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Il passaporto vaccinale e l’incognita dei conflitti. Alcune note polemiche a partire da uno scritto di Valérie Gérard.

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di Michele Garau per Qui e Ora

Intervenire sulle recenti mobilitazioni contro il passaporto sanitario, e di rimando sulla questione della campagna vaccinale, è un’incombenza davvero ingrata. Il rischio di trovarsi catturati nella morsa schiacciante di un dispositivo binario, dove le posizioni risultano polarizzate in una secca alternativa senza uscita, è molto alto. La recente pubblicazione, su Qui e ora1, di alcune note scritte da Valérie Gérard, in cui si denuncia l’impianto intrinsecamente reazionario e la base antropologica «ultraliberale» del movimento di protesta che si è dato in Francia, mi ha spinto a cercare di elaborare un parziale punto di vista. La lettura di queste righe mi ha un po’ forzato a formulare delle impressioni che non avevo intenzione di mettere per iscritto, sia per il loro grado di confusione e lacunosità, sia perché mi pare che l’intero dibattito in seno al mondo «antagonista» – nonostante alcuni scritti dall’indubbio interesse teorico – sia pesantemente viziato da questa ansia di posizionarsi unilateralmente su un piano di discorso in cui i livelli più diversi (sanitario, tecnico, politico ed epistemologico) collassano l’uno sull’altro. A questi livelli si interseca inoltre l’approccio, perfettamente legittimo, della valutazione strategica sulle potenzialità conflittuali delle proteste in corso.

Tale valutazione, accompagnata a pretese più o meno decise di «intervento», che nel loro complesso restano virtuali, rende i termini dell’analisi ancora più opachi. Le osservazioni seguenti partono quindi, innanzitutto, da una consapevole inadeguatezza rispetto alla portata del problema, – con un certo senso di spaesamento e di invidia verso tutte le granitiche certezze che ci sono in giro – ma anche dalla necessità di fare alcune puntualizzazioni «in negativo» rispetto a quelle che mi paiono delle incomprensioni e dei passi falsi. Il primo fattore di disagio è infatti quello di uno scarto epistemologico: sembra che la critica della gestione emergenziale dal punto di vista politico non possa evitare di misurarsi con un ordine di questioni che riguardano invece il terreno della medicina e della razionalità scientifica2. In altre parole si scade, e forse non lo si può evitare del tutto, nello slittamento che Foucault rimproverava a Ivan Illich3 e in generale ai movimenti di critica della medicina: quello di contrastare una formazione di sapere assumendone il linguaggio e le categorie, immettendosi nel suo campo di interrogativi e competenza tecniche. È possibile schivare questo rischio? È accettabile individuare un campo di battaglia nel progetto di manipolazione e mappatura del vivente, di raccolta di dati biologici e quadrillage poliziesco che il dispositivo del passaporto vaccinale porta con sé, senza per questo entrare nel merito dell’efficacia sanitaria del vaccino, ma soprattutto delle alternative più o meno credibili al suo utilizzo? È legittimo criticare il modo in cui l’emergenza è stata affrontata, compreso il perseguimento della campagna vaccinale come assoluta panacea, l’ospedalizzazione sistematica a discapito di qualsiasi cura domiciliare, senza perdere la lucidità rispetto alle dimensioni del problema? Si può, inoltre, guardare con interesse al conflitto sul passaporto sanitario in termini politici, di sintomo epistemologico e di rifiuto della presa delle istituzioni, mediche ed economiche, sui corpi, andando oltre il linguaggio della medicina? È abbastanza chiaro che un atteggiamento di questo tipo appaia laterale, meno efficace e spendibile dell’assumere in modo netto le insegne di uno schieramento in campo, portandolo fino alle estreme conseguenze.

L’articolo di Gérard propone invece un criterio alternativo di definizione delle appartenenze, un altro prisma per tracciare linee di convergenza e divisione: quello dell’affinità e delle «forme di vita», dell’intesa tra le visioni dell’esistenza che accomunano una certa parte in lotta. Il fondo antropologico sarebbe la lente tramite cui guardare al guazzabuglio degli avvenimenti e scegliere dove schierarsi, insomma. Fin dalle prime righe, infatti, l’autrice si esime da ogni pronunciamento riguardo al vaccino, ma anche al passaporto vaccinale, alle misure di contenimento e controllo, alla violenta torsione repressiva che hanno assunto sul territorio francese, volgendosi ad esempio, a suon di lacrimogeni ed LBD, contro le feste di strada. Non è un medico, dice, e si fida della medicina, il resto va da sé. Dove si situino ministri, compagnie farmaceutiche ed organismi internazionali di governo, in questo quadro, non è dato sapere. Ci si limita a delineare una complementarità tra il fonte contro il green pass e l’operato di Macron, che sarebbe stato troppo esitante nel tradurre in misure adeguate le evidenze scientifiche sul virus, nel promuovere le chiusure e poi la campagna vaccinale.

Da simili presupposti, per quanto mi riguarda, nascono tutti i problemi che ci sono nel testo, che non sono pochi. Questa premessa mi consente di dire che anche una distinzione pregiudiziale, totale e senza residui, tra il campo politico e quello della razionalità scientifica, non è desiderabile. Soprattutto dove questa separazione si traduca in una ratifica dei paradigmi scientifici dominanti come dogma inscalfibile da tenere sullo sfondo. Bisogna forse attenersi al carattere di provvisorietà e frammentazione inevitabile che nodi del genere ci presentano davanti agli occhi, rassegnandoci al registro balbettante che abbiamo a disposizione. Non pretendere di avere soluzioni esaustive (che sono piuttosto enormi abbagli) su un complesso di tecniche, registri scientifici e apparati la cui complessità non può che sfuggire da ogni parte, ma neanche rinunciare in nome di un principio generico di competenza a mettere in discussione quello che avviene sulle nostre teste. Formulare quindi una critica che faccia incursione nella politicità intrinseca, negli aspetti di decisione, strategia e comando che sono consustanziali alla razionalità scientifica, alla natura di «istituzione» che sempre ne avviluppa il preteso nucleo oggettivo, senza per questo disconoscere quanto la scienza monopolizza, in termini di effettiva competenza e capacità di posizione dei problemi, rispetto ad un punto di vista comune.

Quello che qui mi interessa è però, principalmente, seguire l’autrice dell’articolo sul terreno da lei scelto: quello dell’etica, dell’idea di libertà e dell’orizzonte di vita quali prismi attraverso cui valutare un movimento di lotta oppure, come si è detto, un «non movimento»4. Il modo con cui il fattore dell’affinità etica viene impostato, a mio parere grossolano ed urtante, mi consente infatti di chiarire un paio di cose che esulano dalle mobilitazioni contro il green pass per come si sono svolte fino ad ora. Un altro punto che mi viene in soccorso nel condurre il ragionamento è l’obiettivo pratico principale che sembra animare l’autrice: quello di evidenziare un divario incolmabile tra la sequenza dei gilets jaunes e le recenti proteste.

Se il mondo della «sinistra» e il «campo dell’emancipazione» – espressioni a cui, sia detto per inciso, guardo con schifo, nella forma e nella sostanza – hanno trovato validi appigli e punti di incontro nei legami di solidarietà tessuti sui ronds points e durante le assemblee popolari, tra gli oppositori al passaporto vaccinale saremmo invece in un altro lessico, in tutt’altra idea di mondo e addirittura in mezzo ad un’altra umanità. Fermo restando che un confronto tra i due fenomeni non ha di per sé molto senso, la diagnosi tradisce una percezione dei gilets jaunes piuttosto fantasiosa: si può chiedere ai compagni che hanno frequentato fin dall’inizio i blocchi e i ronds points, nel 2018, se fossero presenti o meno forme larvate di «cospirazionismo», se vi fossero estimatori di Soral e Dieudonné, se i meccanismi di identificazione del «nemico sociale» contenessero o meno rischi di scadere in un linguaggio antisemita.

Si può verificare se le stesse frazioni di estrema destra non abbiano tentato di seminare, fin dal principio, anche in quel campo. Seguire questa linea sarebbe però sviante ed eluderebbe il vero problema, ma mi permetto di aggiungere che lo stesso spregio saccente ed un po’ classista verso i «soggetti» della protesta, in quanto tali, aveva attraversato il beato mondo della sinistra, in Francia ed in Italia, anche verso gli embrioni del «momento giallo». Non sono convinto, lo dico con chiarezza, che i due fenomeni siano sovrapponibili, né credo che da queste manifestazioni (per quanto poco mi entusiasmino i ridicoli vezzi previsionali che muovono certi marxisti) verrà fuori una scossa sociale potente. Non penso che la complessità del problema si presti a innescare un movimento di lungo respiro, ma spero di sbagliarmi. Ciò che invece si può senz’altro sovrapporre è la composizione soggettiva dei due movimenti, il fatto che in gran parte il profilo delle persone che scendono in strada sia lo stesso, con la medesima costituzione antropologica «ultraliberale» ed un’analoga e spuria visione del mondo. Non si tratta di rimanere abbacinati da qualsiasi cosa si muova per le strade, di salutare in ogni blocco stradale e resistenza ad una carica un incombente divenire rivoluzionario, ma di mantenere fermi alcuni assunti teorici e, soprattutto, esperienziali: quello che il gilets jaunes ci hanno mostrato, insieme ad altre lotte ma ad un grado senza precedenti, è che un conflitto non si giudica dagli enunciati iniziali dei suoi soggetti, dalla loro identità. Un principio metodologico semplice che è soggetto a brusche oscillazioni e non fornisce garanzie, quello di privilegiare il divenire degli eventi rispetto alla sostanza dei ruoli, delle etichette, del calcolo sociometrico. Tra l’Italia e la Francia ci sono senza dubbio enormi scarti, e magari la diffusione di idee apertamente reazionarie nelle proteste francesi che l’autrice paventa (con lo spettro inquietante e odioso dell’antisemitismo) avrà la completa egemonia, non posso dirlo. C’è sempre il rischio, in casi del genere, di essere travolti dal fango. Ma nella misura in cui le ragioni dello scontro hanno degli elementi di verità, in cui si riconosce nella mappatura biologica, nella riduzione dei corpi a «fondo» e a collettore di dati, un tassello importante in un progetto occidentale di riduzione del mondo5, ci si può permettere di squalificare tali verità con un giudizio «antropologico»?

Ancora più singolare è l’applicazione di questo bizzarro principio affinitario sul versante opposto, in cui si potrebbe finalmente trovare una comunanza di affetti ed idee orientata alla solidarietà e al rispetto del «contratto sociale» (sic). Bisogna appunto essere persone di sinistra per ritenere che la solidarietà sia il fattore precipuo che muove i sostenitori della campagna vaccinale e del green pass, e non invece un desiderio, altrettanto «ultraliberale» e profondamente «cittadino», di riprendere il ciclo ordinario di consumo, intrattenimento e lavoro. Ma poi, esattamente, a chi si ha il piacere di affiancarsi in questo caso? I «nostri» chi sarebbero? Governi e generali della NATO? Apprendisti stregoni delle biotecnologie e responsabili delle case farmaceutiche? Ma… In quanto al progetto di difendere o ricucire il legame sociale, resto convinto che il gioco delle forme di vita, il loro conflitto e la loro composizione come sola essenza di un agire etico, passi dalla sua distruzione e frammentazione. Ma tant’è. Quello che però mi preme ribadire è che una promessa di secessione e di uscita dalle nostre condizioni di vita, dalla civiltà esistente, l’ipotesi di un fuori esistenziale e politico, non lo si può intravvedere da nessun’altra parte che in desideri e immaginari che sono, da principio, «ultraliberali». L’elaborazione di un tipo di «libertà comunista», irriducibilmente altra dal presente, non sta in nessun’osservanza della responsabilità sociale, in nessun piegarsi in sacrificio alla collettività come norma universale, secondo i bizzarri rigurgiti socialisti di quei compagni che delirano di vaccini come «bene comune» o atto d’amore verso la comunità. È proprio vero che di fronte ai rovesci della realtà anche le più inveterate convinzioni sono messe alla prova, o forse emerge quello che già era lì, solo nascosto…

Mi pare invece che bloccare una strada, fare una manifestazione selvaggia e scontrarsi con la polizia, anche solo per chiedere di tornare alla vita di prima, per rivendicare la mera ed individualistica riproduzione materiale – tra lavoro e consumo – sia comunque una condizione per esperienze più vive ed autentiche della semplice obbedienza. Nelle piazze che si sono incendiate contro il primo lockdown si agitava, a parole, poco più di questo. Uguali le presenze politiche più disprezzabili e non maggiore il rispetto del “patto sociale”: forse che di per sé l’istanza delle aperture avesse la dignità di un programma da generalizzare? O che la parzialità unilaterale delle richieste non rasentasse l’egoismo? Come si è già detto gli incontri oltre il significato e le solidarietà inaspettate che hanno caratterizzato la parabola dei gilets jaunes sono partiti da una rivendicazione altrettanto antisociale, «irresponsabile» e particolaristica. Persino i sociologi, infine, si sono accorti che i saccheggi, la violenza distruttiva sans phrases e il desiderio di merci, nelle molte banlieues di questo mondo, racchiudono sempre la minaccia di una forza anonima che mina il legame sociale. L’estrema ambiguità delle rivolte urbane cova dentro il “processo di civilizzazione” riproducendone gesti e simboli, liberando impulsi interni al quadro della società esistente, i cui freni saltano per un momento:

“L’oscuro spettacolo delle rivolte del 2011 aveva un aspetto stranamente conformista, e il focus sul saccheggio dei beni di consumo indica l’enorme potere dell’immaginario consumistico e l’uniformità ideologica del periodo neoliberale contemporaneo. Quelli che si sono rivoltati non erano gruppi politicizzati che lottavano per un mondo più giusto ed equo. Non hanno fatto richieste a chi era al potere, e non erano in possesso di una visione ideologica di un percorso storico nuovo e progressivo. Consapevolmente, non volevano cambiare nulla. Erano sussunti dall’avventura esperienziale della rivolta e, per quanto riguarda i saccheggi, volevano quello che potevano. Inconsciamente, volevano cambiare tutto ciò che riguardava il loro essere-nel-mondo”.6

Perfino i sociologi, ed è tutto dire, colgono qualcosa di questa antinomia. Ancora una volta occorre ribadire che gli abitanti dell’odierna metropoli, quelli che sono stati definiti i «Bloom», oscillano tra l’agape e lo sterminio di massa, la rassegnazione nichilista e una promessa di comunismo. Per quanto sia difficile cogliere la traccia di una tale promessa, è sempre bene tenere a mente che nessuna nuova idea di libertà verrà impressa dall’esterno a questa condizione. Mentre cortei selvaggi e disordini estemporanei animano le strade della mia città, mentre ministri ed organi di informazione agitano minacce estremistiche, convocano il pericolo terroristico per un tirapugni ed il cazzotto (sacrosanto) ad un giornalista, mi pare che l’ultima cosa da fare sia tracciare le linee sbagliate. Ammettere di balbettare, di essere interdetti di fronte alla realtà e di faticare a prendere posizioni chiare, come mostrano queste righe scritte malvolentieri, mi sembra una migliore soluzione. E se in questa confusione le linea che delimita un punto credibile da cui pensare e attaccare non è stata forse ancora disegnata, è certo che passerà più probabilmente tra i farfugliamenti inarticolati dei tumulti, con tutti i loro pericoli e le loro scorie (anche con i loro deliri) che in mezzo alla tiepida saggezza di chi resta ben allineato.

1 Qui il testo completo in formato digitale: https://www.editions-mf.com/produit/108/9782378040420/tracer-des-lignes, mentre su Qui e ora sono state tradotte solo alcune parti.

2 È il caso, ad esempio, di alcuni degli articoli usciti sul sito Il Rovescio, che contengono anche osservazioni teoriche puntuali e giuste obiezioni di merito riguardo alla gestione dell’emergenza pandemica. Il problema su cui scivolano, a parere di chi scrive, è la pretesa di individuare nelle cure domiciliari e alternative – e più specificamente nell’uso dell’idrossiclorichina – un’alternativa generalizzabile alla campagna vaccinale. Dalla critica agli aspetti securitari e biopolitici si avanza quindi non solo, cosa che sarebbe di per sé accettabile, ad un discorso sui presupposti strategici e sugli interessi politici che muovono la razionalità medica, l’uso dei vaccini, l’idea di salute e il portato di manipolazione del vivente che la proposta di un passaporto vaccinale contiene, ma ci si spinge a proporre o adombrare una proposta positiva che ben poco permette di intravvedere come valida.

3 M. FOUCAULT, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina? (1976), in Il filosofo militante: Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 202-219.

4 Mi riferisco all’articolo di Temps Critiques dal titolo Les manifestations contre le passe sanitaire: un non-mouvement? In rete: http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article500, ripreso da Lundi Matin. La categoria è stata introdotta da Asef Bayat per riferirsi principalmente alle primavere arabe. Vedi Revolution without revolutionaries. Making sense of the Arab Spring, Stanford, Stanford University Press, 2017.

5 L’immunité, l’exception, la mort. Penser ce qui nous arrive avec Vilém Flusser, in rete: https://lundi.am/L-immunite-l-exception-la-mort-4-4.

6 S. WINLOW, S. HALL, Gone shopping: Inarticulate politics in the English riots of 2011, in D. BRIGGS, The English riots of 2011: a summer of discontent, London, Waterside press, 2012, pp. 149-168: p. 153.

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