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Per salvare Gaza e noi stessi, è ora di razionalizzare la speranza

Ormai le volte in cui abbiamo pensato “speriamo” dopo le dichiarazioni di qualche governo o di qualche grande istituzione sono centinaia.

di Alessandro Ferretti

Abbiamo sperato in una svolta con i pronunciamenti della corte dell’Aja e dell’ICC, con le voci di dissidi Biden-Netanyahu e Trump-Netanyahu, con gli stati che hanno riconosciuto la Palestina, con il PD ha organizzato la manifestazione per il cessate il fuoco, con le parole di fuoco della Turchia, con Von der Leyen che ha finalmente detto “basta morti”, con i mediatori che “l’accordo è vicino”, con il comunicato (falso) della Cina, con la reazione dell’Iran all’aggressione israeliana, con Meloni indignata per l’attacco all’Unifil e a una chiesa cristiana.. e innumerevoli altre volte. Ancora adesso, quando Macron ha detto che a settembre (!) riconoscerà la Palestina, in tanti hanno commentato scrivendo “speriamo”.

Queste speranze per imminenti soluzioni “dall’alto” sono un moto spontaneo dell’animo umano. La speranza non è razionale, è un riflesso come quello della gamba che si alza quando il medico colpisce il ginocchio col martelletto. Per molti, queste speranze sono funzionali a sopportare il dolore, per altri a continuare ad attivarsi, per moltissimi a giustificare l’ignavia: “vedi, non possono andare avanti ancora per molto, ormai sono agli sgoccioli, non c’è bisogno che mi inimichi i potenti”.

Tutte queste speranze però si sono sempre risolte nel nulla. Il genocidio è più feroce che mai, le sofferenze inflitte ai palestinesi sono sempre più sadiche ed efferate, l’impunità e l’arroganza di Israele è sempre più clamorosa, le sue mire sempre più sfrontate. Basta fermarsi un attimo a guardare la realtà per capire che le probabilità che il gesto di Macron (sempre che non se lo rimangi) porti alla fine del genocidio è addirittura più bassa di quella che Meloni faccia una qualsiasi cosa che dispiaccia agli Stati Uniti.

È ormai il momento di riconoscere che queste speranze sono pie illusioni. Ai governanti e ai potenti, tutti quanti, la continuazione del genocidio conviene, semplicemente perché i potenti hanno sempre da guadagnare quando i subalterni vengono bastonati e tutto da perdere quando i subalterni resistono al loro potere.

Il genocidio non finirà per graziosa concessione dall’alto, o perché la coscienza di chi decide della vita di milioni di persone a un certo punto si risveglierà. In un sistema capitalistico, il requisito primo per diventare governante o potente è quello di non avercela proprio, la coscienza. E se per caso questa si dovesse inopinatamente manifestare in qualcuno di essi, state pur certi che gli altri lo faranno fuori in un attimo.

Il genocidio finirà solo in due modi: nel primo, un gruppo di potenti schiaccia militarmente il gruppo attualmente dominante. Questa prospettiva non è solo lontanissima, ma significherebbe solo passare da un genocidio ad un altro, proprio come la vittoria alleata nella seconda guerra mondiale ha fatto finire la strage degli ebrei sostituendola con quella dei palestinesi e di tante altre persone senza potere.

Nel secondo, quelli che sono senza potere capiscono realizzano che sono solo carne da cannone per i vari potenti, e si organizzano facendo crollare con la forza dei numeri le basi del potere degli attuali dominatori.

Basta con l’attesa del Godot dell’establishment occidentale che a un tratto prende coscienza e rende giustizia ai palestinesi: questa cosa non succederà nè oggi, nè domani, nè mai. Sperare in Macron o chi per lui dimostra solo che nonostante quasi due anni di genocidio in diretta, non abbiamo ancora la forza o il coraggio di accettare l’evidenza della natura irrimediabilmente predatoria, dominatrice e feroce del potere costituito in una società fondata sul profitto.

Solo un contropotere organizzato dal basso può riuscire a far crollare la vera base del potere degli attuali potenti, che è la massiva, servile e supina acquiescenza di chi lavora, crea e produce tutto ciò che tiene in vita la società.

Per raggiungere questo obiettivo serve naturalmente speranza, ma una speranza che si nutre di una manifestazione ben riuscita, di un collettivo che cresce in numeri e consapevolezza, di un’iniziativa di denuncia o di sabotaggio.

La speranza siamo noi che ci opponiamo al potere costituito e ai suoi complici servi e ignavi, siamo noi che costruiamo legami e nuovi modi di vivere, di relazionarci e di produrre.

Abbandoniamo quindi le false speranze e abbracciamo la consapevolezza che la scelta che abbiamo davanti è una sola, e sempre la stessa: la scelta tra socialismo e barbarie.

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