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L’ora più buia. Il “laboratorio Italia” e l’europeizzazione delle masse.

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Emilio Quadrelli per alimentare dibattito sulle elezioni del quattro marzo scorso, spia tardiva e parziale di cambiamenti tellurici ben più profondi.
Diversi passaggi ci sembrano quanto mai validi e degni di ulteriore riflessione. Innanzitutto, la messa a fuoco del tentativo di stabilizzazione del quadro europeo dentro un nuovo patto coloniale tra proletariato bianco e le “classi agiate” del vecchio continente. Un patto che ha come cardine il razzismo politico, che fa dello sfruttamento e della sottomissione della manodopoera nera il contrappeso ai processi di impoverimento che hanno attraversato le società europee negli ultimi vent’anni e, in particolare, dalla crisi globale del 2008. Veniamo quindi al secondo punto che ci sembra importante sottolineare in questo scritto. Soltanto una prospettiva materialista può servirci da bussola per un agire politico che si situi all’altezza (o alla bassezza, questione di prospettiva ma sopratutto di scala) dei tempi. Facendo tutto al contrario, c’è invece chi oggi cerca il popolo nella classe, agitando redivivi spettri nazional popolari che basterebbe piegare un po a sinistra. Per quanto ci riguarda, in questa fase, ci siamo sempre mossi, nella teoria, nell’inchiesta e nella prassi, in un’altra direzione. Quella di cercare i nostri, la classe, dentro a quel popolo.
Veniamo a questa fase. Tempi bui, ci dice l’autore. E che ci si veda poco chiaro è sicuro. A noi sembra però che questa mancanza di visibilità sia da imputare più alle turbolenze provocate dallo scontrarsi di correnti calde e fredde che dall’implacabile oscurità che caratterizzerebbe la nostra “attualità”. Non attraversiamo, come direbbero altri, un “ciclo reazionario”. O almeno non nel senso contro-rivoluzionario che gli ha dato il grande novecento. Se di reazione vogliamo parlare (noi diremmo crisi) è soprattutto quella contro la governance neo-liberale la cui tenuta è messa in pericolo non tanto dalle ultime tornate elettorali, epifeonomeno superficiale e tutto sommato volatile, quanto dallo scollamento sempre più evidente tra autorità e verità, tra centro e periferie nonché da uno scontro interno alla stessa composizione di classe.
Vedere nel voto del quattro marzo una dimensione esclusivamente “razzista” rischia di formare discorsivamente e politicamente come blocco ciò che un blocco (ancora?) non è. Il processo di europeizzazione delle masse individuato dall’autore è esattamente questo: un processo. Attraversato da contraddizioni che devono assolutamente interessarci. Ci serve oggi guardare al corpo vivo dei movimenti nella classe più che alle irreparabili soluzioni di cattura politica già manifeste. E le elezioni del quattro marzo, su questo, ci sembrano parlare anche di tanto altro…

 

La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di “attualità”
( W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Quanto accaduto nella recente tornata elettorale in Italia merita di essere osservato con particolare attenzione. Infatti, per svariate ragioni, rappresenta un vero e proprio laboratorio di quanto potrebbe delinearsi nell’immediato futuro prossimo.

Il primo dato rilevante è l’attestarsi dell’astensione, considerando i voti annullati e le schede bianche, intorno al 30%. Un dato che dimostra come intorno alle elezioni politiche si sia consumata un’adesione di massa non secondaria e in aperta controtendenza a quanto andato in scena nelle tornate elettorali precedenti. Le aspettative di un’astensione vicino al 50% sono andate in frantumi. Ciò ha dimostrato – va ammesso con una certa sorpresa per chi scrive – che per quote importanti di subalterni, il terreno elettorale e la rappresentatività a questo connessa rappresentino uno scenario praticabile. In altre parole con la recente tornata elettorale non si è verificata quella condizione per cui le classi dominanti sono impossibilitate e/o incapaci di governare e l’insieme delle classi subalterne non più disposte a farsi governare.

Con maggiore realismo, sulla base dei fatti, occorre dunque riconoscere che all’interno dei nostri mondi la quota di popolazione oggettivamente estranea, disinteressata alle istanze istituzionali e posta in condizione di “marginalità” sociale e politica è poco meno della metà delle classi sociali subalterne. Un dato numerico non trascurabile se questa quota di proletariato è osservata e immediatamente collegata alla massa di subalterni internazionali la cui postazione è priva di legami con le politiche imperialiste ma che, al contrario, assume scarso interesse se lo sguardo rimane focalizzato e fossilizzato intorno ai perimetri etnocentrici dello Stato/Nazione. In poche parole i risultati di queste Elezioni politiche ci hanno consegnato una frattura prospettica, e anche al momento non conciliabile, dentro la classe. Si tratta di un’osservazione essenziale poiché, proprio a partire da questa differenza di sguardo prospettico, dipende l’agire politico e organizzativo della soggettività politica. Detto ciò, torniamo ad analizzare i risultati elettorali.

Per un insieme di fattori queste elezioni hanno rappresentato un vero e proprio terremoto per il comando del capitale in quanto l’intero establishment è andato bellamente in frantumi. Il PD si è ritrovato minoranza in tutto il Paese e sembra essere entrato in una crisi dalla quale difficilmente pare in grado di risollevarsi. Non più fortuna hanno avuto i suoi transfughi (LeU),  i quali hanno raggiunto il quorum solo per il rotto della cuffia. L’estrema sinistra, alle prese con la messa in forma di un “populismo di sinistra” teso a contrastare il ben più corposo e accattivante populismo di destra, si è arenata sulla soglia dell’uno per cento. Per altro verso la stessa formazione centrista, FI, è stata sostanzialmente posta all’angolo e, con lei, l’ipotesi maggiormente coltivata dall’ establishment europeo: ossia  quella della formazione di un Governo di coalizione a dominanza centrista.  A conti fatti non si è trattato di una semplice bocciatura politica, bensì della messa in mora di tutta un progetto strategico, a lungo coltivato e praticato, finalizzato a tenere fuori le masse dai perimetri della politica.

Ancora una volta, come agli albori del ‘900, l’utopia reazionaria delle classi agiate, consistente nel liberarsi dall’ingombrante peso delle società di massa e navigare serene e tranquille in compagnia della nuova “aristocrazia globale”, è costretta a una pesante battuta d’arresto.

L’epoca storica tenuta a battesimo dall’aforisma della Thatcher, “la società non esiste”, che apriva la via alla società degli individui, sembra, se non altro, essere stata pesantemente messa in discussione. In questo senso le Elezioni italiane possono considerarsi un vero e proprio laboratorio politico. Insomma, pur con tutte le tare del caso, quello che sta andando in scena oggi  in questo Paese sembra essere qualcosa di non dissimile da ciò che ha rappresentato negli anni ’20 l’affermarsi dell’esperienza fascista la quale, in maniera inaspettata, finì con l’aprire le porte a ciò che di lì a poco  sarebbe diventata la moneta corrente di tutto un periodo storico.

Per comprendere ciò che questi risultati elettorali portano  in grembo è necessario partire dai fatti, senza perdersi nei vari sillogismi astratti, nemici della dialettica storico materialista. Vincitori indiscussi delle elezioni italiane, M5S, Lega con l’apporto secondario di FdI, sono comunemente individuati come movimenti populisti, ossia forze politiche che rimandano a un’esistenza e a una dimensione collettiva.  Ad essere state sconfitte, quindi, sono state tutto quell’insieme di retoriche che avevano dato il là all’ordine discorsivo proprio del modello antropologico e politico neoliberista. Con il voto del 4 marzo le masse sono tornate protagoniste.  Tutto ciò è difficilmente contestabile. Ma di quale masse e di quale protagonismo si parla? Questo, a conti fatti, il vero nocciolo della questione ed è su questo che occorre soffermarsi. Quote considerevoli di subalterni hanno votato per formazioni politiche che del razzismo e della rivalutazione del fascismo non hanno avuto problemi a farsi vanto.  Non solo FdI, che del fascismo è in qualche modo diretta filiazione, ma soprattutto Lega e M5S hanno fatto tanto del razzismo, quanto di non velati rimandi al Ventennio, il loro format elettorale. Lo stesso reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del programma dei 5S e  individuato da molti come elemento programmatico di sinistra,  non ha nulla di contro fattuale rispetto alle logiche proprie del nazionalsocialismo il quale non si caratterizzò certo per le retoriche basate sull’austerità. Il fascismo e il nazionalsocialismo misero ampiamente mano alla “spesa pubblica”. La “nazionalizzazione delle masse” un qualche costo doveva e deve pur averlo!

L’altro grande cavallo di battaglia delle forze populiste è stata “l’Europa dei popoli” contrapposta all’ “Europa delle banche”. Ed è su questo che occorre soffermarsi. Esattamente qua vi è continuità e rottura con il passato nazionalsocialista. La critica al capitale finanziario, inteso come capitale parassitario e de-territorializzato,  è da sempre un tema caro ai movimenti di destra. A questo capitale malvagio, infatti, i fascismi, anche se a dire il vero ciò vale per la stessa socialdemocrazia, da sempre amano contrapporre “il capitalismo buono”, quello produttivo e “materiale” delineato ideologicamente in contrapposizione a quello finanziario, improduttivo, “immateriale” e, soprattutto, privo di radicamento territoriale. Quanto questa “critica” abbia un fondamento pressoché nullo è cosa risaputa. Senza entrare nelle spiegazioni teoriche, basti ricordare come con il capitale finanziario, il nazionalsocialismo, appena giunto al potere, convogliò velocemente a nozze, limitandosi a dare alla tanto “odiata” finanza un volto nazionale e demagogicamente popolare e liquidando al contempo, nel corso della nota notte dei lunghi coltelli, l’ala estremista che ipotizzava una continuazione della “rivoluzione nazional/popolare” del tutto autonoma e in aperta contrapposizione alle tradizionali classi dominanti. Questa storia è nota e non sembra il caso di soffermarvisi sopra.

 Più interessante, invece, diventano le attuali retoriche sull’Europa dei popoli. Qua assistiamo a una vera e propria modernizzazione del fascismo. Non più la “nazionalizzazione delle masse”, non più l’Italia proletaria e fascista in lotta per un posto al sole, bensì l’Europa/Nazione, un tema che, detto per inciso, la destra radicale ha coltivato sin dagli anni ’50 e, conseguentemente a ciò, la “europeizzazione delle masse” in lotta per la riaffermazione della propria identità e delle proprie radici.   Ciò che il “nuovo fascismo”, in piena sintonia del resto con il progetto hitleriano (su ciò Göring, nel suo “testamento politico”, era stato quanto mai esplicito), sta ponendo in atto è esattamente una ridefinizione su scala Continentale di quanto andato in scena nella prima metà del Novecento. “Europeizzazione delle masse”, in una logica non dissimile dalla  ormai datata “nazionalizzazione”, dentro un contenitore non più ristretto, obsoleto e storicamente superato come lo Stato/Nazione di fattezza Ottocentesca ma in un serbatoio atto alla moderna contesa imperialista. L’Europa/Nazione appunto, è il progetto non fantasioso al quale aspirano i cosiddetti populismi.  Di nuovo ein volk. ma questa volta su scala europea. Questa, a conti fatti, sembra essere la vera posta in palio. Questa la pressione che i movimenti populisti stanno, e occorre riconoscerlo con notevole successo, esercitando nei confronti delle elite del comando capitalistico. A queste, in maniera tanto semplice quanto diretta viene detto: “senza di noi non potete portare avanti i vostri piani”. E anche: “o noi possiamo partecipare al banchetto, oppure non se ne fa nulla”. Alla luce di quanto sta andando in scena sembra proprio di assistere  alla classica proposta che non si può rifiutare.

Significativamente, nei programmi politici dei partiti risultati vincitori, non compare alcuna critica al progetto, già ampiamente in atto, della costituzione di un forte e agguerrito polo imperialista europeo bensì a essere costantemente oggetto di critica sono le modalità attraverso cui, le elite europee, ne stanno pensando la realizzazione.  A fronte di un progetto aristocratico ed elitario, quello delle elite imperialiste europee di cui il Pd è l’alfiere italiano, le forze populiste prefigurano una riedizione di un imperialismo di massa la cui forza poggia per intero sulla “europeizzazione delle masse”. Questa l’ipotesi che sembra aver fatto breccia tra quote considerevoli di subalterni indigeni.

Dentro tutto ciò il razzismo è un semplice escamotage propagandistico o, al contrario, rappresenta un progetto politico a tutto tondo? Il razzismo è un semplice trucco per accattivarsi le simpatie di quella parte di popolazione poco colta e pronta a ragionare con la “pancia” o, più realisticamente, è un’arma politica a tutti gli effetti in funzione di un ben preciso progetto di dominazione dai tratti propriamente coloniali? Il razzismo nasce, e prospera, sulla paura dell’altro o, più prosaicamente e materialisticamente, dentro l’ipotesi della dominazione dell’altro. Insomma, le fortune dei populisti, hanno origine nell’ignoranza di ampie quote di subalterni autoctoni o nell’interesse che questi coltivano nel dominare, assoggettare e sfruttare (anche a loro vantaggio) i popoli in pelle scura? Le fortune che i populismi conoscono sono l’effetto funesto di arcaici retaggi o, più realisticamente, la messa a valore da parte di cospicue quote di subalterni bianchi di una ricchezza – il colore della pelle e la piena cittadinanza europea – giocata contro le masse in “pelle scura”?  

Una volta sgomberato il campo dai malintesi che le retoriche culturaliste si portano appresso, i giochi e le poste in palio assumono contorni più precisi e nitidi.  Dentro la crisi e la ridefinizione degli assetti di potere a cui questa inevitabilmente rimanda si demarcano le linee attuali dell’amicizia e della inimicizia di classe. Ciò che il  voto populista pone, propone e impone è la configurazione di una linea di amicizia comprendente tanto le elite quanto le “masse europeizzate”. Nessuna avversione, quindi, di ampie quote di proletariato bianco all’imperialismo europeo, nessuna rottura da parte di queste della costruzione dell’Europa, bensì l’auspicio di un’Europa entro la quale il volk abbia un ruolo da coprotagonista. Difficile pensare che le elite europee potranno sottrarsi a questa proposta. Con ogni probabilità, ancora una volta, la “nuova aristocrazia” cosmopolita dovrà “contaminarsi” con il volk.  Del resto è quanto sta già facendo da tempo nelle aree di crisi. In Ucraina, nei Paesi baltici, in Siria e Turchia ma anche in Polonia, Slovacchia, Ungheria e via dicendo le elite europee dimostrano di non avere troppe remore nel far rivivere la mistica del volk. L’ora più buia è più vicina di quanto possa apparire.

Contro tutto ciò ben poco senso sembrano avere i tentativi legati alla costituzione di un populismo di sinistra in grado di contrastare l’irrompere dei populisti di destra. Non si tratta di un problema ideologico o di coscienza, bensì di postazione materiale entro i perimetri della formazione economica e sociale attuale. La classe, a meno che non la si consideri unicamente sotto il profilo economico, ossia in maniera puramente oggettivista (ma questo con la teoria marxiana ha ben poco a che vedere), non è e non è mai stata un corpo omogeneo e tanto meno unito. Che una parte della classe miri a condividere i piani e gli interessi dell’imperialismo non è certo una novità. Negarlo significa non tenere conto di quanto il colonialismo abbia contaminato la storia  del movimento operaio occidentale il quale, di fatto, con l’epopea coloniale non ha mai voluto fare i conti. Così come, per altro verso, le retoriche e le pratiche patriarcali non sono mai state poste seriamente in discussione dal medesimo. Ciò diventa quanto mai lampante oggi dove razza e genere diventano gli elementi centrali e fondativi dell’essere classe. Qua ed esattamente qua si pone la frattura. Qua ed esattamente qua si pongono gli imperativi della soggettività politica. Sicuramente  il tempo è breve, il nemico è alle porte e l’ora più buia ci attanaglia ma è anche vero che non partiamo da zero, anzi.

Abbiamo visto crescere in maniera non irrilevante una serie di esperienze dove si è mostrato il volto determinato e generoso della nuova composizione internazionale della classe rivoluzionaria.

In questi anni abbiamo visto le lotte della logistica organizzate dal sindacalismo conflittuale incarnato soprattutto dal Si. Cobas,  le reti organizzative, particolarmente combattive, di proletariato internazionale, le lotte non secondarie di braccianti multinazionali, le forme di autoorganizzazione e autodifesa legate alla questione abitativa  improntate al meticciato, le forme di aggregazione spontanee multietniche finalizzate a contrastare il dilagante fascismo di stato. Infine ma non per ultimo abbiamo visto  mobilitazioni, in occasione dei vari summit internazionali del comando capitalistico, combattive e combattenti in grado di reggere livelli di scontro e conflitto non proprio irrisori. Tutto ciò ci fa dire che l’odio e la rabbia delle quote di  subalterni in grado si incarnare la classe politica è tutto tranne che sopito e che l’angelo della storia è ben lungi dall’essersi inabissato. Ma, soprattutto, abbiamo un punto di riferimento internazionale, l’esperienza del Confederalismo democratico, che rappresenta, con ogni probabilità, il punto più innovativo e avanzato di sperimentazione rivoluzionaria oltre che il cuneo più importante, in termini di lotta, organizzazione e progettualità, incistato dentro il dominio colonial – imperialista. La difesa e il rafforzamento di queste esperienze, l’elaborazione e il radicamento di esse dentro “il ventre della bestia” sembra essere oggi il  compito essenziale e non rimandabile della soggettività politica perché la dimensione immediatamente internazionale della classe è la sola e unica via della pratica comunista. Non vi sono scorciatoie, se non quelle che portano dritte nelle fauci del populismo e del rossobrunismo, spianando così la strada al nazismo del Ventunesimo Secolo.

Emilio Quadrelli

 

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