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Le ideologie del capitale, la guerra e noi

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In questa guerra che si combatte localmente sul territorio ucraino, ma che ha implicazioni globali si vedono all’opera tutta una serie di fenomeni ormai totali che già da tempo stavano trasformando il paesaggio politico e sociale occidentale, e non solo.

In molti e molte ci troviamo a chiederci come mai non emerga un pensiero complesso intorno alla questione della guerra in grado di tradursi in termini semplici e di massa in un agire sociale e diffuso di opposizione. E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, sicuramente concorrono una serie di fattori differenti che insieme formano questo scenario. Per nominarne uno: siamo stati abituati da decenni a pensare che a scatenare le guerre è la nostra parte di mondo (o meglio a scatenare le guerre importanti: quelle di cui si parla sui giornali), mentre in questo caso, sotto il profilo esplicitamente militare ad aver imbracciato le armi è uno Stato considerato al di fuori dell’universo mondo liberal-democratico.

Questo sicuramente è un elemento di complessità significativo, con differenti implicazioni, ma ci può bastare come spiegazione?

L’impressione è che in realtà ci sia qualcos’altro che ci sfugge, di cui non riusciamo a comprendere nell’interezza il significato. Qui proviamo a fare una serie di ipotesi, anche se sostanzialmente ci pare che sia importante tenere questa riflessione come una traccia aperta.

La guerra in Ucraina ha da subito scatenato una dimensione di polarizzazione che assomiglia al tifo da stadio. Intendiamoci, non è che riteniamo in sè la polarizzazione qualcosa di negativo, né che ci faccia schifo il tifo da stadio, ma un aspetto non secondario sono le linee di faglia su cui questa polarizzazione si applica. L’impressione è che per l’ennesima volta a replicarsi sia un frame discorsivo interamente interno alle ideologie del capitale. Parliamo di ideologie al plurale perchè è ormai evidente da tempo la capacità del sistema di sviluppo capitalistico di elaborare diverse ideologie totali a seconda dei contesti, delle forme di estrazione di valore e dei processi storici su cui si innesta.

Ecco dunque che apparentemente, secondo il teatrino mediatico, a scontrarsi nel dibattito sulla guerra sono fondamentalmente due posizioni che tagliano trasversalmente la società, ma sostanzialmente integrate all’interno della dialettica capitalista: quella conservatrice e quella liberale. Qualsiasi forma di complessità si provi ad articolare viene inevitabilmente ricondotta a questi due schieramenti.

La cosa diventa ancora più complessa quando avviene una rotazione completa, anche qui nella classica dinamica della politica del capitale e i falchi diventano colombe, gli isolazionisti interventisti e gli umanitaristi sostengono la necessità del riarmo.

Il problema dunque si pone come duplice, da un lato l’esercizio continuo di questa pseudo-dialettica che è strettamente ancorata agli interessi dei diversi gruppi capitalistici in competizione sembra lasciare poco spazio nella battaglia delle idee ad un punto di vista differente, che non si ponga come una debole terza via, ma che abbia la capacità di divenire senso comune di massa. Dall’altro queste ideologie del capitale percolano nella società come forme di soggettivazione dall’alto formando all’apparenza alleanze interclassiste che si rimescolano continuamente. Certo sembrano scenari molto simili a quelli di inizio novecento, ma con la differenza che nel quadro neoliberale questa è stata una delle tecniche di governo della complessità della società in classi contemporanea affinata per decenni.

In tempi espansivi questo meccanismo di governo si sostanzia nell’alternanza parlamentare verso cui le classi popolari maturano sempre più estraneità, come momento di composizione degli interessi borghesi, in tempi di crisi, beh, in tempi di crisi si traccia lo scenario che abbiamo di fronte, la guerra.

Il rischio che ci si presenta davanti è quello di volenti o nolenti rappresentare l’estrema di uno di questi due campi, e nonostante tutto non riuscire comunque ad avere alcun tipo di efficacia. Perchè se è vero che le alleanze interclassiste agiscono su basi ideologiche è altrettanto vero che una parte della loro possibilità di riprodursi dipende da dei momentanei interessi materiali convergenti, o almeno che paiono tali secondo la narrazione che ne viene fatta.

Eppure esistono dei momenti in cui la crisi è talmente acuta che questa pseudo-dialettica del capitale ne risente, in cui si intravede inevitabilmente quello che succede dietro le quinte. Ecco che forse è su questo aspetto che dovremmo orientare il nostro agire: su quella distanza che le classi popolari del nostro paese nutrono verso il richiamo all’arruolamento nell’esercito dei “buoni”. Una distanza che è in qualche modo il dato politico di questa fase, per cui i governanti e i giornalisti si disperano, gridando al popolo ignavo e ignorante. Una distanza che non trova più patria nella cosiddetta società civile.

Che sia la premessa di un’autonomia possibile? Questo è tutto da scoprire.

Forse ancora una volta è su questa dialettica che dovremmo concentrare i nostri sforzi, nel provare a comprenderla, nel contribuire ad organizzarci insieme, nonostante le contraddizioni a cui potremmo andare incontro, nel dichiarare apertamente che non siamo dispost* a sacrificare le nostre vite per i loro interessi, che non siamo dispost* a pagare le loro guerre, nel ricercare nel concreto quali sono le caratteristiche di un rifiuto che è un grido esasperato di vita. Si tratta di tuffarsi nelle acque agitate della crisi sociale che sta montando. Forse la questione in fondo è che un senso comune contro la guerra è già qui, ma non ha ancora trovato il modo di esprimersi, di liberarsi.

  

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