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Firenze: Un grido senza parole

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Sono le nove, e chi si avvicina a piazza della Signoria trova una piazza blindata, sigillata dai reparti antisommossa. Tutto attorno ci sono le vetrine dei negozi del lusso barricati da pannelli di legno per l’occasione. E’ da tre giorni che sui giorni non si fa che parlare dell’incubo incidenti e vetrine rotte. Come a Napoli, come a Torino, come a Milano. Come a “Gucci”. Questa volta dall’alto non ci sono gli appelli alla protesta civile e pacifica: la manifestazione è stata dichiarata direttamente “illegale” dopo la riunione del comitato per l’ordine pubblico in Prefettura. Gli appelli che vengono dalla politica e dalle istituzioni è di stare a casa: “sarà tollerenza zero”.

Il prequel è noto: l’appello a scendere in piazza è girato freneticamente su whatsapp dalle prime ore successive agli scontri di Torino, bucando tutte le “bolle” e i perimetri del socialnetwork. Il messaggio è arrivato a tutti, e tutti ne parlano. Nel messaggio si parla di una “protesta pacifica”, ma poco importa. Il messaggio è anonimo. La manifestazione non è comunicata alla Questura. Non ci sono “responsabili”, né “referenti”. E bastava entrare in un bar per capire che in tanti volevano esserci.

Paura. Si leggeva questo nelle parole delle istituzioni di questi giorni. La paura che anche qui la realtà di una società in tensione si svelasse nelle strade. Ma non è stato solo questo. E’ stato anche (e forse soprattutto) la scelta di scommettere sulla criminalizzazione e la perimetrazione preventiva dell’evento con narrazioni preconfezionate fatte di fascisti, violenza e devastazioni “che nulla hanno a che fare con la legittima protesta delle categorie colpite da questa crisi”.

Scommessa persa. E questo è il primo, straordinario fatto. La gente in strada è scesa, e tanta. Sicuramente “troppa” per chi aveva scommesso in quel senso. L’impressione, al contrario, è che questa scommessa da molti sia stata vissuta come un sfida. Una sfida da accettare.

Di chi stiamo parlando? In strada ci sono tante persone diverse. Lo si vede da subito nei capannelli che iniziano a ronzare intorno agli sbarramenti di piazza della Signoria. Ci sono i commercianti che hanno riempito il pavimento del loggiato del porcellino di cartelli fatti a pennarello. Tanti passano ma pochi se ne interessano. Il dresscode di chi è in strada va dal ceto medio alla periferia e passa per lo studente universitario di sinistra. Ci sono i ragazzi del parchino, gli studenti del professionale e pure quelli del liceo del centro, le facce un po’ invecchiate dell’onda, i bottegai del centro, la gente dello stadio, un po’ di quarantenni che potrebbero essere usciti da una cena al ristorante dopo lo shopping se non fosse tutto chiuso.

Gira la voce che in tanti si stanno concentrando in piazza Duomo. Una donna con un piccolo megafono prova a unire appelli all’unità con appelli alla calma. Viene contestata. Il piccolo megafono passa in mano di un uomo, destinato alla stessa sorte. In realtà, è quasi impossibile capire cosa provano a dire. I cartelli si contano sulle dita di una mano. Su uno, un po’ più grande degli altri, c’è scritto “non vogliamo la carità dello stato, vogliamo lavorare”. Chi lo tiene in mano viene contestato da un capannello: “ma cosa dici? devono cacciare i soldi”.

La storia agitata dai giornali delle infiltrazioni di estremisti di destra e di sinistra, in piazza duomo va in scena solo nella forma del grottesco. A destra un gruppo di fascisti cerca con quale coro di dare le sue parole alla protesta. A sinistra i militanti di uno dei tanti microscopici partiti comunisti fa la stessa cosa. Nessuno espone simboli né bandiere, ma la cosa è chiara a tutti. Il ronzio in piazza si può riassumere così: “eccoli… ora fanno a gara tra destra e sinistra”. E’ una scena che viene vissuta tra l’imbarazzo e la seccatura dai più. Quando un altro gruppo di fascisti si palesa con uno striscione tricolore viene gentilmente allontanato dalla piazza.

Colpisce il fatto che neanche il grido “libertà! libertà!” appassiona molti. Lo si sentirà poche volte e debole. La piazza per lo più non canta in coro, ronza. Non lancia invettive e non produce nemmeno comizi improvvisati davanti alle telecamere in diretta. A fare rumore è il ronzio dei capannelli, che altro non sono che i gruppi di amici che hanno scelto di scendere insieme in piazza. Si discute, si commenta, ci si chiede cosa fare. Se si ascolta lì dentro, si scopre che le parole ci sono e sono parole di rabbia che svelano quanto meno la convinzione di subire ingiustizie incredibili di cui non si vuole più essere vittime… e che stasera deve succedere qualcosa.

Alla fine l’empasse lo rompe un gruppo di ragazzi intorno ai sedici anni, dicendo l’unica cosa che la maggioranza di quella piazza avrebbe voluto dire: andiamo in Signoria. Loro fanno il primo passo e tutti li seguono. La maggioranza di loro sono figli di immigrati.

Duecento metri e partono i primi scontri su via Calzaioli, dove i reparti bloccano l’ingresso alla piazza. Il breve corteo, intanto, ha raccolto molti dei capannelli che continuavano ad essere dispersi tra le varie strade che collegano duomo e signoria. Sono più di mille, forse duemila. Sono tanti, riconoscibili, i gruppi di ragazzi venuti aspettando questo momento, si vedono sbucare da tutte le vie. Quando parte la prima carica, la testa che si ricompone è una testa giovane e giovanissima con il marchio delle periferie e una forte presenza di accenti e colori della pelle delle seconde e prime generazioni di migranti. Africani, maghrebini, latinos, albanesi, bengalesi. La polizia carica e spara i lacrimogeni. La piazza risponde lanciando di tutto. Via Calzaioli, Piazza della Repubblica, Piazza Strozzi, Santa Maria Novella. E da molte altre parte che è difficile dirle tutte. E’ un lungo scontro, un tumulto, che prende piede nelle piazza e nelle reti di vie e viuzze del centro storico. Lanci, cariche, lacrimogeni. Si va indietro e poi si torna avanti verso i reparti. I nemici per la piazza sono loro.

Non era mai successo. E’ come se in questa crisi covid, in una notte, Firenze abbia scoperto di essere diventata perfino lei una piccola Parigi. L’umanità della periferia che coglie l’occasione per farsi spazio nel centro dei ricchi, delle vetrine di lusso, dei ristoranti costosi, degli alberghi per gli stranieri con i soldi. Lo fa a modo suo, con una naturalezza che dà l’idea che sia l’ennesima volta. E’ una rivolta, tutto sommato, ordinata e serena: non sembra esserci l’idea di star facendo qualcosa di incredibile, ma semplicemente di partecipare a ciò che è natura, legittimo e scontato che in questo momento avvenga. Come se un istinto di rivolta si fosse attrezzato di alcuni saperi impianti nel dna sociale di questo proletariato metropolitano. Invece è la prima volta che Firenze fa i conti con le sue periferie sociali, con i suoi figli bastardi senza cittadinanza e i loro amici. Forse anche stavolta, come dopo Torino, il meglio che si troverà sulle righe dei giornali ci parlerà di una disagio “esistenziale” da distinguere dalle ragioni sociali della protesta. Come se non fosse l’intera esistenza anche di questi ragazzi tutta segnata da un appartenenza di classe. La scuola che boccia, la vita in case piccole nelle periferie, i lavori di merda dove si deve dare troppo per troppo poco, l’assenza di soldi, la disoccupazione, la polizia come problema costante, i documenti. Per altri è il lavoro perso con cui a fatica ci si pagava la stanza in affitto o ci si pagava gli studi in università. Per altri è il peso dell’indebitamento. E la varietà della piazza non ci permette di esplorare tutte le sue biografie.

Fatto sta che anche a Firenze questo giovane proletariato metropolitano non ha perso l’occasione di tuffarsi nello spazio aperto dalla spinta dei piccoli esercenti ridotti al lastrico dall’emergenza. Quello che accomuna tutti è una profonda sfiducia verso le istituzioni e un senso di estraneità verso di queste.

Fino a mezzanotte gli scontri proseguono ininterrotti. Fatta eccezione per qualche coro contro la polizia, la piazza è un grido senza parole. Perchè le parole questa rabbia non le ha trovate ancora. Ma non avere parole, e tanto meno comuni, non vuol dire non avere ragioni. E le ragioni basta leggerle sulle facce che fanno avanti e indietro per affrontare la polizia, e ascoltarle sulle labbra di chi resta a riprendersi dai gas nelle retrovie.

La realtà è che non c’è slogan che riesca a rappresentare questo magma in ebollizione. Non è la piazza di “libertà, libertà”, che ha dato voce alla protesta anti-lockdown con venature negazioniste a fronte dell’emergenza sanitaria. Non è neanche la piazza del “tu ci chiudi, tu ci paghi”, perchè la complessità della composizione della piazza fortemente eccedente quella dei piccoli esercenti non può farla propria. Chi ha provato a parlare sopra alla piazza, portando ad appiccicarci sopra le proprie parole dall’esterno, ha avuto prova della sua irrilevanza e fatto raccolta di antipatie. La realtà è che solo per questi l’assenza di parole è un problema da piegare in occasione per la coltivazione di ambizioni politiche costruite tutte nell’estraneità a ciò che si sta mettendo in movimento. Più che un problema, invece, questa resta semplicemente una realtà. Una realtà che non ci parla di un vuoto (di “contenuti”, di “rivendicazioni” ecc), ma di una ricchezza, di una profondità e anche della varietà delle fratture sociali che si stanno dispiegando nella seconda ondata di crisi covid. Per chi è sceso in piazza la sensazione è che l’importante ad oggi sia far sentire un grido, anche e soprattutto con il linguaggio dei comportamenti. Non c’è fretta, dopo tutto è solo l’inizio. E l’importante è iniziare.

E ai nostri occhi la rivolta di Firenze restituisce l’immagine di una società in tensione, dove sempre più fratture attraversano contesti, mondi e composizioni diverse. Alcune (ma non tutte!) di queste fratture si sono condensate nella forma della rivolta anche a Firenze. Ma più che di una fotografia, per osservare e renderci conto della realtà di una società in tensione, probabilmente abbiamo bisogno di provare a guardarne tante tutte insieme. Un puzzle? Forse, ma tenendo conto che nella realtà i singoli tasselli non si appiccicano tra loro se noi dall’esterno facciamo forza su alcuni punti di congiuntura. La ricomposizione può essere solo un fatto processuale, che passa da lotte e movimenti e non una precondizione. Ad ogni modo possiamo già così osservare per un attimo lo spettacolo di una riproduzione capitalistica in crisi: la rabbia delle periferie, la violenta proletarizzazione degli esercenti, le contraddizioni esplose nel lavoro di cura e ospedaliero, le tensioni nel mondo produttivo tra ristrutturazioni violente alle porte e prime spinte al conflitto e agli scioperi, le scuole, le famiglie, le case.

Sul tram durante il ritorno verso casa un ragazzo nero parla con il suo amico. “Il fatto è che chi è ricco non è che ce l’ha fatta. E’ nato ricco. Loro sono come le ostriche. Sai? Le ostriche non fanno nulla. Stano lì e prendono tutto dal mare. Noi ci possiamo fare il culo tutta la vita ma non abbiamo niente”.

Le parole sono qui. Sul bus, nel parchino, a lavoro, a scuola, in casa. Bisogna scendere in questi abissi della quotidianità di questo magma metropolitano per scoprire che quello che è accaduto sta già continuando dispiegando un infinità di parole impregnate dell’esigenza di lottare. E’ solo a partire da questa profondità, dentro questi abissi, che questa esigenza può organizzarsi.

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