lotta di classe negli Stati Uniti, effetto inevitabile dell’incalzante polarizzazione di classe, a sua volta prodotta dal declino di lungo periodo del super-imperialismo yankee. E si presenta con una radicalità di propositi riformisti e una baldanza che lo collocano ben al di là di un Barack Obama. Nel suo discorso di investitura ha saputo sferzare Trump ridicolizzandolo (“so che ci stai guardando, allora ho poche parole per te: alza il volume”) e sfidandolo, quel Trump davanti al quale in Europa strisciano come vermi i presidenti delle repubbliche e dei consigli.
Di qui l’inquietudine delle grandi corporations che hanno provato a fermarlo, e l’accusa ricorrente di “comunismo”, “marxismo”, antisionismo, “amicizia con Hamas”.
Evidenti esagerazioni propagandistiche di Trump e delle consorterie sioniste, come spiegavamo già in un articolo del luglio scorso scritto subito dopo la vittoria di Mamdani alle primarie del partito democratico. Ma questo avvenimento resta per noi di grande interesse, proprio perché misura la progressiva maturazione di uno scontro di classe tra le due Americhe difficile da disinnescare per la classe dominante d’oltre Atlantico. Trump e la sua cricca di oligarchi Big Tech intendono stroncarlo con il ricorso allo stato di eccezione, ma – come s’è visto anche il 18 ottobre – non sarà una passeggiata per loro. Tutt’altro.
Indicativo è che sia raddoppiato il numero dei votanti rispetto a 4 anni fa, salendo ad oltre due milioni. L’astensionista ottuso vi vedrà solo l’inganno; noi che preferiamo la dialettica, pur ritenendo i Sanders, Ocasio Cortes e Mamdani dei demagoghi inconseguenti, vi vediamo un possibile passo in avanti se al voto non farà seguito un “ritorno a casa” passivo e attendista, ma una pressione sul neo-eletto affinché alle promesse seguano i fatti. Ed i fatti non possono seguire senza attaccare – in una misura o nell’altra – gli interessi del grande capitale finanziario, immobiliare, commerciale.
Lasciamo ad altri di fregarsi le mani nella speranzella che anche in Italia alle prossime elezioni, grazie all’effetto-imitazione, si possa avere qualcosa in più dell’1%. Questi impenitenti adoratori delle elezioni dimenticano che in Italia negli ultimi 25 anni, con la eccezione di singoli momenti di lotta, non vi è stata una dinamica dello scontro di classe e dello sviluppo dei movimenti sociali minimamente paragonabile a quella statunitense. E quando qualcosa di vivo si è prodotto, la prospettiva dell’assurda autosufficienza dei movimenti parziali o locali, ne ha favorito il riflusso o la scomparsa. Così pure lasciamo ad altri sognare sull’onda-Mamdani assessorati o seggiole varie in un centro sinistra allargatissimo (come fu nella campagna elettorale dell’USB per l’indimenticabile sindaco di Roma Virginia Raggi).
A noi che abbiamo ben altre ambizioni di costoro, piace davvero molto questa buona nuova che arriva da New York. Ma per tutt’altre ragioni. Le nostre ragioni (che di sicuro intuite) abbiate la pazienza di leggerle, se volete, qui sotto.
Di Trump si può dire tutto, e a ragione: mentitore professionale, ballista spaziale, ricattatore come pochi, gangster di primo livello, etc., ma non si può dire che manchi di intuito politico. C’è quindi un motivo per cui ha reagito alla vittoria di Zohran Mamdani nelle primarie democratiche di New York con un “non abbiamo bisogno di un comunista alla guida di New York”, seguito a ruota dalle minacce di tagliare tutti i fondi federali alla città e deportarlo (essendo Mamdani nato in Uganda, e naturalizzato cittadino statunitense).
Il motivo non è difficile da identificare per chi, come noi, da sempre vede negli Stati Uniti due distinte “Americhe”, l’una che preferiamo scrivere con il k perché in tutte le sue fibre, siano democratiche o repubblicane, cambia poco o nulla, è la più spietata forma di dominazione di classe, razziale, sessuale che esista al mondo (ben descritta, tra gli altri, da Angela Davis); l’altra, che consideriamo la “nostra” America (la “nostra” parte degli Stati Uniti, per parlare in modo corretto), ed è il vasto mondo delle masse sfruttate ed oppresse, bianche, nere e immigrate di recente dal Sud America e dai quattro angoli del mondo, da cui – per quanto avvelenati possano essere anche vasti settori di esse dallo sciovinismo – ci aspettiamo grandi cose.
Ciò che per noi è aspettativa o speranza, per Trump e i suoi è preoccupazione e timore. Come hanno osato gli elettori democratici, questi “lunatici comunisti”, silurare la candidatura del molestatore di donne, corrotto amico dei potenti palazzinari newyorkesi e delle potentissime lobby sioniste Andrew Cuomo, facendo vincere un fan dei palestinesi? Il boss della Casa Bianca sente puzza di bruciato nell’aria. E in un paese dallo storico, virulento anti-comunismo, suona immediatamente il vecchio allarme.
Di comunismo in Mamdani non c’è neppure l’ombra. Però, proprio per questo, è il caso di andare a vedere le circostanze della sua investitura. Si può spiegarla con tre fattori: il vasto malessere sociale esistente nella metropoli per lo stellare costo della vita e per l’assenza di servizi accessibili a chi ha redditi medio-bassi, per una somma di disagi materiali e psichici avvertiti da una vasta area sociale anche di popolazione bianca; una certa radicalità dei rimedi proposti da Mamdani, membro dei DSA (Democratici socialisti di America) per venire incontro a questo malessere; il discredito, o lo scarso credito, degli altri candidati, o potenziali tali (l’ex-governatore dello stato Cuomo, il sindaco uscente Adams, e Lander, un fuoriuscito a destra dei DSA, anche lui politico di lungo corso).
Intendiamoci, Mamdani è giovane (33 anni), sveglio, brillante. Ha – come usa dire – carisma. Lingua pronta, tagliente quanto basta. Ottima capacità di comunicare, da battutista e uomo di spettacolo, ex-componente di band musicali. Ma per quanto infantilizzato sia il pubblico dei votanti negli Stati Uniti, nelle primarie c’è pur sempre una scrematura verso l’alto quanto ad informazioni e generica preparazione politica. L’uomo aveva inoltre il triplo handicap, non da poco anche in ambito democratico, di essere un “oriundo” (con sfondo migratorio indiano), un musulmano praticante, e un filo-palestinese (benché moderato).
Insomma, il peso determinante di questo risultato a sorpresa è da attribuire più che alle caratteristiche specifiche del singolo, al contesto economico-sociale e alle sue proposte. A New York, la città dominata dal capitale finanziario e da quello immobiliare, la città dal costo della vita più alto negli Stati Uniti, la povertà è decisamente in aumento da anni. Una persona su 4 non riesce a soddisfare i propri bisogni primari (alloggio e cibo). Aumentano i senzatetto, nel 2024 il record storico. Almeno centomila immigrati di recente arrivo sono in condizioni di grave disagio materiale, di vera e propria deprivazione, senza accesso alle scuole pubbliche, all’assistenza legale e sanitaria. Il disagio psicologico dei giovani è talmente diffuso e acuto che la città ha promosso un’azione legale contro i maggiori social (Tik Tok, Facebook, Instagram, Snapchat, You Tube) accusandoli di essere alla radice di questi crescenti disturbi, e responsabili delle spese pubbliche necessaria per contenerli o curarli. Ma New York è anche una metropoli nella quale gli stessi “small business” sono permanentemente a rischio, per il livello della tassazione, il caro-affitti, le fluttuazioni dell’economia, l’ampiezza della povertà. Il New York Weekly del novembre scorso si chiedeva: “possono le piccole attività [artigianali e commerciali] sopravvivere alla stretta di New York?”. E per quanto la risposta fosse alla fine positiva, la domanda stessa indica il grado di incertezza strutturale che avvolge queste attività.
Mamdani ha saputo elaborare un programma che risponde, in qualche misura, all’insieme di questi bisogni insistendo molto sul condono fiscale e la detassazione degli small business, e promettendo di congelare gli affitti, garantire trasporti gratuiti, aprire supermercati pubblici con prezzi calmierati e asili per l’infanzia accessibili a tutti, introdurre sussidi per le spese sanitarie, costruire biblioteche nei quartieri popolari. Più ambiguo il suo programma in materia di salario minimo, perché se da un lato promette un quasi-raddoppio progressivo in 5 anni dai 16.5 dollari l’ora a 30 dollari, dall’altro impegna (in modo vago) le casse della metropoli ad intervenire, in progressione, nei casi in cui le imprese non riescano a garantirlo. Per dare corso all’insieme di queste spese, prevede un incremento di imposte (+2%) sulle grandi fortune e sulle grandi corporations con sede legale a New York.
Ma non c’è dubbio che gli abbia portato molta popolarità (nel milione di votanti alle primarie) la sua insistita denuncia della politica di Trump come una politica a favore dei milionari contro gli operai e i lavoratori: “The richest man in the world [Musk] has purchased the U.S. President and is waging war on the working class. But organized people can fight back and win”, uno dei suoi messaggi più famosi. Questa sua esposizione è risaltata tanto più quanto più il partito democratico, dopo la catastrofe elettorale, è rimasto a lungo silente nei confronti di Trump, che invece ha continuato ad accusarlo di essere all’origine di tutti i guai degli Stati Uniti. Così come ha aiutato Mamdani lo schieramento a favore delle donne e delle minoranze LGBTQ+ che si sentono minacciate da vicino dall’aggressione dei trumpiani.
La mobilitazione di decine di migliaia di volontari/e (c’è chi dice oltre 50.000), in larghissima maggioranza giovani, molte/i impegnate/i per la prima volta nelle contese elettorali, le ventimila donazioni intorno agli 80 dollari ricevute, sono il risultato di questo processo socio-politico decisamente interessante, e da seguire nei suoi ulteriori sviluppi, per l’importanza nazionale e internazionale degli avvenimenti newyorkesi.
Ma Mamdani è stato irremovibile sul taglio dei finanziamenti alla polizia, la richiesta fondamentale del movimento BLM (no, e basta – la sua scarsissima popolarità tra i neri, tra cui ha stravinto Cuomo, può essere addebitata anche a questo). Ha criticato il genocidio di Gaza ma si è dichiarato a favore dello stato di Israele (genocida per la sua natura colonialista). E – benchè appartenente ai DSA – ci ha tenuto a differenziarsi dai DSA nazionali, a suo dire troppo estremi, per esempio in materia di (possibile) nazionalizzazione delle industrie. Non solo: ci ha tenuto a rivolgersi all’insieme del Partito democratico, uno dei due pilastri politici dell’imperialismo gringo, proponendosi come un modello per l’intero partito. E già si vocifera che qualche esponente della vecchia guardia di questa lurida banda di guerrafondai veda davvero una chance di ripresa del partito in figure quali Mamdani (potrebbe essere un remake di Obama).
Tanto rumore per nulla, allora? Sicuramente no.
Perché la scesa in campo dei mega-miliardari e di Trump contro Mamdani per sbarrargli a tutti i costi la strada nei prossimi mesi radicalizzerà lo scontro politico, con un impatto necessariamente nazionale, ed è possibile richiami in campo settori di proletari/e disillusi e passivi, prospettandogli un’occasione di impegno e di battaglia – sia pure solo sul piano elettorale. Per ora questi strati sembrano essere rimasti poco toccati dalla campagna di Mamdani, che ha stravinto tra i giovani più scolarizzati e i bianchi. Domani chi sa.
Evidente il pericolo che – ancora una volta – com’è stato per le campagne di Sanders, e com’è per la attuale campagna contro gli oligarchi di Sanders-AOC – tutto il malessere sociale e politico venga incanalato nella contesa elettorale e, così, disperso e spento, con un effetto di frustrazione per le speranze di riscossa di settori di classe lavoratrice. Ma non si può affatto escludere – ecco il motivo dell’invettiva di Trump – che in una dinamica di attacchi violenti dei potentati economici di Wall Street e della Casa Bianca e di necessarie risposte, ad essere messi in crisi siano proprio il solito gioco elettorale di roboanti promesse poi lasciate cadere, e i suoi burattinai del Partido democratico e della nomenklatura DSA.
Ha ragione Luciano Arienti quando scrive su Prensa Obrera che per i rivoluzionari c’è un’altra via praticabile tra il “piegarsi acriticamente” all’azione dei DSA, versione Sanders-AOC o versione-Mamdani (che sarebbe disastroso), e il limitarsi ad una critica di essa di stampo “propagandistico o auto-proclamatorio” (che sarebbe inefficace). Si deve prendere parte allo scontro politico che si è già aperto in tutto il territorio statunitense, non semplicemente a New York, per dare forza ad una linea e ad un raggruppamento di energie organizzate di lotta, all’insegna della “indipendenza di classe”. In questo sforzo saranno decisivi non soltanto i metodi della lotta e dello sciopero, estranei agli apparati democratici e ai DSA, ma anche i contenuti, che – data la corsa alla guerra che stiamo vivendo – non potranno essere limitati alle sole politiche sociali, alla sola politica interna agli Stati Uniti. Dovrà essere presa di petto anche la funzione dell’imperialismo statunitense nel mondo, e nella criminale corsa all’abisso in atto. E per fare questo è tanto più necessario e urgente, a New York, negli USA e ovunque, colmare il ritardo storico nella costruzione di un partito rivoluzionario in grado di prendere veramente parte allo scontro, costruendo iniziative e mobilitazioni capaci di indicare – almeno, in un primo momento, ai proletari più coscienti – la strada della lotta politica indipendente, dell’autorganizzazione, della battaglia a tutto campo contro le classi dominanti.
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