Porto Torres, Vinyls. Operai e comitati? Meglio se uniti nella lotta
“Vogliamo capire – hanno detto i rappresentanti sindacali – se davvero tutti hanno deciso di abbandonare i lavoratori della Vinyls a discapito di tutto, anche degli interessi dei cittadini e dell’ambiente”. Parlano solo di bonifiche? O di mezzo c’è anche la costruenda Chimica Verde?
I fatti
Finora, pur essendo senza stipendio e pur essendo certi del fallimento della propria azienda, che verrà dichiarato il 27 di questo mese dal Tribunale di Venezia, gli operai hanno presidiato le 500 tonnellate di sostanze tossiche e cancerogene rimaste stoccate negli stabilimenti ex Vinyls. Pochi giorni fa la svolta: gli operai abbandonano il presidio di fabbrica, si autodenunciano alla Procura della Repubblica per prevenire qualsiasi azione legale nei loro confronti e sollevano il problema della bomba ecologica, di cui naturalmente tutti sono a conoscenza. Ma nessuno agisce: non lo fa il Governo né la Regione, non dice nulla l’Arpas e tantomeno il Prefetto di Sassari, che pure sa, come tutti gli altri. La Vinyls da parte sua aveva già fatto sapere di non avere risorse da destinare alle bonifiche e nessuno finora le ha imposto di trattare il dicloretano e il cloruro di vinile che ha abbandonato di fronte al Golfo dell’Asinara.
Il contesto
Si tratta dunque di fare serie bonifiche o meglio di mettere gli operai nelle condizioni di bonificare lo stabilimento (e tutta l’area dell’ex polo chimico). Occorre anche affermare con forza un principio basilare: sia l’inquinatore a bonificare il territorio che fu di Rovelli prima e dell’Eni poi, già classificato come sito d’interesse nazionale per l’elevato tasso d’inquinamento. Un’area in cui nella popolazione residente, operai compresi, “sono stati osservati eccessi di mortalità per leucemia mieloide, malattie dell’apparato digerente, tumori maligni al fegato, al colon e al polmone”, come messo in evidenza dal rapporto S.E.N.T.I.E.R.I pubblicato nel 2012.
Un’area, tuttavia, in cui si sta già costruendo la Chimica Verde, il progetto dal cuore nero di Matrìca, joint venture Versalis (Eni)-Novamont, che ha al suo centro la megacentrale da 205 Mw alimentata in parte da biomasse vegetali, che una volta bruciate sprigionano diossina e polveri ultrasottili, e, con ogni probabilità, da rifiuti solidi urbani, come previsto dal legislatore italiano, che da vero azzeccagarbugli equipara la frazione biodegradabile dei combustibili ai combustibili derivati dai rifiuti urbani. Insomma, un piano per produrre energia più che una fabbrica di sacchetti di plastica eco-compatibili: lo sanno tutti. Ma forse non tutti sanno che la Sardegna produce già più energia di quanta gliene occorra.
Stanchi leitmotiv
Un progetto, quello della Chimica Verde, chiesto dagli stessi sindacati che oggi hanno occupato il municipio di un altro eccellente amico della Chimica Verde, il sindaco di Porto Torres Beniamino Scarpa. Perché? Perché porta lavoro (e dunque consenso).
L’operazione dei sindacati è dunque chiara: il lavoro è tutto uguale, anche quello che inquina, specie se si vive nell’isola dei cassintegrati, e i lavoratori della Vinyls mettiamoli a fare la Chimica Verde. Ma non c’è posto per tutti.
Per di più i confederali cadono in contraddizione.
La prima contraddizione è questa: come si fa a reclamare la Chimica Verde se prima non si bonificano le aree in cui dovrebbero sorgere gli impianti di Matrìca? Perché, giornalisti e politici a parte, i quali sostengono che le bonifiche sono a buon punto, le bonifiche a Porto Torres rimangono un miraggio. Come sosteneva solo pochi mesi fa il presidente dell’Isde – Sardegna Vincenzo Migaleddu «gli interventi della Syndial (leggi Eni) nella cosiddetta Area A dell’ex petrolchimico, laddove si trova la falda inquinata e dovrebbero sorgere gli impianti della Chimica ”Verde”, consistono nella realizzazione di una barriera idraulica costituita da dei pozzi di emungimento collegati a dei sistemi TAF (Trattamento Acque di Falda); a monte e a valle di tale barriera idraulica sono collegati dei piezometri per misurare il gradiente di diffusione dell’inquinamento. Nell’agosto 2011, in occasione dell’ennesima una conferenza di servizio istruttoria, veniva evidenziata dal Ministero l’inefficacia di tale barriera idraulica, senza però che si mettessero in atto nuove procedure di contenimento».
Ciononostante, il Ministero dell’Ambiente, già a maggio dello scorso anno, aveva concesso l’impiego dell’area meridionale del settore A per il progetto della Chimica Verde, con la benedizione della provincia di Sassari, dell’Arpas e dell’allora Assessore all’Ambiente Giorgio Oppi, che definiva la concessione una prima risposta alle richieste dei lavoratori.
Cosa è successo poi? Che i lavori per la costruzione delle fondamenta della Chimica Verde sono iniziati, che si stanno edificando gli impianti proprio sopra la falda rimasta inquinata. In pratica, si sta costruendo un enorme sarcofago, si sta mettendo un semplice tappo sui veleni. Sono queste bonifiche? Come si fa, allora, a reclamare insieme bonifiche e la Chimica Verde che viene realizzata senza preventive bonifiche? Perché, come minimo, non si dice che le bonifiche non possono essere affidate all’avvelenatore?
La seconda contraddizione è ancora più evidente: che senso ha fare bonifiche se poi si continuerà ad inquinare, a far ammalare la gente e, in ogni caso, a negare alle comunità diverse possibilità di sviluppo? E’ noto, infatti, che per far funzionare la Chimica Verde occorrono 150.000 ettari di terreno coltivato a biomassa. Insomma, non è questo un cane che si morde la coda? No, più semplicemente, è il cane a sei zampe, è la classe politica sarda che svende il suo territorio, è il governo italiano che considera la Sardegna come un’area di servizio per capitalisti mordi e fuggi, che oltretutto vengono riempiti di denaro. Forse che il comportamento dell’Eni non risponde in ogni suo gesto al modello della rapina? Lo sanno bene proprio gli operai della Vinyls, abbandonati da mamma Eni nel 2001.
Come uscire dall’impasse?
L’impressione, insomma, è che sindacati, politici e, in testa a tutti, l’Eni vogliano continuare a spremere alle loro condizioni, secondo l’affermato modello di gestione del potere che li lega in un tutto unico, un territorio che ha dato fin troppo, che ha immolato sull’altare del profitto la pesca, la mitilicoltura, l’agricoltura, il turismo. E non solo.
Eppure i sindacati vogliono questo, ma perché lo vogliono? Perché in questo modo possono riprodursi in quanto tali? Del resto, cosa ne sarebbe di loro se le industrie venissero drasticamente ridotte? La loro sembra una battaglia di ceto, un ceto che senza padrone non può esistere, quasi per definizione, se parliamo dei confederali.
Hanno forse trovato qualcosa da ridire i confederali quando, come detto, nonostante l’assenza di un’azione di bonifica, lo Stato Italiano ha dato l’ok alla Chimica verde? Hanno questi sindacati mai fatto un’ora di sciopero per l’ambiente e contro i padroni?
Al centro del giochetto gli operai, costretti a barattare salute per lavoro, altre possibilità di sviluppo per il salario, in attesa che i nuovi padroni, con l’aiuto dei confederali, sottraggano loro buona parte dello stipendio e il diritto di sciopero, oltre alla salute.
Insomma, i sindacati si danno in fretta un look verde (fa consenso), ma cadono altrettanto in fretta in evidenti contraddizioni. Ed è per questo che gli operai non li devono seguire, ma iniziare a costruire un’alternativa, sviluppando un punto di vista libero, indipendente, insieme a quei comitati che in alcuni casi percepiscono come ostili.
Fonte: arrexini.info
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