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Il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile fa ripartire le estrazioni di gas in Italia ma non risolve il caro bollette

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Durante la lettura delle 209 pagine del PiTESAI, il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, c’è una domanda che più volte ritorna: a cosa serve davvero? Davvero ci sono voluti tre anni, tra continui rinvii e scadenze posticipate, per partorire un Piano che vorrebbe rendere sostenibili le fonti fossili, e in special modo il gas, riuscendo a fare scontenti praticamente tutte le parti in gioco?

di Andrea Turco da Valigia Blu

Questa sorta di piano regolatore delle estrazioni di idrocarburi ha comunque il merito di aver sintetizzato in maniera accessibile e divulgativa un settore: raccogliendone le leggi che lo disciplinano, descrivendone le tecniche di esplorazione, fornendo mappe e numeri che danno organicità a un quadro finora sfilacciato, diviso com’era tra competenze diverse. La pensa così persino Massimo Nicolazzi, ex manager ENI e Lukoil nonché autore, tra gli altri, del libro L’elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019):

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La provocazione di Nicolazzi sull’attività “consegnata al passato” è tuttavia destinata a cadere nel vuoto. Dopo tre anni dalla moratoria sulle nuove concessioni, stabilita dal governo Conte I con la legge n°12 dell’11 febbraio 2019 in attesa che venisse redatto il PiTESAI, il primo effetto del Piano sarà quello di far ripartire le esplorazioni di idrocarburi: petrolio per le richieste avanzate prima della pubblicazione del Piano (e non prima del 2010) e gas per quelle successive. Dalla pubblicazione del PiTESAI sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta l’11 febbraio, il dibattito si è polarizzato tra chi lo ritiene modesto e chi lo ritiene utile. Prima di entrare nel dettaglio dell’analisi del Piano, va però chiarito un equivoco: il PiTESAI non risolverà l’aumento delle bollette avvenuto tra la fine del 2021 e il 2022.

Appena pubblicato e già sorpassato?

A prendere posizione sul nuovo Piano del governo è Energie per l’Italia, il gruppo scientifico  formato da 22 docenti e ricercatori dell’Università di Bologna che dal 2014 fornisce contributi e spunti sulla politica energetica dell’Italia. Lo fa attraverso una lettera aperta indirizzata al governo:

La crisi in atto è figlia della dipendenza italiana dal gas, climalterante e non rinnovabile. Il metano consumato in Italia (74 miliardi di metri cubi, fonte IEA, dati per il 2019) è quasi tutto (94%) importato e viene utilizzato per il 42% nella produzione di energia elettrica, per il 39% negli usi residenziali, commerciali e nei servizi pubblici, per il 14% nell’industria come fonte energetica, per il 2% nei trasporti. Di fronte a tutto questo assistiamo sgomenti a un’azione di governo di cui non comprendiamo la visione strategica: invece di puntare alla rapida sostituzione del gas fossile con fonti rinnovabili in tutti i settori di impiego, il governo italiano reperisce ovunque risorse per sostenere i consumi di gas, invocando addirittura la ripresa delle estrazioni di metano dal sottosuolo nazionale, quando è certificato dal Mise che le riserve sono assai modeste, ed equivalenti a circa un anno di consumi nazionali. 

Ben diverso è a tale proposito l’approccio del governo tedesco, che si sta muovendo nella direzione opposta, agevolando al massimo le nuove installazioni a rinnovabili (eolico e solare), puntando all’efficienza e alla riduzione dei consumi di energia, e favorendo l’impiego di mezzi di trasporto elettrici sia per le persone che per le merci.

Si potrebbe obiettare che Energie per l’Italia è fondata dal chimico Vincenzo Balzani, candidato al premio Nobel nel 2016 e notoriamente schierato contro “l’ossessione del metano” (anche se i dati sono difficilmente contestabili). E allora andiamo a vedere la posizione dei pro-gas.

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La stessa Assorisorse, che mette insieme le aziende del settore minerario iscritte a Confindustria, non pare entusiasta del documento prodotto, anche se “riconosce che, grazie all’impegno del Governo, nell’ultimo anno si è cercato di superare un lungo periodo di incertezza per gli operatori della filiera energetica”. In un comunicato stampa Assorisorse sostiene che:

Il   testo  del  PiTESAI   andrà   ora   analizzato   alla   luce   del   contesto   nazionale   ed internazionale, profondamente diverso dall’avvio dell’iter del febbraio 2019. Occorrerà analizzare se e in che modo il Piano consenta di far fronte all’aumento dei prezzi dell’energia (…) In tal senso aumentare la produzione domestica di gas naturale costituisce una leva importante, anche se non la sola, per alleviare l’attuale fase critica contribuendo alla riduzione delle bollette e alla sicurezza energetica, senza dimenticare gli effetti positivi sull’ambiente legati alla riduzione delle emissioni rispetto al gas importato, i positivi impatti occupazionali e il contributo sulla bilancia commerciale e sul PIL del Paese.

Se Assorisorse sceglie comunque la strada della cautela, molto più netto è Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, il think thank che più di tutti in questi anni ha spinto per una ripresa delle estrazioni – sia di petrolio che di gas ma anche del carbone. Tabarelli definisce il PiTESAI addirittura “un mostro contro la politica energetica” e spiega che “ci vorranno anni, se non decenni, per produrre più gas in Italia: ce lo dimostra l’esperienza degli ultimi 20-30 anni”. Più avanti nella stessa intervista il presidente di Nomisma Energia ammette che l’eventuale aumento della produzione non servirebbe ad avere un crollo dei prezzi perché questi sono comunque determinati dal mercato a livello europeo. Tanto che alla fine lo stesso Tabarelli fa suo l’invito del mondo ambientalista: “La vera alternativa energetica è consumare di meno”. 

Su questo fronte, il sempre ben informato Sole 24 Ore anticipa le mosse del governo e delinea cosa si muove nei tavoli istituzionali al di là delle prese di posizione ufficiali. Così Jacopo Giliberto sintetizza le nuove prospettiva in un articolo del 16 febbraio scorso:

Il progetto del Governo per raddoppiare da 3,34 miliardi di metri cubi ad almeno 7 miliardi di metri cubi l’estrazione di metano dai giacimenti nazionali — da assegnare a prezzo convenzionato tramite gare — potrebbe chiedere 2 miliardi di investimenti dopo anni di blocco a causa della moratoria no-triv, ma soprattutto potrebbe impiegare troppo tempo, non prima di 10 mesi per riaprire i polmoni dei giacimenti più sfiatati.

Servirebbe forse una cabina di regìa, ma più facilmente un commissario straordinario come era stato fatto per ricostruire in meno di 2 anni il ponte Morandi di Genova dopo la terrificante strage del crollo del 14 agosto 2018. 

Di più: secondo Giliberto addirittura il governo sarebbe già pronto a “derogare dal PiTESAI” appena pubblicato. Con l’obiettivo di “avere al più presto quei 3-4 miliardi in più (di metri cubi di gas, nda) a prezzo contenuto”, in modo da poter incidere realmente sul costo delle bollette. A ciò dovrebbe far fronte un nuovo decreto ministeriale, che probabilmente sarà licenziato venerdì e che si aggiunge agli interventi precedenti che hanno stanziato più 10 miliardi di euro per attenuare l’aumento dei prezzi. A più riprese il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha dichiarato che “sono necessari interventi strutturali”. E, secondo un’indiscrezione ancora de Il Sole 24 Ore, una delle misure preferite dal governo – appunto il raddoppio della produzione nazionale di gas – è stata discussa nella mattinata di mercoledì 16 febbraio dall’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, intercettato all’uscita da Palazzo Chigi. A quanto pare Descalzi avrebbe incontrato il ministro Cingolani, il ministro dell’Economia Daniele Franco e il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli che sta seguendo in prima linea il dossier. 

Il coinvolgimento del cane a sei zampe è dovuto al ruolo preminente: da sola Eni “produce poco più di 3 miliardi di metri cubi sui 4,4 miliardi di metri cubi complessivi oggi garantiti dai pozzi nazionali”. E uno dei giacimenti più grandi che sta per cominciare a essere sfruttato è quello al largo delle coste tra Gela e Licata: si chiama Argo/Cassiopea, è di proprietà di ENI e secondo le stime potrebbe garantire da solo un miliardo di metri cubi di gas all’anno, “più di 7 volte l’attuale produzione di gas in Sicilia”.

Di fronte a questo scenario, scrive ancora Il Sole 24 Ore: “Sui progetti di ripresa della produzione nazionale pesa come un macigno il nuovo PiTESAI, il piano per le trivelle pubblicato nei giorni scorsi dal ministero della Transizione Ecologica, che, lamentano gli operatori a gran voce, si muoverebbe in direzione totalmente contraria rispetto alla via che l’esecutivo intende battere con il nuovo decreto”.

Perché si torna a trivellare?

Se non è utile a fronteggiare l’aumento dei prezzi che dal settore energetico si è riversato nei consumi, allora a che serve il PiTESAI? Per capirlo serve tornare al testo del Piano che, nel lancio del ministero avvenuto il 13 febbraio, “ha l’obiettivo di fornire regole certe agli operatori e di accompagnare la transizione del sistema energetico nazionale definendo le priorità sia in un’ottica di decarbonizzazione – in linea con gli accordi internazionali di tutela dell’ambiente e della biodiversità – che del fabbisogno energetico”. Del fabbisogno energetico abbiamo già visto. Come va dunque sul versante della decarbonizzazione?

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La tesi del MiTE, come avevamo già scritto su Valigia Blu, è di consentire nuove estrazioni solo nei giacimenti più grandi e più ricchi, cioè quelli più produttivi. Come ciò si  possa conciliare con gli impegni presi a livello climatico è difficile da spiegare. Nella fase di consultazione pubblica del PiTESAI le sollecitazioni in tal senso erano state numerose. Ecco perché nel Piano si scrive che:

Occorre a tale proposito chiarire, anche a seguito di alcune osservazioni pervenute in sede di VAS (Valutazione Ambientale Strategica, nda) da parte di alcune Regioni e della Commissione VIA/VAS, che il permanere nel breve – medio periodo di attività di coltivazione in corso fino al completamento della loro produzione (è molto improbabile che a seguito della adozione del PITESAI ne partiranno di nuove), ove questo non pregiudichi interessi ambientali assoluti, non è incongruente con gli obiettivi di decarbonizzazione.

Tra i motivi alla base di tale scelta il più notevole è il primo: 

Tutti gli obiettivi di riduzione della CO2 vanno perseguiti mediante la riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dal consumo di combustibili fossili, da cui non discende direttamente una conseguente riduzione della produzione nazionale, che è comunque già molto ridotta rispetto alla domanda; anche se per ipotesi si decidesse di sospendere con effetto immediato ogni produzione nazionale di petrolio e gas, questo non ridurrebbe in alcun modo le emissioni derivanti dal consumo, ma si tradurrebbe semplicemente in un aumento delle importazioni di gas e di prodotti petroliferi dall’estero, con un effetto negativo sull’ambiente e sulle emissioni stesse, in quanto per la quota di idrocarburi non prodotta in Italia ma importata, andrebbero prese in considerazione anche le emissioni di CO2 dovute al trasporto dall’estero (vedere gli studi sulle emissioni di metano, che è gas con effetto climalterante superiore alla CO2, dovute al trasporto del gas in condotte, pubblicate dalla IEA – Methane Tracker 2021).

Per il MiTe, dunque, conviene estrarre localmente il metano – di cui si riconosce che è “un gas con effetto climalterante superiore alla CO2” – perché così si producono meno emissioni. Una tesi curiosa per un paese che punta al massimo, e abbiamo visto il pessimismo degli operatori del settore, a raggiungere il 10% del fabbisogno energetico nazionale soddisfatto dal gas, col restante 90% che comunque continuerà a essere importato. La crisi climatica in atto ha bisogno di impegni ben più concreti. In questo senso il PiTESAI è un’altra occasione mancata, alla stessa stregua del contributo al fabbisogno energetico. 

I numeri del fossile in Italia

Ancora una volta la domanda da porsi è: a cosa serve il PiTESAI? In precedenza abbiamo osservato che il Piano è comunque un’utile fotografia del mondo fossile. E allora ripartiamo da qui. Che petrolio e gas estratti in Italia contribuiscano ben poco al mix energetico è fatto acclarato – o almeno dovrebbe. Il Piano lo mette nero su bianco: “Le produzioni nazionali di gas e olio nel 2020 hanno contribuito rispettivamente per circa il 6,2% e circa il 11,3% al fabbisogno energetico nazionale”. 

Gli ultimi dati, relativi a giugno 2021, sanciscono che in Italia sono vigenti attualmente 248 titoli minerari:  63 permessi di ricerca di cui 20 in mare, 36 in terraferma e 6 in Sicilia; 185 concessioni di coltivazione di cui 61 in mare, 111 in terraferma e 13 in Sicilia. Al 30 giugno 2021 erano presenti 1.622 pozzi attivi di cui 673 in produzione (514 a gas e 159 ad olio, 437 ubicati in terra e 236 in mare). Gli idrocarburi prodotti sono convogliati poi in 71 centrali di raccolta e trattamento a gas e 15 centrali ad olio. Al 31 dicembre 2020 ci sono poi 138 piattaforme marine (più note come “trivelle a mare”): di queste ben 94 sono entro le 12 miglia, e il 40% delle piattaforme risulta non operativa. La presenza fossile nel nostro paese è però concentrata in poche zone:

Gran parte della produzione complessiva di gas nazionale registrata nel 2020 è ascrivibile alle 17 concessioni più produttive che hanno realizzato complessivamente 3.566 milioni di m3, pari all’81% della produzione nazionale; circa il 9% delle concessioni attive fornisce oltre l’80% della produzione nazionale. La produzione complessiva di olio greggio dell’anno 2020 è principalmente ascrivibile alle 4 concessioni più produttive (circa il 2% delle concessioni vigenti) che hanno realizzato complessivamente 4.893 milioni di tonnellate, pari a oltre il 90% della produzione nazionale.

Si tratta di dati già noti: se per il petrolio la Regione a cui guardare è la Basilicata, che da sola fornisce oltre l’80% di tutto il greggio nazionale, per il gas il riferimento maggiore, oltre alla già citata Sicilia, sarà l’Alto Adriatico, dal Veneto fino all’Abruzzo, dove le stime più generose indicano una presenza di gas tra i 40 e i 50 miliardi di metri cubi. 

Criteri “adattativi”

Se l’intenzione era di puntare solo sui giacimenti più densi, a giudicare dalle mappe dove sarà consentito estrarre il nostro paese dovrebbe essere ricchissimo di idrocarburi:

mappa esplorazioni

Screen dal PiTESAI relativo ai permessi di ricerca: in verde le zone potenzialmente idonee, in grigio quelle potenzialmente non idonee, in bianco le zone dove non si può estrarre

L’ambito del Piano comprende il 42,5% del territorio nazionale in terraferma e il 5% della superficie marina, con una diminuzione teorica rispetto al periodo pre-moratoria del 2019 del 50% a terra e dell’89% a mare. A ciò però va aggiunto che possono proseguire anche i procedimenti per istanze in “aree potenzialmente non idonee”, a patto che sia stato accertato un potenziale di riserve certe superiore a 150 milioni di metri cubi di gas. Come a dire:  di fronte alle esigenze della produzione nazionale, non ci sono distinzioni che tengano.

Merita attenzione, poi, proprio la distinzione articolata che il ministero fa tra aree potenzialmente idonee e aree potenzialmente non idonee alle nuove estrazioni:

Nella formulazione del PiTESAI, la parte principale dell’attività è stata rivolta all’individuazione dei criteri ambientali, sociali ed economici, in base ai quali stabilire se una determinata area sia potenzialmente o meno idonea all’effettuazione delle attività di ricerca e di successiva coltivazione di giacimenti di idrocarburi e/o compatibile alla prosecuzione delle attività minerarie già in essere. L’applicazione dei criteri ambientali, sociali ed economici avrà pertanto ad oggetto da un lato le nuove istanze per lo svolgimento potenziale delle attività upstream e dall’altro la prosecuzione dei procedimenti amministrativi e delle attività minerarie che sono già in essere. 

Quali sono dunque questi criteri? Nella relazione illustrativa del PiTESAI si legge che “i criteri ambientali sono stati definiti sulla base delle caratteristiche territoriali e ambientali  delle aree di studio individuate in base alla presenza di vincoli normativi, regimi di protezione e di tutela a vario titolo e di particolari sensibilità/vulnerabilità alle attività”, mentre “i criteri sociali ed economici sono stati invece individuati considerando: da un lato, l’obiettivo del PNIEC (il Piano nazionale integrato energia e clima, nda) di prevedere ancora un utilizzo del gas nel medio periodo per la transizione energetica verso la decarbonizzazione al 2050” e dall’altro, la scelta di “valorizzare le concessioni in stato di produttività, rispetto a quelle che invece versano in situazioni di cronica improduttività, agendo tempestivamente sulle concessioni che non hanno mai prodotto per un periodo ampio e sulle concessioni diventate improduttive di fatto”.

Inoltre, per alcune situazioni critiche il ministero rispolvera l’analisi costi-benefici “quale strumento di supporto alle decisioni, al fine di individuare caso per caso, sulla base  di dati aggiornati forniti dal concessionario e delle migliori stime disponibili del valore della produzione”. Allo stesso tempo, per “la definizione delle aree potenzialmente idonee, ossia di quelle aree attualmente non interessate da attività upstream ma da considerare potenzialmente destinabili a nuove attività, sono stati valutati come prevalenti i criteri ambientali”. 

A quelli già noti, e definiti come vincoli assoluti, ossia “vincoli normativi che già prevedono restrizioni di vario tipo per le attività upstream”, il Piano aggiunge “i vincoli aggiuntivi di esclusione, quali vincoli di salvaguardia, tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale,  culturale, territoriale ed economico, che precludono di fatto le specifiche attività operative di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle aree interessate” e “i vincoli di attenzione/approfondimento da considerare nelle successive fasi valutative sito-specifiche, quali elementi che non determinano a priori la  non idoneità dell’area, ma che per le loro caratteristiche ambientali dovranno essere adeguatamente considerati nelle successive fasi valutative sito-specifiche (tra cui le VINCA e le VIA del progetto nel sito specifico) che si  renderanno necessarie prima di approvare l’effettuazione delle specifiche attività di prospezione, ricerca e  coltivazione degli idrocarburi”. 

È l’introduzione di queste (blande) forme di tutela ambientale ad aver spaventato Confindustria e le imprese? Il ministero specifica comunque che “tali vincoli individuati per l’elaborazione del PiTESAI saranno considerati, ove applicabile, dinamici e adattativi“. Una formula che lascia spazio alle interpretazioni e che non chiude nessuna porta.

Contraddizioni

Più complessa è una strategia, più ampi sono gli obiettivi, più è facile cadere nelle contraddizioni. Il PiTESAI, però, di dubbi ne alimenta parecchi.

Già nei mesi passati Enzo Di Salvatore, costituzionalista dichiaratamente No Triv e docente presso l’Università di Teramo, aveva fatto notare che sarebbe stato più opportuno redigere un Piano dove indicare chiaramente le zone in cui non sarebbe stato più possibile trivellare. Invece il Piano si limita a specificare che “non saranno più interessate da attività di ricerca e coltivazione, per motivi legati al potenziale geominerario e alla storia esplorativa degli ultimi 30 anni, le Regioni Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Liguria, Umbria, Toscana (quest’ultima ad eccezione dell’area relativa a due concessioni di coltivazione in essere) e Sardegna”. Le cinque Regioni dove non si potrà estrarre sono dunque quelle in cui si è già certi che non c’è gas o che ce n’è così poco che non vale la pena neanche avviare le attività. Insomma, è una semplice presa d’atto. 

Si potrà invece estrarre nelle altre 15 Regioni, e vengono considerate zone potenzialmente idonee aree invece molto complicate a livello ambientale: dalla Pianura Padana, già tormentata dalla siccità e dall’inquinamento, alle coste romagnole dove la stessa Regione ha sollevato il problema della subsidenza; dal golfo di Taranto, la città pugliese che è stata definita dall’ONU una delle zone più contaminate dell’intero Pianeta, al Canale di Sicilia che lo stesso PiTESAI definisce “un’area marina di particolare pregio”. Su molte delle zone ritenute idonee organizzazioni ambientaliste ed enti locali hanno già annunciato, come scrive Il Fatto Quotidiano, che “presenteranno ricorsi a oltranza per contrastare uno strumento che, a loro dire, non risolverà il problema energetico del Paese e al contrario danneggerà molte aree”. 

C’è un’ultima annotazione da fare: lo stesso PiTESAI sostiene, analizzando “l’evoluzione complessiva del numero dei permessi di ricerca e delle concessioni di coltivazione vigenti nell’arco temporale degli ultimi 50 anni”, che la tendenza in atto in Italia è quella di una diminuzione della produzione di idrocarburi. Proprio così:

È evidente la contrazione connaturata delle attività di ricerca degli idrocarburi in Italia a partire dagli anni ’90, e il raggiungimento nell’ultimo decennio del cosiddetto plateau, con inizio alla discesa, per le conseguenti attività di coltivazione di idrocarburi avviate a seguito delle precedenti attività di ricerca svolte. 

Invece di accentuare una tendenza già in atto il governo sceglie di tornare sulla via del gas. Nonostante non risolve (né risolverà) il caro bollette, non persegue la neutralità climatica, non piace a Confindustria né al settore degli idrocarburi, è già osteggiato dai Comuni e dalle ONG ambientaliste. A cosa serve davvero il PiTESAI?

Immagine in anteprima via economiacircolare.com

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