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Sette tesi sul mutamento climatico e il regime ecologico di accumulazione del capitale

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Da Connessioni Precarie

Con questo contributo interveniamo per la prima volta direttamente nel dibattito politico ampio e articolato sugli effetti sociali del mutamento climatico. Da molti anni i movimenti ambientalisti hanno fatto di questa problematica una questione politica fondamentale, ma probabilmente solo oggi è indiscutibile la presenza transnazionale di una generazione in rivolta che in questi giorni si sta organizzando in vista della Cop26 che si terrà a Glasgow nel mese di novembre. Non è un caso che il movimento che in questi anni ha dato vita allo sciopero globale per il clima sia composto prevalentemente da giovani: nella formula ‘giustizia climatica’ c’è la pretesa collettiva di non vedersi rubare il futuro e l’indisponibilità a piegarsi alle promesse di istituzioni scientifiche e politiche nazionali e internazionali ‒ alle quali pure gli stessi giovani si rivolgono ‒ che su quel futuro propongono e pianificano compromessi al ribasso. È d’altra parte evidente che non saranno quelle istituzioni a offrire una soluzione ai cambiamenti in atto, perché stanno già ricostruendo la propria legittimazione proprio in nome di una “transizione ecologica” orientata al profitto. La transizione verde si presenta allora come un campo di battaglia che non può essere praticato da una sola generazione, che ridefinisce i limiti e le possibilità dei movimenti sociali, che reclama in maniera inequivocabile una presa di posizione. Pensare che l’ecologia configuri un nuovo regime di accumulazione del capitale, e con esso una nuova governance ecologica, significa per noi cercare di determinare tanto le forme in cui si stanno riarticolando la produzione e riproduzione sociale di fronte al cambiamento climatico, quanto le linee di frattura lungo le quali è possibile praticare l’iniziativa politica. La difesa della natura non offre immediatamente una possibilità di ricomposizione delle molteplici figure che subiscono in modo diversi gli effetti del cambiamento climatico; al contrario, il modo di accumulazione ecologico produce e riproduce differenze e gerarchie che solcano lo spazio transnazionale che la generazione in rivolta chiama Terra. È in questo spazio e all’interno della transizione verde del capitale che si possono cogliere alcune indicazioni che il nostro ecologismo deve continuare a praticare collettivamente, per affermare con forza il rifiuto di sottostare alle condizioni poste dalle trasformazioni in corso.

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1) Viviamo in un regime ecologico di accumulazione del capitale, un campo di tensione in cui si producono lotte parziali, non una ricomposizione dell’universale umano

L’ecologia costituisce oggi un terreno di scontro irrinunciabile. Essa indica una costellazione di questioni globali che gravitano intorno all’adattamento degli Stati e del capitale a un clima in mutamento, e dunque anche la ricerca di una posizione critica e di parte all’altezza della trasformazione in corso. Con ‘ecologico’ intendiamo innanzitutto l’attributo specifico di un nuovo regime di accumulazione, e con ‘ecologiste’ quelle lotte che si producono al suo interno e ne mettono in tensione la pretesa universalistica.

Se ecologico è il nuovo regime di accumulazione del capitale, il nostro ecologismo non può limitarsi ad affermare una pretesa di libertà da raggiungere attraverso una rinnovata armonia con la natura depredata da secoli di conquiste del capitale. Il nostro ecologismo non può perciò fondarsi su un’idea normativa della natura come oggetto da salvare e preservare dalla violenza che l’uomo in generale, o il capitale in particolare, esercita su di essa. La messa a valore capitalistica della natura fa di essa un ‘campo di battaglia’, più che di ricomposizione. La natura non sfugge alla presa del capitale, ed è quindi presa in un rapporto instabile e in mutamento con il modo globale di produzione: la natura è collocata dentro un rapporto sociale di dominio. Perciò, dire che l’ecologia costituisce il campo di sperimentazione per nuove modalità di accumulazione del capitale impone di riconoscere che la transizione ecologica produrrà disuguaglianze e criticità, divisioni e gerarchie più che occasioni di unificazione e riconciliazione dell’umanità. Le diverse politiche ambientali all’ordine del giorno mostrano più di prima le molteplici differenze particolari che attraversano e costituiscono l’universale ecologico.

Se la transizione al regime ecologico di accumulazione produce disuguaglianze tra Stati, metropoli, singoli individui e condizioni lavorative allora essa è un elemento di codificazione del transnazionale come spazio gerarchico e di contesa: il processo attraverso cui il capitale tenta di costruire un ambiente verde funzionale alla sua riproduzione. Nel transnazionale ecologico gli Stati (e le Unioni di Stati) firmano accordi o si fanno la guerra per l’utilizzo di risorse, il cui controllo garantisce ingenti profitti; su questo terreno, dunque, si producono tensioni tra il piano generale di valorizzazione del capitale e la sua specifica dimensione ecologica. Il transnazionale ecologico è anche uno spazio in cui la finanza interviene per valorizzare i capitali con cui viene attuata la riconversione, o per rinsaldare direttamente meccanismi di coazione al lavoro e dipendenza dal comando capitalistico. L’adattamento al clima in mutamento è l’esito di lungo periodo della transizione, che ora pretende di imporre agli individui la disciplina necessaria per stare dentro quella stessa transizione. La naturalizzazione delle condizioni prevista da questo adattamento diventa così un momento fondamentale della riproduzione sociale su scala globale.

2) La scienza climatica non fonda la possibilità di un governo globale della transizione ecologica

Anche se è presa di mira da un’opinione scettica che non risparmia alcuna autorità scientifica, la scienza del clima si è dotata ormai da anni di strumenti e organi politici atti a sancirne un esteso campo di competenze disciplinari, tali da formulare un giudizio sulla direzione che la governance ecologica dovrebbe assumere. Il recente report dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) non ha rivoluzionato il campo del sapere climatico, ma ha mostrato il legame costitutivo tra la scienza e le condizioni politiche della sua produzione, ovvero come la scienza del clima sia oggi un elemento fondamentale del complesso processo di transizione verso un regime ecologico di accumulazione. Nonostante la transizione venga talvolta definita una ‘rivoluzione verde’, essa non determina alcuna radicale e repentina presa di distanza dagli antichi regimi di accumulazione, né dalla scienza che di quei regimi ha costituito una delle più manifeste condizioni di possibilità.

Dai finanziamenti alla ricerca di base ai maxi-esperimenti sulle nuove fonti di approvvigionamento di energia a basso costo, condotti dai grandi centri di ricerca pubblici e privati e finanziati in larga misura dalle multinazionali che operano nel settore, il mercato esprime un’elevata domanda di innovazione e competenze green che condiziona la produzione scientifica, imprimendole una precisa direzione politica. A dettare tale linea sono per lo più gli enti sovranazionali (con l’Unione Europea in prima linea) che intendono assicurarsi un posto privilegiato nelle geografie variabili del profitto, gettando le basi per un’accumulazione che non sarà omogenea, ordinata o rigidamente pianificabile, e che certamente non perderà il proprio carattere gerarchico. La transizione prescritta dalla scienza del clima non avviene ovunque allo stesso modo: ci sono industrie inquinanti da difendere, tempi lunghi di riconversione ed esigenze di valorizzazione che già ora dettano il tempo della metamorfosi verde del capitale. Se un coerente governo globale del clima non è dunque possibile, perché il capitale si muove sfruttando le molteplici differenze e disomogeneità che si danno sul piano transnazionale, la contesa per il monopolio della verità scientifica sul clima esprime l’esistenza di una tensione impossibile da sciogliere tra governi nazionali e istanze di governo globale.

La scienza del clima non è perciò un demone da esorcizzare, o una roccaforte da difendere; essa, d’altro canto, difficilmente può costituire quel sapere oracolare con cui legittimare una presa di posizione universale non rimandabile di fronte alla crisi ambientale. Dare battaglia sulla scienza significa dunque affermare la necessità di rovesciare le condizioni sociali che la rendono un elemento di riproduzione del capitale, impedendo una radicale innovazione della società. Si tratta perciò di determinare la possibilità di un uso di parte della scienza.

3) La finanza è un perno fondamentale del regime ecologico di accumulazione. Essa è un meccanismo di smaltimento dei problemi generali accumulati dal capitalismo

La finanza è uno strumento di adattamento capitalistico alla crisi che ha intaccato la tenuta fiscale degli Stati, dunque la loro sovranità nazionale. La finanza – compresa la sua colorazione verde – esprime una forza transnazionale che investe i territori nazionali compromettendo la possibilità di pensare la lotta ecologista come una somma di movimenti locali per la preservazione delle risorse territoriali. Dentro il regime ecologico di accumulazione ciò che accade nei singoli territori non dipende dai loro confini, e lì non si arresta. Insieme all’affermazione che la natura è il riferimento universale della lotta ecologista, cade perciò anche la possibilità di pensare la sua difesa come un momento strategico di rivitalizzazione della rappresentazione democratica nazionale. La critica della finanza verde impone di cogliere la dimensione transnazionale della crisi ecologica e guardare alle connessioni in essa possibili.

La scommessa finanziaria sulla profittabilità dei rischi ambientali non è semplicemente la risposta neoliberale al mutamento climatico, ma il volto di un cambiamento di regime indotto dalla crisi stessa. La governance ecologica riconosce la necessità dell’innovazione sulla base degli accresciuti rischi (dunque, plausibili costi) connessi con l’impresa. Mentre alcuni capi di Stato negano la realtà del cambiamento climatico per difendere alcuni settori industriali, il settore finanziario è stato il primo a cogliere l’opportunità di capitalizzare la crisi ambientale. Le merci assicurate generano capitale mediante un investimento anticipato sulla loro possibile distruzione. Il regime assicurativo neoliberale è stato negli ultimi dieci anni il motore e l’innesco del regime ecologico di accumulazione del capitale. Diversi strumenti ne costituiscono l’armamentario: cat bonds, carbon markets, weather derivatives, biodiversity banking.

4) Dentro il regime ecologico di accumulazione il lavoro migrante è cruciale per sostenere l’adattamento delle economie al mutamento climatico

Il governo dei migranti è un momento cruciale della governance ecologica, a sua volta agitata dalla fantasia di poter gestire il mutamento climatico come un gioco a somma zero e a geometrie di accumulazione variabili. Nei salotti buoni frequentati da insigni giuristi e legislatori si è dibattuto per anni sulla legittimità della categoria di ‘rifugiato ambientale’, poi superata dalla formula ‘migrante ambientale’ con cui adesso i sistemi giuridici occidentali inquadrano i migranti provenienti da zone rese inaccessibili da un disastro ambientale. Il problema della definizione non è dipeso semplicemente da una battaglia sui nomi, ma dalla necessità di stabilire quale diritto applicare a un migrante che proviene da una zona desertificata o allagata e, di conseguenza, che valore assegnare a quello stesso migrante.

Il governo delle migrazioni, come già annunciato nel recente patto europeo sulla migrazione e l’asilo, assume sempre di più il volto di uno scontro tra la pretesa libertà di movimento dei migranti e il tentativo di valorizzare la loro presenza dentro gli schemi di una mobilità irreggimentata. Dai recenti report pubblicati dall’International Organization for Migration sul rapporto tra migrazioni e mutamento climatico emerge l’intento di sistematizzare le opportunità di messa a valore del lavoro migrante che si apriranno dentro il mutamento del clima e delle condizioni di investimento del capitale che esso garantisce. Da un lato si riconosce che spesso sono gli interventi del capitale a produrre l’allontanamento di molti individui dai loro luoghi d’origine, dall’altro si sostiene la necessità di favorire le migrazioni di ritorno laddove la transizione ecologica richieda un lavoro skilled altrimenti irreperibile. Le risposte che l’IOM propone per la gestione dei ‘migranti ambientali’ sono in linea con la prospettiva generale di governo manageriale delle migrazioni, fatto di accordi tra macroregioni e massima flessibilità nella gestione dei flussi per permettere grande disinvoltura, dentro scenari mutevoli. L’obiettivo è la prevenzione dell’ingestibile portato autonomo delle migrazioni attraverso l’immaginazione dei migranti come asset del nuovo regime di accumulazione. La moltiplicazione delle figure giuridiche con cui i governi tentano di formalizzare l’accesso dei migranti al mercato del lavoro dimostra che il lavoro migrante produca una tensione interna al regime ecologico di accumulazione.

5) La transizione verso il regime ecologico di accumulazione produce un ambiente verde per il capitale

La crisi ambientale del capitale non può essere letta attraverso le categorie del limite fisico allo sviluppo. Il capitale non muore di morte naturale, ma trasforma le proprie condizioni di riproduzione includendovi l’elemento ecologico. Dentro questa trasformazione gli Stati sono continuamente messi a confronto con la loro insufficienza e ciò permette di individuare nel regime ecologico di accumulazione una spinta a portare la forma politica statale oltre se stessa, dunque alla prefigurazione e al rafforzamento delle strutture di comando sovranazionali.

Riqualificando il proprio ambiente per adattarlo a nuove opportunità di investimento, il regime ecologico di accumulazione codifica lo spazio transnazionale mutando con ciò anche l’organizzazione interna degli Stati. Il PNRR è precisamente questo: un piano nazionale incorniciato in un comando politico sovranazionale che ne detta il fine e ne garantisce le condizioni di possibile realizzazione. Per questo, la nostra critica della transizione – che è una transizione del capitale, dunque votata al profitto – non può arrestarsi alle soglie dei confini nazionali, ma è chiamata a misurarsi con la dimensione transnazionale dei capitali e degli snodi di governo del clima.

La missione 2 sulla rivoluzione verde e la transizione ecologica del PNRR mette al centro l’utilizzo di risorse alternative e il risparmio energetico, oltre che i ‘classici’ smaltimento rifiuti e riqualificazione edilizia. Stiamo parlando di chiare strategie di adattamento alla crisi, non di un suo mitigamento. Nel caso italiano, il nodo fondamentale riguarda le infrastrutture energetiche e i costi di formazione per disporre di una forza lavoro verde. Anche in quei settori dove esistono già le tecnologie necessarie e il prodotto innovativo è pronto per essere immesso nel mercato, mancano le condizioni ‘ambientali’ che lo rendano possibile: infrastrutture e forza lavoro qualificata. Da questo punto di vista, la transizione segnala l’obsolescenza di una certa forma dello Stato come organizzatore politico dell’accumulazione, ma anche di certe imprese che non potendo transitare verso nuove forme competitive di valorizzazione del capitale, rimarranno al palo. Come ogni regime di accumulazione, anche quello ecologico si avvale di specifiche forme di coazione e messa al lavoro di milioni di individui, uomini e donne, nella produzione e riproduzione sociale: questi saranno gli elementi costitutivi dell’ambiente verde del capitale, e della sua contestazione materiale.

6) Il regime ecologico di accumulazione mette a valore le vecchie gerarchie e ne produce di nuove: gli investimenti e i rapporti tra l’Europa verde e i suoi confini

Nonostante si presenti con le vesti dell’universale necessità, il regime ecologico di accumulazione si muove dentro uno spazio politico gerarchico in cui si danno conflitti o accordi tra Stati e attori sovranazionali per l’appropriazione delle risorse necessarie alla transizione verde. Il rapporto tra l’Europa e i suoi confini orientali sia interni, sia esterni, è la prova dell’esistenza di un problema di riproduzione delle antiche gerarchie, e di affermazione di nuove. Mentre serve a cogliere l’opportunità di messa a valore di capitali e risorse dentro il regime ecologico, il Meccanismo per una transizione giusta voluto dall’UE per facilitare la transizione green dei paesi dell’Est rappresenta il volto necessariamente ideologico della transizione ecologica. Essa è presentata come un imperativo giusto in sé e capace di farsi carico delle differenze che incontra lungo il suo cammino; nel mentre, il meccanismo di governo approntato dall’Unione elargisce bonus per accelerare la sincronizzazione dell’economia orientale a carbone con le necessità di innovazione del resto del continente.

Gli obiettivi del Green New Deal – neutralità climatica entro il 2050 –, di cui poi il programma Fit for 55 per la riduzione delle emissioni entro il 2030 descrive i primi contenuti materiali, devono essere protetti dalla possibile concorrenza ‘sleale’ di chi possiede risorse dal grande costo ecologico, ma economicamente vantaggiose. Così si spiega la corsa all’imposizione di dazi sull’importazione di materie prime dall’Est che, se lasciate libere di circolare, rallenterebbero il cammino della transizione verde. Perciò i maggiori tentennamenti nei confronti del grande piano a firma Von der Leyen provengono da quei paesi il cui settore energetico ruota maggiormente intorno al carbone (come la Polonia), o di esso importano grandi quantità (Italia, e non solo).

Il Green Deal ucraino, come quello polacco, non prevede particolari misure di tutela sociale dentro la transizione verso il nuovo regime ecologico di accumulazione. La priorità allo sviluppo energetico – basato su privatizzazione e liberalizzazione – produrrà costi proibitivi per la maggior parte della popolazione e tempi di transizione ben lontani da quelli dell’Europa centrale. La Polonia prevede di chiudere la sua ultima miniera di carbone nel 2049, l’Ucraina nel 2035, mentre la Bulgaria non ha ancora avuto accesso ai fondi del Recovery proprio perché incapace di mettere una data di scadenza sulla sua produzione mineraria.

Tra l’Unione e i suoi confini orientali ci sono rapporti di cooperazione e tensione attraversati da molteplici linee di divisione che necessariamente emergono quando dal piano del valore universale dell’ecologico, si passa a quello delle policies e della distribuzione ineguale delle risorse e dell’accesso a esse.

7) Il regime ecologico è l’occasione per uno sfruttamento differenziato delle risorse: una nuova Scramble for Africa

La transizione verso il regime ecologico di accumulazione mette a disposizione i capitali necessari al superamento della crisi generale di accumulazione, ovvero si propone come soluzione dei problemi pratici di organizzazione del capitale esplosi con la crisi del 2008. Ciò significa che, mentre punta a risolvere il problema ambientale, la transizione provvede alla regolamentazione delle risorse necessarie alla valorizzazione del capitale in generale. Grazie al ricorso a capitali ecologici, il capitalismo rimane fossile in ampie zone del mondo. Il nostro ecologismo deve fare i conti con questa strutturale differenza che determina il posizionamento di milioni di uomini e donne in luoghi diversi del mondo. Il regime ecologico di accumulazione si sta già dotando dei meccanismi amministrativi e di governo necessari all’integrazione di momenti diversi della produzione dentro il mercato verde, ma questa integrazione non implicherà alcuna progressiva omogeneizzazione delle condizioni di lavoro e produzione.

All’interno di questo governance ecologica globale il Green New Deal europeo è pensato ed esportato in Africa con l’obiettivo di creare nuove opportunità per l’Europa di investimenti economici innovativi e di allargare i bacini di accesso al suo mercato. Finanziando l’innovazione sostenibile della produzione industriale e agricola africana, l’UE sfrutta il costo del lavoro bassissimo per rendere la produzione africana commercializzabile in Europa perché idonea ai suoi canoni ecologici. Non a caso, l’Unione africana ha più volte richiesto di esentare le esportazioni dei paesi meno sviluppati dal meccanismo di aggiustamento alle frontiere per il carbonio.

In nome della transizione muta il governo delle risorse africane da parte dell’Europa, ora ottenibili previo finanziamento green concesso all’UA. Questi finanziamenti ecologici, di fatto, estendono i confini dell’influenza dell’UE ben oltre il Mediterraneo, riorganizzando processi e modalità di produzione che prima gli erano inaccessibili: amministrazione, agricoltura, finanza.

Molti degli obiettivi del Green Deal dell’UA sono compatibili con gli interessi delle imprese e il settore privato può diventare un veicolo per la cooperazione verde UA-UE. Un business in cui le opportunità commerciali provengono per lo più dallo sfruttamento privato delle fonti di energia rinnovabile presenti sul suolo africano, da portare a termine a spese di chi dall’agricoltura trae la propria sussistenza. Come avviene in altre zone in via di innovazione, l’adattamento alla produzione agricola verde significherà innanzitutto introduzione di grandi capitali ed espulsione di molti dalla produzione. Nell’India di Modi, per esempio, l’ecologia è stato il valore universale in nome del quale mettere l’ennesimo puntello al processo di trasformazione neoliberale del tessuto sociale e produttivo del paese, l’approdo di anni di riforme che hanno preparato il campo all’innesto dei capitali verdi che oggi precludono a milioni di indiani l’accesso ai terreni coltivabili. Lo sciopero dei contadini del 2020, pur non costituendo un paradigma delle future composizioni di classe sotto il comando del capitale ecologico, ci pone da questo punto di vista il problema dell’avanzamento di un universale ecologico di parte.

 

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