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Il nuovo terreno della lotta di classe

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Recensione a “On New Terrain. How Capital is Reshaping the Battleground of Class War” di Kim Moody.

 

Uscito a fine 2017, “On New Terrain. How Capital is Reshaping the Battleground of Class War” di Kim Moody (Haymarket Books, Chicago) è un libro che sta suscitando un significativo dibattito negli ambienti militanti statunitensi. Il testo è strutturato attorno a tre capitoli (“The Remaking of the US Working Class”, “The Changing Terrain of Class Struggle”, “The Changing Political Terrain”) e a una corposa sezione di appendici ricche di dati ed elaborazioni sullo stato dell’industria statunitense, le forme del lavoro, gli scioperi e le esperienze di organizzazione dal basso degli ultimi decenni. L’analisi di Moody è chiaramente centrata sul contesto nordamericano, ma come afferma l’autore per larghi tratti può essere estesa anche alla situazione europea – non a caso lungo le pagine si trovano molti riferimenti storici alle esperienze di organizzazione operaia in Italia, Germania e Inghilterra, nonché dure critiche alle attuali esperienze di Podemos e France Insoumise.

Moody ha il pregio della chiarezza espositiva, mischiando una analisi economica supportata da molti dati, tratti di sociologia delle classi e riflessioni politiche. La tesi dell’autore è dunque chiara: stiamo transitando all’interno di un nuovo contesto per la lotta di classe che, al fronte di un capitale che pare sempre più consolidato e di una classe sempre più divisa (in una frammentazione attorno alla quale la razza rimane la linea più radicale – e dove anche il genere viene spesso preso in considerazione), in realtà è “potenzialmente più vantaggioso per la resistenza, l’organizzazione e il potere per la working class” (p. 171). Sono quattro le tendenze e gli sviluppi che hanno creato il nuovo terreno del conflitto di classe:

. il tradizionale cuore manifatturiero è stato eroso soprattutto grazie a un enorme aumento della produttività, ma a fare da contraltare sta la corposa crescita del settore dei trasporti, del magazzinaggio e di tutti gli altri aspetti connessi alla “rivoluzione logistica”. A ciò va aggiunto l’aumento dei servizi necessari alla riproduzione sociale e al mantenimento dell’espandersi dell’infrastruttura materiale del capitale. L’enorme aumento delle ineguaglianze e dello sfruttamento è inoltre dovuto a una ripida accelerazione nell’intensificazione del lavoro nella produzione di beni e servizi, grazie ai sistemi di produzione flessibile e alla loro evoluzione nelle forme digitali e biometriche di controllo e misura del lavoro;

. le pressioni competitive locali e globali hanno prodotto un inedito periodo di concentrazione e consolidamento del capitale tramite un movimento di progressive acquisizioni a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta. A differenza di quanto avvenuto analogamente negli anni Sessanta e Settanta, mentre allora il nodo era la conglomerazione, oggi è la concentrazione attorno alle linee industriali e produttive a risaltare. Ecco dunque emergere grandi aziende con enormi numeri di impiego, ed ecco nuove vulnerabilità rispetto alla possibilità di sindacalizzazione e alla possibilità di incidere sulle supply chain che legano queste nuove concentrazioni capitalistiche;

. Il sistema emergente delle supply chain just-in-time, sempre più guidato in forma digitale, è concentrato in “nodi” situati ai bordi delle grandi aree metropolitane – in quanto dipendono dalle grandi concentrazioni di lavoro sottopagato ivi collocate. Questi cluster logistici e le loro connessioni sono i vettori portanti delle aziende e delle industrie più importanti, e rappresentano i punti deboli per il grosso potere di interruzione che in essi viene determinandosi;

. Il sistema politico è diventato sempre più inaccessibile per l’aumento vertiginoso delle soglie di accesso, e sempre più in mano all’1% che investe grandi risorse di influenza, denaro e lobbying nei partiti e nelle elezioni. Questa dipendenza della mainstream politics dal grande capitale e la struttura sempre più elitista dei partiti apre spazi per interventi di massa e organizzati dal basso nell’arena politica.

La strategia politica che indica Moody a partire da questi elementi analitici basa le possibilità di avanzamento della working-class sulla combinazione e integrazione fra le nuove possibilità di sindacalizzazione garantite dalla nuova configurazione capitalistica e le sue crescenti vulnerabilità da un lato, e sulla possibilità di costruire a livello locale e in prospettiva crescente organizzazioni urbane dal basso e di azione politica indipendente di movimenti sociali di massa. La crescita di queste nuove forme sindacali e di movimenti sociali, sostiene l’autore riprendendo lo storico del lavoro inglese Eric Hobsbawn, non è mai avvenuta e non avverrà linearmente e in maniera liscia, ma per “salti” ed “esplosioni”. Nonostante, sostiene sempre Moody, oggi la “compressione” designi l’attuale condizione della working-class e dei middle-class professionals statunitensi, sono all’opera potenti pressioni che forniscono il carburante per una conflagrazione che è in attesa di una scintilla – che chiaramente non è al momento preventivabile. Il compito, per Moody, non è allora quello di attendere la prossima sollevazione, ma iniziare a costruire organizzazioni, strutture, reti, movimenti e azioni dal basso per poter accelerare e rafforzare le esplosioni sociali a venire e avvicinare quegli elementi della working class al momento attratti dalle sirene “populiste”. “Senza dubbio è necessario un approfondimento della ricerca sui contorni del capitale per poter elaborare tattiche e strategie adeguate a trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione emersa e che sta tutt’ora prendendo forma. In ultima analisi, tuttavia, saranno le azioni di chi lotta on the ground che apriranno possibilità nuove” (p. 174).

La lettura di questa recensione volendo può interrompersi a quanto detto sinora, ossia alle conclusioni del libro. Ma per chi fosse interessato, aggiungiamo un po’ di elementi a partire dalla lettura del testo. Diciamolo subito, la parte politicamente problematica, criticabile del testo, si incontra quando Moody si avventura sul passaggio dall’analisi delle trasformazioni politiche a un suo “dopo”. Sebbene un utile poscritto analizzi profondamente gli elementi che hanno condotto all’elezione di Trump mostrando come essa, smontando le retoriche mediatiche su un sostegno decisivo della working class e della popolazione “ignorante” e mostrando come il fenomeno Trump debba essere compreso a partire dal fallimento dei Democratici, l’autore in alcuni passaggi sembra oscillare tra un sostegno al possibile sorgere di un terzo partito nello scenario statunitense per mano della working class all’alludere a una possibile implosione “da sinistra” dei Democratici. Questo nonostante le forti critiche a Sanders (considerato positivo solo rispetto alla mobilitazione creatasi attorno alla sua candidatura per far riscoprire le idee “socialiste” ai giovani). E la cosa stona non poco in un libro tutto tarato sulla necessità di rilanciare l’organizzazione indipendente e dal basso. Ma qui siamo comunque sul discorso degli orizzonti politici a venire, tema sempre scabroso e che spesso sarebbe meglio evitare del tutto.

Saltiamo dunque di netto il terzo capitolo e riprendiamo alcuni elementi dai primi due per mostrare il quadro interpretativo di Moody e la sua architettura concettuale che approfondiscono le quattro dimensioni indicate in precedenza. Basato su un forte impianto marxiano, il libro ricorda come “le classi nel capitalismo sono relazionali per natura, piuttosto che semplicisticamente collocate una sull’altra”, e che dunque dopo gli anni Settanta “la perdita di posti di lavoro è stata ancorata negli esiti del conflitto di classe che si sono espressi in una crescente produttività”, conducendo al fatto che “l’immagine che emerge implica la transizione dinamica e spesso disruptive da forme di frammentazione, rilocazione, e ristrutturazione del capitale, verso una ri-concentrazione del capitale e della working class, pur con una differente struttura interna” (p. 8). Il quadro storico presentato da Moody è di assoluto interesse: “mentre la lotta sui salari è sempre parte del conflitto di classe, per la maggior parte del secondo dopo-guerra negli USA la lotta si è giocata sul plusvalore relativo, ossia in una battaglia per ridurre il tempo della giornata lavorativa necessario a coprire il costo della forza lavoro attraverso un aumento della produttività, che è sempre stato il principale focus del capitale”. “La ribellione finì quando la recessione, indotta dalla Federal Reserve con l’aumento improvviso dei tassi di interesse nel 1979, annunciò l’era neoliberale e creò l’opportunità per una contro-offensiva del capitale contro il lavoro organizzato” (p. 13). E’ a partire dunque dall’ascesa neoliberale negli Ottanta che si arriva alla crisi del 2008, e “se sei sopravvissuto a uno dei più grandi processi di distruzione del lavoro via intensificazione nella storia del capitalismo, nella seconda decade del XXI secolo il tuo lavoro è stato stressato, re-ingegnerizzato, misurato, monitorato, standardizzato, intensificato, e connesso just in time con un altro lavoro stressato, re-ingegnerizzato ecc… mentre a te e ai tuoi colleghi veniva detto che siete l’asset organizzativo più importante” (p. 18). “Guardando all’intero periodo neoliberale […] non solo è raddoppiato il tasso medio di disoccupazione, ma è anche quadruplicata la durata delle singole esperienze di disoccupazione, con un aumento di più della metà dopo la recessione del 2008. Quindi l’esperienza di un aumento della precarietà o del gigging [inteso per gig economy, “lavoretti”]” è stata creata dall’alto livello e dalla lunga durata della disoccupazione. “L’unica novità rispetto agli aspetti ciclici in tutto ciò sta nell’apparenza delle piattaforme Internet quali datori di lavoro, il crescere della durata del tempo di disoccupazione, il persistente aumento di produttività, e il declino secolare nei salari reali” (p. 29). Moody è piuttosto tranchant nel criticare l’enfasi sulla “precarietà” e sulle nuove etichette come “gig economy” da parte del pensiero critico (pur non esimendosi lui stesso quando conia il termine “gigariato”), sostenendo che questi elementi vadano messi in prospettiva storica come fattori per lo più ricorsivi del capitalismo. Talvolta nelle pagine affiora il rischio di una lettura da stantio marxismo ortodosso sul “nulla è cambiato” (che, anche fosse vero, sarebbe comunque inutile politicamente), ma l’analisi è in realtà molto più sottile, puntuale, e utile – pur appunto con accenni che talvolta paiono sottovalutate il ruolo di frontiera e di successiva possibile trasformazione a cascata che certe “nuove” tipologie di lavoro hanno o possono avere. Ciò cui mira Moody è au fond un concentrarsi sulle nuove condizioni di classe in senso ampio, il cui profilo viene definito come una “more diverse working class” rispetto al passato, con elementi che più che di precarietà fanno risaltare l’elemento dell’aumento dei lavoratori “in surplus”, l’estendersi dell’esercito industriale di riserva via migrazioni, l’aumento del peso della razza, e la tendenza alla proletarizzazione dei professionals come insegnanti, ospedalieri e vari tecnici e ingegneri. Ciò che in questa analisi rimane tendenzialmente ai margini, e che invece oggi andrebbe ripensato con assoluta centralità, è il tema del lavoro riproduttivo, della sua crescente invisibilizzazione e non retribuzione. Ma non è questo il luogo per approfondire il tema.

Da un punto di vista dell’analisi del capitale , come già accennato, Moody si concentra sulle nuove concentrazioni di capitale, mettendo però in guardia: “ciò che sta emergendo non è il “capitale monopolistico” basato sulle teorie neoclassiche […]. Al contrario, concentrazione e centralizzazione sono funzioni della competizione, il tentativo di catturare più profitto attraverso la cattura di maggiori quote di mercato” (p. 57). Inoltre, nel quinto capitolo dedicato alla logistica (“Logistics: Capital’s Supply Chain Gang”), questa viene così inquadrata: “la supply chain, dalle materie prime al porta a porta di Wal-Mart, rappresenta in una prospettiva marxista una linea di assemblaggio della produzione – controllata dai sistemi just-in-time operanti attraverso la logistica. I cluster logistici sono dunque agglomerazioni che producono valore al centro dei più ampi processi produttivi contemporanei” (p. 64 – corsivo in originale). E’ questa una nota di rilievo importante, che si lega al resto laddove viene detto che “tutti i siti metropolitani dei principali cluster logistici sono anche il luogo di grandi “ghetti” e “barrio” dove abitano un gran numero di lavoratori disoccupati o sotto-occupati, in larga parte “afflitti”, sia spazialmente che occupazionalmente, da segregazione razziale e discriminazione” (p. 61). Ulteriore elemento da portare in rilievo è l’enfasi posta da Moody sul fatto che la competizione (nonché il terreno di conflitto col lavoro) sia sempre più attorno al tempo, al comando su di esso – mettendo dunque in secondo piano l’enfasi “spaziale” che oggi domina molte analisi.

Per concludere riprendiamo le parti politiche che ci sembrano più interessanti del testo. La critica alle forme politiche e sindacali tradizionali, e ai loro fallimenti degli ultimi decenni, è netta, e alle seconde viene in particolare imputato l’abbandono dell’arma più forte del conflitto di classe: lo sciopero, “caduto dell’80% dai Settanta ai primi Duemila negli USA, mentre i livelli di sciopero nell’Unione Europea sono caduti del 40% tra gli anni Novanta e i Duemila” (p. 82). Ciò su cui è chiaro Moody, nella sua enfasi sulla necessità di ripartire dalla costruzione di organizzazioni e movimenti indipendenti e dal basso a livello urbano, è che il fattore decisivo (nel passato, oggi e in futuro) sia quello del costituire una “minoranza militante”. E’ questa la conditio sine qua non per poter oggi tornare a praticare da un punto di vista di parte il terreno della nuova lotta di classe, e merito dell’autore è il rifuggire da indicazioni velleitarie o dalla tentazione del nuovismo fine a se stesso: “ci sono molte ragioni per ritenere che sia il costruire a partire dalle attuali resistenze e movimenti che può iniziare a produrre un passaggio verso le possibilità di cambiamento” (p. 87). Il libro è infatti in fin dei conti rivolto alle generazioni che nell’attuale contesto statunitense rischiano di trovarsi spaesate dopo la fase di mobilitazione dei migranti, di Occupy, della campagna sul salario minimo “Fight for 15”, di Black Lives Matter e delle tante altre mobilitazioni avvenute nell’ultimo decennio che oggi hanno lasciato sul campo un corpus variegato di conoscenze ed esperienze che rischiano di trovarsi spiazzate dall’ascesa di Trump. In questo senso Moody si propone di rilanciare le forme della militanza senza incorrere in analisi psicologiche che guardando al proprio ombelico ne decretano la crisi, ma ponendosi marxianamente sul terreno della composizione di classe e del capitale per rilanciare in avanti le possibilità di trasformazione. Sul secondo versante: “la nuova forma emergente del capitalismo offre opportunità, non certezze. E’ possibile tuttavia concentrarsi su alcune possibilità e direzioni strategiche. Ci sono tre dimensioni promettenti: la grande taglia delle corporation nazionali o regionali in molte industrie; la grande concentrazione di lavoratori, soprattutto neri e latini, nelle aree urbane; e la fragilità dell’intero sistema delle supply chain logistiche just-in-time” (p. 84). Sul primo, come già detto, Moody correttamente sostiene che non è a partire da pur necessarie analisi e raccoglimenti teorici, ma dalla pratica di intervento sociale, che emergeranno i nuovi spunti e le nuove possibilità, e per questo rilancia: “non piangere (o aspettare), organizzati!”.

 

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