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Una guerra civile molecolare? Recensione a Prospettive sulla guerra civile di H.M. Enzensberger

 

Oggi, per parafrasare Wendy Brown, la politica è fuori dalla storia: uno dei caratteristici dispositivi di governo dell’epoca neoliberale si cela esattamente nella capacità di proiettare un eterno presente che, eliminando percorsi, provenienze, scenari e storie, spoliticizza tutto ciò che accade. L’assenza di storia viene infatti compensata da una visione del mondo che diviene questione tecnica, ricerca di equilibri contingenti tra interessi che devono arricchirsi di competizione senza entrare in contrasto.

Non si tratta chiaramente di riprenderle, ma le visioni storiciste, tanto vituperate ultimamente a sinistra per il loro tratto teleologico, hanno comunque consentito di organizzare il conflitto contro il presente, guardando al passato e proiettandosi nel futuro. Senza storia invece non c’è rottura, si rimane impantanati in un tempo che non sarà «omogeneo e vuoto» come diceva Walter Benjamin, ma solo lievemente increspato dai labili battiti d’ali di un Angelus Novus raggrinzito.

Recuperare alcuni brandelli di materiale storico, tracciare provvisorie genealogie, riconquistare oltre agli spazi anche la dimensione del tempo, è sano esercizio di critica per leggere i furori che paiono attivarsi in maniera altalenante come squarci nel lacero velo di Maya neoliberale.

«Bisogna ripensare la guerra», strillano dopo Parigi stuoli di intellettuali (sic!) trasversalmente all’ormai ridotto all’osso spettro della politica e dei media istituzionali. Come se la prima guerra in Iraq, il conflitto post-Jugoslavia, la sequenza post-Afghanistan 2001 e la miriade di interventi di polizia internazionale non fossero stati che felici scampagnate domenicali. Ma, se si vuole provare a stare dentro questo ragionamento – che cos’è la guerra oggi? -, può essere utile guardarsi indietro e provare a fissare alcuni punti.

«Con la fine della Guerra fredda è scoccata l’ultima ora anche per la condizione idilliaca in cui hanno vissuto gli Stati occidentali, al riparo dalla forza militare. L’angoscioso equilibrio della Pax atomica non esiste più» [p. 6], scrive Hans Magnus Enzensberger in un piccolo libricino scritto nel 1992 ed edito in Italia nel 1994 da Einaudi (e mai più ristampato) intitolato Prospettive sulla guerra civile. Sono trascorsi oltre vent’anni da queste parole, ma il loro contenuto ci riporta a un passaggio storico imprescindibile per definire delle coordinate nel presente. E dalla prosa di Enzensberger, emergono anche molti spunti anticipatori, che danno il segno delle radici profonde dell’attualità, e di come il vortice tecnologico che fa apparire tutto immediato e “in diretta” in realtà si organizzi su periodi lunghi. Che, fissati sulla frenesia senza lucidità dell’Adesso! del 2.0, si perdono di vista. Proviamo allora ad analizzare il libro del poeta e saggista tedesco, alla ricerca di spunti utili per inquadrare quanto sta succedendo.

«Osserviamo il mappamondo. Localizziamo le guerre in corso in territori a noi lontani, preferibilmente nel Terzo Mondo. Parliamo di sottosviluppo, non-contemporaneità, fondamentalismo. Questa lotta incomprensibile sembra svolgersi a grande distanza. Ma si tratta di un’illusione. In realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città, e questo non solo a Lima e Johannesburg, Bombay e Rio, ma anche a Parigi e Berlino, Detroit e Birmingham, Milano e Amburgo. […] La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini. La guerra civile non viene dall’esterno, non è un virus importato, bensì un processo endogeno» [p. 11]. Queste parole, scritte in anni in cui il mondo pareva avviarsi ad ampie falcate verso la “fine della storia” e la pax aeterna dell’Impero americano dopo la caduta dell’Urss, risultano quasi strane anche in un pensatore “di sinistra” della Germania di quel periodo.

Non è un caso che Francis Fukuyama recensisse l’opera di Enzensberger sul New York Times nel 1994 (http://www.nytimes.com/1994/10/09/books/the-new-world-disorder.html) – con un articolo chiamato in maniera illuminante Il nuovo disordine mondiale -, tributando l’autore di capacità analitica, ma accusandolo di un pessimismo che coinvolgerebbe tutti gli intellettuali europei. L’esplosione di violenza che il tedesco vede come in fieri è invece rovesciata dal politologo statunitense, che sottolinea come essa sia in fondo un residuo, relegata ai margini delle metropoli e del mondo. Fukuyama ribalta dunque le tesi di Enzensberger, e chi tra i due avesse ragione è rimesso al giudizio dei lettori. E’ comunque interessante qui riportare attorno a cosa tali tesi si articolano. Sono tre i nodi: “la grande migrazione”, “l’Europa in rovine”, la “guerra civile molecolare”. Ricorda qualcosa? E’ sull’ultima delle tre etichette che ci soffermeremo, per chiederci se questa definizione può essere utile a leggere quanto sta avvenendo oggi.

Innanzitutto il primo capitolo del pamphlet di Enzensberger si intitola Atroce l’eccezione, atroce la regola, e il richiamo alla dicotomia regola/eccezione non può che alludere a una lunga scia di pensiero politico moderno che attorno al tema della guerra civile ha sviluppato le proprie riflessioni. Von Clausewitz, il cui celebre trattato sulla guerra è scritto negli anni della piena affermazione dello Stato-nazione, pur affermando che «la guerra è il vero camaleonte», adattandosi e mutando attraverso le epoche, non cita mai la guerra civile. Paul Virilio e Michel Foucault[1] erano invece transitati per questa tematica, e di recente vi sono tornati pensatori che vanno da Jean Luc Nancy a Carlo Galli, da Giorgio Agamben a Toni Negri:  è infatti sostanzialmente da dopo la Seconda guerra mondiale che la categoria torna in auge. Hannah Arendt formula, nel libro On Revolution (1963), la tesi sulla “guerra civile mondiale”, mettendosi paradossalmente sulla stessa traiettoria del giurista reazionario Carl Schmitt. Quest’ultimo, nell’arco storico composto dalla pubblicazione de Il concetto di ‘politico’ (1927)[2], Il nomos della terra (1950) e Teoria del partigiano (1963), vede la dissoluzione dell’ordine che a suo avviso aveva equilibrato la Modernità (quello dello jus publicum europaeum). Dentro questa frana egli raggiunge uno dei punti apicali della propria capacità predittiva, preconizzando un orizzonte in cui si imporrà una guerra globale asimmetrica, senza più legittimità, fuori da una codificazione giuridica, in cui le forze egemoni si ammanteranno dei criteri di “guerra giusta e umanitaria” parlando più che di guerra di “azioni di polizia internazionale”. E’ la profezia di una guerra civile mondiale permanente, combattuta tra forze “irregolari” e potenze di taglio imperiale, che porta all’estremo il criterio politico dell’inimicizia, di cui la guerra è evidente manifestazione.

Queste riflessioni paiono combaciare con il contesto del primo decennio dei Duemila in maniera perfetta. Ma probabilmente oggi, svanita ogni ipotesi di Impero in grado di gestire un nuovo ordine globale, lo scenario va quantomeno aggiornato. In questo senso l’opera di Enzensberger prende interesse. Proseguiamo allora nello scorrerla velocemente. L’autore ha vissuto i bombardamenti statunitensi sulla Germania assediata[3], e ne ha tratto uno sguardo critico e disincantato. Non ha velleitarie speranze nei poteri redentori della Cultura[4], non è – in un epoca che ne pareva trasversalmente entusiasta – incantato dalle proprietà taumaturgiche dei media[5], e coglie nel processo di deindustrializzazione[6] una frattura in atto nel pianeta che conduce verso quella che definisce come «guerra civile molecolare». L’Occidente, conquistato l’obiettivo di un «mercato globale»[7] col suo universalismo e i suoi diritti umani, si trova di fronte a un insuperabile limite storico[8]: è l’intero «progetto di modernizzazione» che è fallito[9] di fronte, diremmo noi, all’eccesso di richieste che dentro il suo spettro valoriale si sono espresse. Questo non lo dice Enzensberger, è possibile sostenere dentro il suo discorso che l’immaginario di eguaglianza e di progresso, passato di mano dai vessilli della borghesia a quelli proletari tra XIX e XX secolo, transitando per rivoluzioni, lotte anticoloniali e di genere, abbia fatto esplodere quell’orizzonte Moderno, portando alla reazione neoliberale – che si traduce in continuo avanzamento delle diseguaglianze.

Ad ogni modo, viene dipinto uno scenario che riporta alla mente quelli che Karl Marx definì come «processi di accumulazione originaria»[10], che nelle parole dell’autore di Prospettive sulla guerra civile vengono descritti come produzione di «masse superflue»[11], scarti ed «espulsioni»[12]. E’ dentro questo panorama, letto con indubbio anticipo, che si inscrive la cupa visione di Enzensberger. Quella già richiamata «guerra civile molecolare», di cui «l’inizio non è sanguinoso, dagli indizi non traspare percolo. […] inizia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale. […] I giovani sono l’avanguardia della guerra civile, [e ciò non dipende solo dall’età] ma anche dall’incomprensibile retaggio con cui vengono messi a confronto e dai problemi irrisolvibili posti da un’avvilente ricchezza» [p. 37]. Più avanti si afferma che «le nostre guerre civili non hanno contagiato le masse: sono guerre molecolari» anche se esse, riferendosi ai riot di Los Angeles del 1992, possono «scatenarsi in qualsiasi momento raggiungendo dimensioni incalcolabili» [p. 12]. La guerra che qui viene delineandosi attraversa in maniera indifferente il pianeta, toccando qualsiasi latitudine e producendo anche nelle metropoli occidentali i suoi effetti in termini di polarizzazione[13] e militarizzazione dei territori[14]. 12285626_1219674721382539_875241864_n

Certo, lo scrittore tedesco legge lucidamente quella che ai suoi tempi era una tendenza ancora non chiara, ossia quei processi che successivamente verranno codificati nel passaggio dal welfare al warfare, e probabilmente coglie con lucidità il senso profondo di operazioni come la war on drugs nelle sue ricadute sui quartieri. Egli vede anche «un mondo in cui errano bombe umane»[15], ma le interpretazioni politiche con le quali riempie la sua categoria di «guerra civile molecolare» sono assolutamente deboli. Laddove coglie nella fine dell’ordine bipolare l’esplodere di una nuova grammatica della guerra, il panorama nel quale inscrive quest’ultima è strutturato attorno a categorie talmente generiche da squalificarne un portato profondo. Un vago odio nichilista, la «perdita di princìpi», il ricorso a una «violenza non ideologica» fine a se stessa e l’estensione della categoria a una pluralità troppo estesa di fenomeni – dai terroristi ad alcune pratiche di polizia, dalla guerra in Serbia passando per le violenze di gang e ultras, dai neonazisti ai pistoleri solitari autori di stragi nelle scuole, e finanche agli «autonomi di Kreuzberg» – rendono politicamente poco utile il libro, pur salvando una allusiva metafora al tema della pace elaborata nel finale[16].

Per una diagnosi politica del nostro tempo si tratta allora di non tradurre acriticamente categorie dal passato, ma di riprenderle in considerazione. Maneggiarle all’interno della dissolvenza di lunga durata di un ordine politico globale che negli anni dell’attuale crisi pare sprofondare ulteriormente dentro gorghi di tensione, nei quali l’elemento della violenza non può che approfondirsi per chi tenta di mantenere posizioni di potere. Così come per chi si sente sempre più espulso da un sistema che da tempo non fa più dell’integrazione il proprio paradigma. La categoria di «guerra civile molecolare» di Enzensberger può quindi essere soppesata con cautela, cercando soprattutto di muoversi verso l’articolazione di analitiche delle transizioni sistemiche in corso all’interno delle quali sviluppare parole e linguaggi per le lotte. Dentro questo scenario, il come stare con una posizione di parte nel disgregarsi e nelle barbarie del presente trova una nuova urgenza. Rispetto alla quale le risposte non possono tuttavia che essere demandate a una pratica politica sulla quale solo in seguito si tratterà di elaborare nuovi concetti.

 

Note:


[1] «La guerra civile è la matrice di tutte le lotte di potere, di tutte le strategie di potere e, di conseguenza, e anche la matrice di tutte le lotte a proposito del, e contro, il potere», scrive il filosofo francese, recentemente ripreso dal Comite Invisible in A nos amis. Un richiamo a prendere in mano il tema della guerra è contenuto anche nell’ultimo libro di Mario Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Saggiatore, Roma, 2015.

 

[2] Nella premessa all’edizione italiana della raccolta di saggi Le categorie del “politico” (1971), Schmitt scrive:

«Oggi l’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; […] al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale (Weltbürgerkriegspolitik)».

 

[3] Scrive a riguardo: «Quella sensazione fra il disagio e l’apatia che accompagnava il terrore dei bombardamenti non l’ho affatto dimenticata. E quegli adulti che se ne stavano accovacciati sulla panca dello scantinato, intenti ad ascoltare, e che parlavano di “attacchi terroristici” degli Alleati, erano la “popolazione civile innocente”. […] In quella “popolazione civile innocente” […] si era verificato uno strano cambiamento. Ricordo infatti come i loro occhi si illuminassero ad ogni discorso del Führer, il quale non nascondeva certo i suoi propositi […] di una battaglia decisiva, condotta fino all’ultimo sangue» [p. 47].

 

[4] «Fortunato chi riesce a credere che la cultura sia in grado di rendere una società immune dalla violenza» [p. 49].

 

[5] «I media, in un certo senso, duplicano la persona divenuta irreale, fornendole una specie di legittimazione […] La televisione agisce quindi come un unico, gigantesco graffito, come protesi per un Io autisticamente rattrappito» [p. 52]. Si aggiunge più avanti che «oggi […] la guerra civile si trasforma in un serial televisivo» [p. 56]. Non fa che da rimando di sfondo del libro, ma la questione della tecnica ha chiaramente un peso decisivo nell’analisi delle trasformazioni attuali. Basti pensare alla cosiddetta “guerra dei droni” di Obama. Per un approfondimento su quest’ultimo tema cfr. Grégoire Chamayou, Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere, Derive Approdi, Roma, 2014.

 

[6] «La prospettiva è la disgregazione del territorio. Un fattore essenziale è, come nel caso degli Stati Uniti, la deindustrializzazione. Le condizioni della vita quotidiana si dissolvono. Nascono zone protette e munite di propri servizi di sicurezza da una parte, slum e ghetti urbani dall’altra» [p. 40].

 

[7] «Senza dubbio il mercato mondiale, da quando non è più soltanto una prospettiva per il futuro, ma una realtà globale, produce di anno in anno un numero sempre crescente di perdenti. E questo non riguarda soltanto il Secondo e il Terzo mondo, ma anche i principali paesi del capitalismo» [p. 27].

 

[8] «Caratteristica specifica dell’Occidente, tuttavia, è la retorica dell’universalismo. […] non distingue tra vicino e lontano, è assoluto e astratto. Il concetto de diritti umani impone a ognuno degli obblighi che, in linea di principio, non conoscono confini. E proprio qui si rivela il suo nucleo teologico, sopravvissuto a qualsiasi secolarizzazione. […] Dato che tutte le nostre possibilità d’azione sono comunque limitate, la frattura fra desiderio e realtà si fa sempre più profonda. Ben presto è oltrepassata la sogli dell’ipocrisia di fatto; l’universalismo allora si rivela una trappola morale» [p. 54].

 

[9] «Il progetto perseguito dalla modernizzazione fallisce comunque laddove la situazione dei “popoli arretrati”, ovunque essi si trovino, non ha via d’uscita. Per motivi ecologici, demografici ed economici, lo scarto in fatto di modernizzazione non potrà più essere colmato: al contrario,  dislivelli crescono di anno in anno» [p. 31].

 

[10] Per una interpretazione della crisi attuale attraverso queste lenti si veda l’opuscolo di Midnight Notes, Promissory Notes. From Crisis to Commons.

 

[11] «Proviamo a immaginare un atlante che metta in evidenza la distribuzione geografica di queste masse “superflue” [e troveremo una relazione diretta tra sottosviluppo economico e zone della sottoccupazione presenti nelle metropoli] con la violenza collettiva , così si potrebbe concludere, non è altro che la disperata reazione dei perdenti di fronte a una situazione economica senza via d’uscita» [pp. 27-28].

 

[12] «Tutte queste fantasie su pretese congiure mascherano soltanto la terribile verità: a New York come nello Zaire, nelle metropoli come nei paesi sottosviluppati sono sempre più numerosi coloro che vengono espulsi definitivamente dal circuito economico perché non vale la pena sfruttarli» [p. 30]. Un tema ripreso ultimamente da Saskia Sassen in Expulsions. Brutality and Complexity in the global economy, Harvard University Press, Cambridge, 2014.

 

[13] «Per coloro che si sentono minacciati, allora, rimangono unicamente due strategie: la fuga o l’autodifesa. Una minoranza privilegiata cerca vie di scampo proprie […] La fuga di milioni di nullatenenti, invece, assume la forma della ricerca d’asilo e della migrazione economica. Chi non fugge si barrica. A livello internazionale si lavora ovunque al rafforzamento di quel “limes” costruito per difendersi dai barbari. Ma anche nel cuore delle metropoli si vanno formando arcipelaghi di sicurezza sotto stretta sorveglianza. […] I privilegiati pagano per il lusso del loro totale isolamento; diventando poi prigionieri della loro stessa sicurezza» [p. 41]. Su questo passaggio commenta Federico Tomasello (in La violenza. Saggio sulle frontiere del politico, manifestolibri, 2015), che usa l’autore come filtro per leggere i riot metropolitani: è un «processo di ‘introversione’ di confini dentro i territori metropolitani […] il prendere forma di nuove frontiere». La critica di Tomasello a Enzensberger si concentra sulla sua spoliticizzazione della violenza in quanto prodotta da “cause esterne”, fattori ambientali, o comunque la violenza è definita come mindless: «Enzensberger esprime così il profondo impatto di cui ritiene il carattere mindless di queste violenze sia foriero ai fini dell’interpretazione dell’agire politico stesso, su cui esse impatterebbero nella forma radicale di un “retrovirus”. Un’immagine in grado di evocare con forza esattamente la pressione che i riots urbani esercitano sulle frontiere del politico contemporaneo mettendone in questione forme e significati» [p. 168].

 

[14] «Chi non fugge si barrica», scrive Enzensberger, «transenne, telecamere elettroniche, cani ben addestrati ne controllano l’accesso. Mitraglieri appostati su torri di controllo sorvegliano i dintorni. L’analogia con i campi di concentramento è palese, soltanto che, in questo caso, è il mondo esterno a essere considerato dagli internati come potenziale zona di sterminio. […] i privilegiati pagano per il lusso il loro totale isolamento; diventando poi prigionieri della loro stessa sicurezza» [p. 41]. Oppure: «un chiaro indizio è l’incremento del cosiddetto ramo dei servizi di sicurezza. La guardia del corpo avanza a status symbol. I vigilantes vengono addirittura assunti da enti statali perla difesa dell’infrastruttura» [p. 42]. L’autore pensa ai contesto “interno”, ma non possono che venire in mente a riguardo gli stuoli di contractors coi quali gli USA hanno difeso e difendono i pozzi petroliferi in Iraq, ad esempio.

 

[15] Nel quale «non rimane altro che un’utopia negativa: il primordiale mito hobbesiano della lotta di tutti contro tutti» [p. 24]. Eppure lo sfaldamento di un ordine generalmente non degenera in diffusi conflitti individuali: «L’eclissi della civiltà generalmente non prende la forma di una guerra caotica di tutti contro tutti. Questo discorso ostile serve solamente, in situazioni di gravi catastrofi, a giustificare la priorità accordata alla difesa della proprietà contro il saccheggio tramite la polizia, l’esercito o, in mancanza di meglio, di milizie di vigilantes formate per l’occasione».

 

[16] «Si è voluto fare di Sisifo un eroe esistenzialista, un outsider e ribelle di tragicità sovannaturale, avvolto di un satanico fulgore. Forse è tutto errato. Forse Sisifo è qualcosa di molto più importante, ossia un personaggio della vita quotidiana. I Greci interpretarono il suo nome come il comparativo di sophos, intelligente; Omero lo definisce addirittura il più intelligente di tutti gli uomini. Non era un filosofo, ma una mente astuta. Si narra che riuscì a incatenare la morte e che più nessuno morì sulla terra finché Ares, il dio della guerra liberò la morte e le consegnò Sisifo stesso. Ma questi raggirò la morte per la seconda volta e riuscì a tornare sulla terra. Dicono che sia diventato molto più vecchio. Più tardi, come punizione per la sua avvedutezza, fu condannato a far ruotare un pesante macigno fino alla sommità i un monte, in eterno. Questo macigno è la pace» [p. 71].

 

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