
Sinistra palestinese ed europea: come far fronte alla fase attuale?
In questo periodo turbolento, come vedi la situazione della Palestina e del medio oriente?
Sono tornato dalla Siria in Palestina nel 1998 per dedicarmi all’attività dell’Alternative Information Center. Mi riconosco come marxista. La questione palestinese ha una profonda radice di classe. Stare con i palestinesi non è una questione etica. È una questione di interesse economico e sociale.
C’è oggi uno spettacolo mondiale che dice: arabi, animali, barbari. È un lavaggio del cervello. Gli europei vengono e insegnano, invece devono imparare. Noi siamo i maestri, non voi. Il conflitto palestinese è globale, non locale. La Bibbia non è che uno degli strumenti di questo conflitto globale.
Tra il 1905 e il 1907 ci fu, a Londra, una conferenza in cui sette paesi europei discussero di quale strategia adottare verso il mondo arabo, visto che l’Impero Ottomano stava crollando. Soltanto una parte di questa conferenza è stata pubblicata. Ciò che sappiamo è che questi sette stati si accordarono su tre linee guida: (1) Creare regimi; (2) Impedire l’unità; (3) Dividere le popolazioni.
Queste premesse portarono nel 1916 all’accordo Sikes-Pikot tra Francia e Inghilterra per dividersi i resti dell’Impero, e nel 1917 alla Dichiarazione Belfour sulla colonizzazione ebraica della Palestina. Il mandato britannico sulla Palestina del 1922 e la fondazione di Israele nel 1848 arrivarono come ulteriori conseguenze.
Quando lottiamo contro Israele, Israele non ci accusa di antisemitismo, perchè gli israeliani per primi conoscono perfettamente questa storia, e sanno che l’antisemitismo non c’entra assolutamente nulla. Del resto anche noi arabi siamo semiti. Quella dell’antisemitismo è un’arma ideologica che usano con voi, in Europa, a causa della vostra storia. Al contrario, se Netaniahu rompe la legge internazionale è perchè egli ritiene di seguire la legge divina, che a dato al popolo ebraico un diritto soprannaturale sulla terra di Palestina.
La questione è insomma puramente politica.
Certo. Israele ha prodotto sette milioni di profughi palestinesi; ma non guardate alla Palestina, o ai profughi come problema morale, bensì politico. Chi si limita alla presa di posizione morale cambia in fretta, perchè tutti hanno sofferto, anche gli israeliani.
Quali sono le strategie odierne della colonizzazione palestinese?
Israele, in primo luogo, nega la storia. Il Muro che ha costruito non ha legami con la sicurezza, è propaganda politico-psicologica: quel che vuol dire è “siamo diversi” (e, aggiungo io, “ci difendiamo”) lasciando immaginare che dall’altro lato ci sia l’inciviltà, la barbarie.
Ci sono anche altre strategie, meno visibili del Muro ma altrettanto importanti. I governi europei dicono: “Aiutiamo i palestinesi con x milioni di dollari per lo sviluppo”; ma come fa la Palestina a sviluppare la sua agricoltura se non ha acqua per l’irrigazione? La Palestina è famosa per la produzione di arance, in particolare Gaza, dove le arance sono il primo prodotto; allora cercano di mutare il tessuto produttivo di Gaza.
La strategia per distruggere l’economia palestinese è rappresentata dalle colonie israeliane nei Territori: vengono costruite soprattutto dove sono collocate le risorse idriche, così da impadronirsene e rendere completamente dipendente l’economia palestinese, creando anche una borghesia palestinese che ha tutto l’interesse a sottomettersi a Israele.
Queste forme di colonizzazione della terra sono avvenuto durante gli interminabili “processi di pace” degli ultimi vent’anni. Cosa pensi dell’idea di “processo di pace” oggi?
Il processo di pace ha un problema: non esiste. È la più grande bugia. Parlano di checkpoint, misure di sicurezza e Muro; ma questo, la sicurezza, dovrebbe essere l’ultimo punto, la conseguenza del negoziato, non il negoziato stesso. Il negoziato riguarda le colonie, il diritto al ritorno, Gerusalemme. Perchè il mondo non sta chiedendo all’occupante di finire l’occupazione?
Rispetto all’occupazione è legittima anche la violenza?
La violenza è in questo conflitto dal primo giorno. Non è questione di parlare, ma di cambiare i rapporti di forza. Il diritto alla resistenza è riconosciuto dalla carta Onu. Il 70% della Cisgiordania e di Gerusalemme è stato confiscato. Il terrorismo più pericoloso non è quello individuale, ma quello di stato.
La terza Intifadah è la continuazione della lotta nazionale di liberazione, ma non è espressione di nessuna frustrazione: non siamo psicopatici. La generazione della Nakbah morirà e sarà dimenticata. Ma oggi la generazione è più coraggiosa e più dura ancora, sono pronti a morire per una terra che non vedono più.
I palestinesi non sono interessati a ciò che scrive il Washington Post, i martiri sono i loro vicini di casa, per loro non sono terroristi ma eroi. Di che cosa abbiamo bisogno da voi? Volete saperlo? Di niente. Abbiamo bisogno che fate le vostre vite e difendete i vostri diritti. Ma dovete lottare contro il vostro stato quando è coloniale. Se difendete i vostri diritti aiutate anche noi, ma non potete accettare il colonialismo. Dovete minare le relazioni economiche tra il vostro stato e Israele.
Ritieni quindi che si possa parlare, dall’autunno 2015, di una “Terza Intifadah”?
È resistenza palestinese – che sia Intifadah o no. Posso fare Intifadah per difendere la mia casa o per aprire un confine. Abbiamo Intifadah strategiche, Intifadah piccole, ecc. Ma non è questo il centro del dibattito: dicono “non è Intifadah” per dire che è marginale; ma anche un anno fa c’era lotta… La lotta va avanti sempre. Quel che è certo è, come dicevo, che non è frustrazione psicologica, non arrivano dal cielo, arrivano dalla storia della lotta palestinese. Nn è qualcosa di “personale”, di “individuale”.
La stessa legittimità dell’Anp sembra essere investita da questa protesta.
Certo. La resistenza non è soltanto contro Israele ma anche contro l’Anp. La gente lega l’Anp al processo di Oslo, ma si chiede anche: “che cos’è, esattamente, l’Anp?”; e ancora: “Che cosa avete ottenuto, in vent’anni, in termini di unità nazionale, di indipendenza, ecc.? Ci dicono che non c’è alternativa; ebbene, l’Anp è la causa dell’assenza di alternative. Se debba o meno essere smantellata è questione che interessa Anp, Israele, Usa e i partiti palestinesi. Naturalmente l’occidente non è di questa idea, perchè l’Anp è uno strumento di Israele… Ma per i palestinesi non è una questione interessante.
Il problema sono le relazioni economiche tra Anp e Israele. C’è una separazione economica, in Palestina, che conta molto a questo riguardo, la borghesia palestinese è legata oggettivamente a Israele, non è neanche propriamente una loro scelta.
La sinistra, in Palestina, attraversa un’evidente crisi. Quali ne sono le cause?
Dal punto di vista oggettivo, i problemi della sinistra palestinese sono i problemi della sinistra mondiale, quelli che attraversa la lotta di classe mondiale. Dal punto di vista delle premesse economiche la sinistra europea dovrebbe essere fortissima, ma dopo la caduta dell’Urss c’è stato disorientamento: la lotta di classe non è mai soltanto “interna” (al proprio paese), tanto più nel caso palestinese.
La crisi della sinistra internazionale danneggia la sinistra palestinese. Hamas è appoggiata dai reazionari (Arabia Saudita, Qatar, ecc.), Al-Fatah da Usa e Ue. Chi appoggia la sinistra? Arrivano un sacco di soldi per sviluppo, donne, diritti, democrazia, ecc; ma si tratta di compradores, sono soldi legati all’economia coloniale. Hamas e Fatah sono due facce della stessa medaglia. La sinistra palestinese è “orfana”.
Occorre aggiungere che non è facile, nel mondo arabo, rilanciare la sinistra, anche per ragioni ideologiche: la società è più religiosa. Soprattutto è più difficile convincere la gente semplice, che dice al Fronte Popolare: “Siete i migliori, i più coraggiosi, ma non possiamo appoggiarvi perchè siete atei”. È un problema culturale globale, ma soprattutto nel mondo musulmano.
Dopo la caduta dell’Urss (1991) e la crisi economica globale (2008) c’è un declino generale della questione palestinese. Il problema è: qual è la strategia della sinistra? Tanto la sinistra internazionale, quanto quella palestinese, pensano sia utile partire da un approccio “morale”, ma non lo può essere. Le Ong, ad esempio, non sono che strutture per controllare i palestinesi, sono il nemico che lavora sul tuo stesso terreno.
La società è divisa in classi, è un fatto: la sinistra è necessaria. Ciononostante, è necessario che si dia una strategia. Anche la sinistra italiana va dietro a Marx per risolvere le questioni, come fosse il Corano o la Bibbia. Quando è caduta l’Urss, analogamente, i comunisti si sono lamentati di Marx, quando avrebbero dovuto lamentarsi di sé stessi.
Cosa pensi della sinistra, almeno quella più “radicale”, israeliana?
La sinistra israeliana è a sua volta parte della sinistra classica. Anzitutto occorre distinguere ra sinistra sionista e non sionista, perchè la prima è parte del problema. Il problema fondamentale per gli israeliani, compresi quelli sinceramente di sinistra, è che traggono benefici da Israele, quindi perchè dovrebbero lottare? Per prima cosa, non dovrebbero vedersi parte di Israele, così come la sinistra palestinese non dovrebbe vedersi come parte della sinistra araba, ma di quella internazionale, mondiale.
Hai detto che la sinistra palestinese deve trovare una strategia. In questi vent’anni sono emerse diverse proposte di lettura del mondo e della lotta post-guerra fredda, dallo zapatismo al negrismo, all’apoismo (il pensiero di Abdullah Ocalan). Sono prospettive che sono, o sono state, discusse all’interno della sinistra palestinese?
No, non c’è discussione teorica in seno alla sinistra palestinese, ed è un problema; ma l’altro lato del problema è la sinistra europea che passa anni a discutere di una parola, quando il problema non è “teorico”, è la realtà. L’albero della vita è sempre verde, ma cerchiamo le risposte nella teoria. Marx e Engels guardavano la realtà e scrivevano, non il contrario. Pensiamo alla Comune di Parigi. Marx disse: falliranno, il contesto non è maturo; ma quando è scoppiata la guerra civile ha detto “sono con loro!”. Ha gettato da parte i libri.
Qui la discussione è assente, nella sinistra, e questo è un problema. In Europa però c’è soltanto discussione. I compagni europei mi sembrano dei preti. Discutono e basta, solo teoria. Dove eravate durante la crisi, nel 2008? E’ stata un’occasione per l’azione, e per una teoria conseguente; ma non è stata sfruttata.
Veniamo a una questione piuttosto sensibile. Da persona che ha vissuto e militato a lungo in Siria, qual è la tua posizione rispetto alla guerra civile?
Cominciamo a chiederci: perchè la Siria è una questione così “sensibile”? Io non capisco cosa ci sia di così “sensibile” sulla situazione siriana. Cominciamo a chiederci: perchè l’attenzione occidentale è concentrata ogni volta si figure come Bashar Al-Assad o Saddam Hussein e non sulla monarchia saudita?
Su questo siamo d’accordo. Tuttavia, se è scoppiato un fenomeno come quello in atto ci devono essere delle ragioni sociali.
I problemi sociali, economici e politici del popolo siriano sono al 100% legittimi. Però qual è il discorso, che se Saddam Hussein o Bashar Al-Assad non sono Che Guevara non vanno bene? L’imperialismo si concentra sugli stati secolari. Pensiamo a Nasser in Egitto. Il problema per l’occidente è il nazionalismo arabo. Gli Usa vogliono imporre una “democrazia coloniale” in Siria.
Io amo la Siria, quindi voglio che cambi. Ma un’opposizione degna di questo nome non può chiamare la Nato a intervenire, o Israele, o l’Arabia Saudita. La rivoluzione in Siria deve partire dal potere popolare, non dall’imperialismo. Assad ha lasciato alcune fette di terrirorio all’opposzione islamica, affinché la gente ne veda le conseguenze e torni a cercare protezione nello stato. Ora che il sangue è nelle strade, bisogna prendere posizione. La neutralità non è accettabile; e in questa situazione è assolutamente ovvio che bisogna schierarsi con il regime.
Non esistono soltanto gli islamisti e il regime. Esistono anche le Forze Siriane Democratiche, le Ypg-Ypj.
I curdi devono chiarire da che parte stanno. Le Ypg hanno compreso cosa dovevano fare solo quando Daesh lo ha reso palese, ma assumono un atteggiamento da Ong, “siamo per i diritti umani”, ecc. La verità è che anche nelle zone maggiormente opposte al regime ad essere contro il governo è magari il 30% della popolazione. La maggioranza ha dovuto emigrare dalle zone cadute in mano agli islamisti, e adesso quela popolazione è profuga a Latakia, Damasco, in Libano.
Ora, con la creazione delle Forze Siriane Democratiche, le Ypg stanno adottando una linea giusta, e non a caso sono supportate dal regime e dalla Russia. È vero che hanno anche stipulato un’alleanza con gli Usa, ma questo è normale, non è un problema.
Bisogna però comprendere il ruolo degli Usa. La guerra in Siria è una guerra del gas. Nel 2003 Colin Powell, dopo l’invasione dell’Iraq, andò a Damasco e disse ad Assad: “Cambia politica verso Israele, e nessuno ti toccherà”. Oggi Assad paga il prezzo di non essersi voluto piegare a quella minaccia.
Il rapporto tra palestinesi e curdi resta un problema. In tutti i campi profughi, qui in Palestina, troneggiano le immagini di Saddam, che sterminò migliaia di curdi. In Siria ai curdi è stata negata per decenni persino la cittadinanza, la carta d’identità.
Sono con i curdi nel cuore e sono contro qualsiasi forza, anche araba, che danneggia i curdi. Ma dobbiamo anche capire come la questione curda è legata all’imperialismo e di quali sono i leader dei curdi. Barzani trasforma il Kurdistan iracheno in una base Usa a cielo aperto, in un avamposto politico di Israele, e punta a dividere l’Iraq. Questo non è accettabile. Se i curdi vogliono dividere la Siria, in questo momento direi di no perchè sarebbe nell’interesse dell’imperialismo. È giusto prendere le armi, ma chiediamoci da chi. Fidel non chiese aiuto a Londra.
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