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Cicli e Circuiti di Lotta nel Capitalismo High-Tech (I)

 

Cicli e Circuiti di Lotta nel Capitalismo High-Tech (I)

di Nick Witheford

Introduzione

Questo scritto esplora un territorio che molti non credono esistere; il territorio della guerra di classe high-tech. Secondo i principali teorici della rivoluzione informatica, l’avvento dei computer, delle telecomunicazioni e delle biotecnologie ha fatto, del conflitto tra il capitale ed il suo proletariato, una reliquia del passato. In realtà, però, la high-tech non ha messo fine a queste ostilità; le ha piuttosto trasformate in forme violente a noi non ancora familiari. In ciò che segue inizierò con l’abbozzare il ciclo storico di lotte che ha portato la lotta di classe su questo nuovo e strano terreno, quindi tratteggerò una mappa dei maggiori campi di battaglia nel circuito contemporaneo di lotte cercando di vedere come, tale lotta, sia passata attraverso le fabbriche robotizzate, i media interattivi, le aule virtuali, i laboratori di biotecnologie, le cliniche per la fertilizzazione in vitro, rendendo a rischio tali luoghi e fuori nei network globali del cyberspace.

La prospettiva che sorregge questo lavoro è quella dell’autonomist marxism. Si tratta di una corrente variegata, spesso sotterranea, di pratica e teoria.1 (…) Benché ci siano molte differenze e discordanze all’interno di questa corrente, può comunque essere distinta da altri marxismi per tre punti peculiari. Primo, non prende come premessa di partenza il potere di dominio del capitale, ma la potenziale libertà – o autonomia – popolare da tale dominio, un potenziale che si manifesta costantemente attraverso rinnovate lotte per l’ottenimento di spazi e tempi indipendenti dal regime del lavoro capitalista. Secondo, tale filone evidenzia la capacità di queste lotte, che si estendono, oltre le mura della fabbrica, fino alla “fabbrica sociale”.2 I soggetti del conflitto di classe includono non soltanto il lavoro salariato, ma anche tutti i lavoratori non salariati, come le casalinghe, gli studenti e i disoccupati, le cui attività sono, da parte del capitale, subordinate alla, ed organizzate attraverso la, forma salario. In ciascuno di questi settori la resistenza al capitale si attua attraverso agenti differenti e distinte – autonome – forme di organizzazione. Gli esponenti dell’autonomist marxism non tentano di subordinare questi diversi punti di auto-attività a un partito gerarchico, ma di collegarli in una orizzontale “circolazione di lotte”.3 Terzo, gli esponenti dell’autonomist marxism rifiutano sia l’autoritarismo del socialismo di stato che il riformismo socialdemocratico, alla ricerca di un comunismo alternativo indipendente – autonomo – sia dal capitale che dallo stato. L’autonomist marxism non è un ex-marxismo od un post-marxismo; ma un “Marx oltre Marx”.4

 

 

Cicli di lotta

 

Una delle idee che maggiormente distinguono questo filone è quella del ciclo di lotte. In sostanza, si sostiene che sono le lotte dei lavoratori a determinare la dinamica dello sviluppo capitalista. Quando i soggetti che lavorano per il capitale iniziano ad unificarsi in collettivi che indeboliscono la sua capacità di controllo – ottenendo un livello di composizione di classe – il capitale si trova a dover rispondere con innovazioni a livello organizzativo, tecnologico e politico, mirate alla distruzione di questi movimenti, schiacciandoli o cooptandoli.5 Comunque, poiché il capitale è un sistema di dominio che dipende dalla relazione salariale, non può distruggere completamente il suo antagonista; esso deve piuttosto ricreare costantemente il proprio proletariato, la cui presenza lo minaccia. Ognuna delle sue riorganizzazioni, sebbene temporaneamente vincenti nel distruggere le opposizioni, è seguita da una ricomposizione della forza lavoro, e dall’apparire di nuove resistenze. Piuttosto che essere data una volta per tutte, la classe lavoratrice muta incessantemente, cambiando la sua cultura, le sue capacità, le strategie e le tattiche. La ricomposizione di classe e la ristrutturazione capitalista si arrotolano in una spirale l’una attorno all’altra in una implacabile doppia elica, con lo spettro della sovversione che guida il capitale in un sempre più accelerato volo nel futuro.

Il cambiamento tecnologico deve essere compreso all’interno di questo contesto. Panzieri, in un primo saggio, che stabilirà la direzione della successiva critica all’interno dell’autonomist marxism, rompe decisamente con la visione della sinistra dello sviluppo tecnico-scientifico inteso come “progresso”.6 Panzieri, rifacendosi alle pagine de Il Capitale sulla prima introduzione alle macchine, ha proposto una lettura che vede il capitalismo ricorrere incessantemente all’innovazione tecnologica come ad un “arma” contro la classe operaia; la sua tendenza a incrementare la proporzione di capitale morto o “costante” contro il capitale vivo o “variabile” coinvolto nel processo di produzione, risulta precisamente dal fatto che quest’ultimo è un elemento potenziale di insorgenza con cui il management è costretto a fare i conti nella battaglia e che deve costantemente essere controllato, frammentato, ridotto o, infine, eliminato.7 Ratificare la razionalizzazione tecnologica semplicemente come anticipazione lineare ed universale, significava ignorare che ciò che essa andava a consolidare era una razionalità peculiare del capitalismo mirata alla dominazione del lavoro.

Ciò che il filone dell’autonomist marxism evidenzia, è che i lavoratori salariati e non salariati non sono semplici vittime passive del cambiamento tecnologico, ma agenti attivi che persistentemente contestano i tentativi capitalisti di controllo. La contestazione può prendere due forme.8 Una è il rifiuto, inteso generalmente come tentativo di sabotaggio, di blocco o di rallentamento del dominio delle macchine; un classico esempio si ha nelle catene di montaggio. L’altra è la riappropriazione, in cui il potere inventivo del lavoro dei lavoratori è usato per rivendicare, rifunzionalizzare o “detourn” le macchine, deformando radicalmente il loro uso dagli scopi manageriali a quelli sovversivi; come dimostra lo sviluppo di radio politiche pirata, nelle quali diversi esponenti di questo filone sono stati strettamente coinvolti.9 Entrambe queste risposte alla tecnologia fanno parte del repertorio di lotta, sebbene in momenti e luoghi differenti una o l’altra può prevalere assumendo particolare importanza.

Passiamo ora in rassegna velocemente questi nodi teorici dando un occhiata alla terza ondata di cicli di lotte del ventesimo secolo.10 La prima è stata l’era dei lavoratori professionali; lavoratori artigiani altamente qualificati che, all’inizio del secolo, hanno usato la loro propria conoscenza del processo di lavoro per creare nuclei di resistenza al capitalismo e che hanno fornito i membri d’avanguardia ai movimenti socialisti rivoluzionari. Quando la minaccia posta da questa forma di composizione di classe è divenuta visibile successivamente al 1917, il capitale si è ristrutturato radicalmente. Il processo di produzione è stato frammentato, dequalificato e meccanizzato dalla direzione scientifica taylorista e dalla linea di montaggio fordista, e l’ordine sociale generale è stato pacificato da quello che il filone dell’autonomist marxism chiamerà lo Stato Piano dei programmi di welfare e degli interventi keynesiani.

Comunque, tale ristrutturazione ha creato un nuovo soggetto di classe: l’operaio massa. L’operaio massa è costituito da una concentrazione di lavoro semi qualificato assemblato nelle fabbriche automobilistiche, negli impianti petrolchimici, nelle miniere e nei porti; al cuore della produzione industriale fordista. Questa organizzazione del luogo di lavoro è subordinata all’incremento di un sistema comprensivo di management sociale, profondamente regolatore della sfera domestica, dell’istruzione e del welfare sociale per integrare produzione di massa e consumo di massa. Per un certo periodo queste sistemazioni sono parse stabili, ma nei tardi anni ‘60 e nei primi ‘70, l’operaio massa è insorto contro la meccanizzazione infernale della catena di montaggio. Nonostante non avesse la stessa capacità di controllo sulla produzione dei lavoratori artigiani, l’operaio massa era ancora in grado di bloccarla; un diffuso “rifiuto del lavoro” – ondate di scioperi, sabotaggi ed assenteismo – paralizzò gli impianti industriali.11 Successivamente, queste rivolte sul luogo di lavoro, si sono legate alle rivolte di altre componenti dello Stato Piano; ribellioni degli studenti, rifiuto da parte delle donne del loro ruolo di casalinghe, insurrezioni nei ghetti. Queste insubordinazioni intrecciate hanno determinato la crisi totale nella fabbrica sociale.

E’ stato in risposta a tutto ciò, che il capitale è passato al contrattacco e nei tardi anni ‘70 dato il via ad una nuova grande ristrutturazione, spesso definita come passaggio dal fordismo al post-fordismo. E’ qui che la high-tech gioca un ruolo centrale. Una parte cruciale di questo processo è situata nell’imposizione di un regime di “comando cibernetico”.12 Il forte investimento in microelettronica ed in biotecnologie, solitamente definito come rivoluzione emancipatoria dell’informazione, è stato, nei fatti, integrale all’offensiva imprenditoriale contro la classe lavoratrice. L’automazione ha decimato la fabbrica-base dell’operaio massa; le telecomunicazioni hanno permesso alle imprese una globalizzazione indirizzata alla ricerca di lavoro a basso prezzo e regolamentazioni blande; le tecnologie dell’informazione di tutti i tipi hanno monitorato e regolato i cittadini, i servizi sociali sono stati demoliti in una transizione da politiche di welfare dello Stato Piano, alla disciplina attraverso l’austerità dello Stato Crisi. In associazione con le politiche di deregolazione, privatizzazione e legislatura repressiva, strutture robotiche e cavi in fibra ottica hanno polverizzato i sindacati, aggirato i movimenti sociali, ed, effettivamente, annichilite le aspirazioni di democrazia sociale. Buona parte della sinistra, così come la destra, interpreta questi eventi, ponendoli insieme al collasso del socialismo di stato sovietico, come una vittoria decisiva del capitalismo.

Nel pensiero dell’autonomist marxism, la questione cruciale è la possibilità di rintracciare, all’interno di questo apparente scompiglio, segnali di ricomposizione di classe. A questo riguardo sono state proposte svariate analisi. Una delle più ottimistiche è quella di Antonio Negri, il quale sostiene che ci troviamo di fronte all’emergere di un nuovo soggetto di classe – che ha chiamato di volta in volta “operaio sociale”, “intellettuale-massa”, “lavoratore immateriale”.13 Secondo Negri, questo “proletariato post-fordista” deriva dal continuo intrecciarsi di attività tecnico-scientifica e lavoro materiale di produzione di merci.14 E’ caratterizzato dal suo coinvolgimento nella produzione computerizzata e informazionale, dalla sua partecipazione ai network comunicativi, dalla diffusione di luoghi di lavoro disseminati nell’intera società, e dalla sempre più stretta combinazione e ricomposizione di tempo di lavoro e tempo di vita.15 Di particolare interesse, qui, c’è il sostenere, da parte di Negri, che questo proletariato intrattiene una relazione con la tecnologia fortemente differente da quella delle generazioni precedenti di classe operaia. Mentre l’operaio massa poteva soltanto fermare le catene di montaggio del capitale, l’operaio sociale è, afferma Negri, talmente familiarizzato con l’intero mondo della high-tech che gode di una crescente capacità di riappropriarsi di questa “ecologia delle macchine” per scopi sovversivi; una capacità particolarmente evidente per quanto concerne i sistemi di comunicazione così vitali per il capitale contemporaneo.16 Questa nuova soggettività della classe operaia, formatasi gradualmente nel passato ventennio, inizia ora, sostiene Negri, a manifestarsi in nuovi e radicali movimenti che hanno ripetutamente scosso la Francia dal 1986 al 1994.17

Queste tesi sono evidentemente controverse. Non soltanto fanno sì che molti esponenti della sinistra vedano in Negri un utopista, ma persino fra gli esponenti dell’autonomist marxism c’è una critica diffusa delle sue analisi, nei confronti della sua tendenza ad iperbole, per la frequente mancanza di un’adeguata descrizione delle divisioni e delle segmentazioni della classe lavoratrice (particolarmente a quelle relative al genere), e per il suo dare importanza alle nuove lotte a spese di vecchie resistenze.18 Personalmente condivido diverse di queste riserve. Inoltre, Negri, scrivendo come italiano esiliato in Francia, deriva le sue analisi da un contesto specifico nel quale non è facile trapiantarsi. Nondimeno, credo che il suo lavoro contenga importanti percezioni. In particolare, il suggerimento di Negri che ci vuole testimoni dell’inizio di un nuovo ciclo di lotte in cui le high-tech appaiono non semplicemente come strumenti di dominio capitalista, ma anche come risorse per il contro-potere della classe lavoratrice, può essere, almeno parzialmente, valido. Le mie analisi perciò prendono liberamente ispirazione dalle idee di Negri, focalizzandomi primariamente sul contesto nordamericano, e sui tentativi di cartografare le insorgenze di quello che chiamerò semplicemente high-tech proletariat.

 

 

Circuiti di lotta

 

Per organizzare questa cartografia utilizzerò un concetto di Marx che è stato assai importante nelle teorie dell’autonomist marxism; quello del circuito di capitale.19 Questo mostra come il capitale dipende, per le sue operazioni, non solo dall’espropriazione immediata nel luogo di lavoro, ma anche dalla continua integrazione dell’intera serie dei luoghi e delle attività sociali.

La descrizione originaria di Marx mostra soltanto due momenti in questo circuito: la produzione e la circolazione. Nella produzione la forza lavoro ed i mezzi di produzione (macchinari e materie prime) sono combinati per creare merci. Nella circolazione le merci sono vendute e comprate: il capitale deve sia vendere i beni che ha prodotto, realizzando il plus valore estratto nella produzione, che acquistare la forza lavoro ed i mezzi di produzione necessari per far ripartire nuovamente il processo. Il denaro è messo in gioco ad un punto del circuito, ed in un altro punto si ricava più denaro, che sarà, tutto o in parte, poi usato per iniziare nuovamente l’intero processo su base allargata. Per il capitalista si tratta della ruota della fortuna; ma per coloro che vendono la loro forza lavoro, si tratta di un opprimente lavoro senza fine.

Da quando Marx ha proposto questo modello, il capitale ha espanso prodigiosamente la sua capacità di organizzazione sociale. L’espansione e le resistenze che ha provocato, hanno reso visibili aspetti di questo circuito che egli aveva in gran parte trascurato. Nel 1970, Mariarosa Dalla Costa e Selma James, teoriche femministe dell’autonomist marxism, diedero vita ad una cruciale revisione quando mostrarono che uno dei momenti vitali nel circuito del capitale era rappresentato dalla riproduzione della forza lavoro; ossia le attività con cui i lavoratori vengono preparati e risistemati per lavorare. Questi sono processi condotti non all’interno della fabbrica, ma nella comunità, nelle scuole, negli ospedali e, soprattutto, nelle famiglie, ove abbiamo tradizionalmente un lavoro femminile non salariato. Con l’allargamento della teoria originale di Marx, Dalla Costa e James hanno aperto la strada ad un concetto del conflitto di classe assai migliore, in grado di comprendere la portata della ribellione in tutta la fabbrica sociale.

Più recentemente, un altra serie di lotte ha posto l’attenzione su altri aspetti dei circuiti di capitale, prima in gran parte date per scontate dai marxisti; la riproduzione della natura. Il capitale non deve soltanto trovare costantemente la forza lavoro da impiegare nella produzione, ma anche le materie prime che questa forza lavoro converte in merci. Le crescenti catastrofi ecologiche catalizzano sempre più le proteste dei movimenti verdi e delle popolazioni aborigene, è ormai chiaro che la fiducia sull’illimitatezza di tali risorse è profondamente sbagliata. Le materie prime sono ottenibili dall’accumulazione che dipendente dall’estensione territoriale del capitale e dalla ricchezza tecnologica, dal grado in cui l’ecosistema è stato intaccato e contaminato e dal livello di resistenza che questa devastazione suscita. La riproduzione, o piuttosto la non-riproduzione della natura, in tal modo, diviene sempre più un problema per il capitale ed un terreno di conflitto per coloro che si oppongono ad esso20

Se teniamo conto delle percezioni ottenute non solo delle lotte operaie ma anche femministe ed ambientaliste, possiamo dare una versione aggiornata del circuito del capitale costituito da quattro elementi; produzione, circolazione, riproduzione della forza lavoro e (non) riproduzione della natura. In ciascun punto vedremo come il capitale stia oggi utilizzando tecnologie avanzate per applicare comando sui suoi soggetti, imponendo incrementi sempre maggiori al lavoro, un intensificazione delle relazioni di mercato, un’approfondita sussunzione di istruzione, medicinali e maternità, e l’accettazione dell’incremento di inquinamento ambientale. Finiamo poi con una visione di come le comunicazioni mediate dal computer integrino la crescita del capitale nel complesso di quella che Marx chiama la rete di relazioni sociali, creando un medium digitale universale per misurare, sorvegliare e controllare.21

Comunque, cosa importante, il nostro modello è una mappa non solo della forza del capitale, ma anche della sua debolezza. Tracciando i nodi ed i legami necessari al flusso di capitale, tracceremo anche i punti ove queste continuità possono essere infrante. In ogni momento saremo così in grado di vedere come la gente si sta opponendo alla disciplina tecnologica del capitale con pratiche di rifiuto o di riappropiazione. Vedremo come queste “tecno-lotte” si stiano moltiplicando ovunque nell’orbita del capitale, come i conflitti in un punto del circuito provochino crisi in altri punti e come una quantità sempre maggiore di attivisti stia utilizzando i macchinari, con i quali il capitale tenta di garantire l’integrità del suo potere, come mezzi per connettere le diverse ribellioni.22 Il circuito del capitale high-tech è anche un circuito di lotta.

 

 

Produzione: lavoratori senza fabbrica

 

Partiamo – sebbene non per restarvi – dal nucleo tradizionale della teoria marxista, il luogo immediato di produzione. Questo è il luogo ove il capitale spreme plus valore dai lavoratori, “assolutamente” (estendendo la giornata lavorativa) o “relativamente” (incrementando l’intensità o la produttività del lavoro). Qui le ribellioni operaie degli anni ‘60 e ‘70 hanno provocato un attacco padronale al lavoro devastante, nel quale possiamo identificare tre elementi: automazione, mobilità e partecipazione.

Primo, l’automazione. Per ristabilire il suo controllo, il management, ha investito massicciamente in “nuovi sistemi di produzione” interconnettendo computer, robot ed altri macchinari informazionali in complessi sempre più auto-regolati. In un primo momento, tali innovazioni, vennero introdotte proprio là dove la militanza dell’operaio massa era più forte; nella fabbriche automobilistiche, negli impianti chimici e siderurgici. Al giorno d’oggi questi sistemi vengono introdotti a livello sperimentale praticamente in ogni settore lavorativo, si va dal pizzaiolo al guardiano del faro. Sebbene le versioni totalmente integrate di questi settori lavorativi rappresentino ancora soltanto isole futuristiche in un mare di lavoro ancora svolto secondo metodi tradizionali, è però visibile all’orizzonte quel momento, di cui parlava Marx, in cui il capitale raggiunge il suo pieno sviluppo con la creazione di un “… sistema automatico di macchinari… azionato da un’automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa è costituito da numerosi organi meccanici e intellettuali, cosicché gli operai stessi sono determinati come sue membra coscienti”.23 In tale sistema il lavoro vivo non è stato “incluso nel processo produttivo, in quanto è piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei confronti del processo lavorativo”.24

Secondo, la mobilità globale. I sistemi di trasporto delle telecomunicazioni, dei computer-network e dell’high-tech, hanno notevolmente accelerata la capacità del capitale di “annientare lo spazio attraverso il tempo”, espandendo ed integrando il “mercato mondiale”.25 Di conseguenza, ove i lavoratori insubordinati non sono stati sostituiti dai macchinari, sono stati aggirati. La capacità tecnologica di integrare operazioni disperse ha permesso alle imprese di rompere i bastioni di fabbrica del proletariato industriale e di diffondere e disperdere il lavoro ricollocandolo da luoghi ad elevata militanza a luoghi immuni da conflitti, attraverso la distribuzione del lavoro a lavoratori a domicilio isolati nei ghetti elettronici delle telecomunicazioni, o, sempre più, esportati in zone del pianeta ove il lavoro è disciplinato dalla fame o dal terrore. Questa tendenza culmina in una “impresa virtuale” che, piuttosto che mantenere una forza lavoro e un impianto di produzione stabile, usa la sua portata elettronica per mettere insieme assemblaggi contingenti di lavoro in luoghi temporaneamente vantaggiosi, per poi rapidamente licenziare lavoratori e smantellare impianti secondo il flusso di produzione e di profitto.26

Terzo, la partecipazione. Per prevenire o fissare le varie rotture dei nuovi sistemi di produzione, e per farli funzionare a pieno regime, sono necessari operatori che siano creativi e vigili, o almeno svegli e non inclini al sabotaggio. Paradossalmente, l’introduzione di hardware e software, che riducono quantitativamente la necessità di lavoro, è stata accompagnata con un incremento manageriale concernente la qualità del restante “humanware”. Ciò si manifesta in svariati esperimenti post-tayloristi di organizzazioni del lavoro – “circoli di qualità”, “team concept”, “partecipative management”, “TQM”. Dietro a tutto ciò scorre un’idea di base: lo sfruttamento dei desideri di autonomia dei lavoratori ed una intensificazione dell’espropriazione. Gli aspetti intellettuali ed intersoggettivi del lavoro soppressi dal taylorismo sono mobilitati per risolvere problemi e partecipazione, ma solo all’interno di parametri e priorità determinate dai livelli maggiori di management. I risultati sono maggiormente totalitari rispetto alla vecchia disciplina della catena di montaggio, in quanto i lavoratori debbono dare non soltanto il loro corpo, ma anche la loro soggettività per la produzione di valore.27

Potenzialmente, queste innovazioni tecno-organizzative permettono una massiccia riduzione del lavoro socialmente necessario. Ma all’interno del capitalismo esse risultano in un esito completamente opposto: una disponibilità del lavoro intensificata. In Europa, nel nordamerica e a livello globale, il numero di senza lavoro e di lavoratori saltuari ha raggiunto livelli impensabili un quarto di secolo fa, ripristinando quella che Marx identificava come arma centrale del comando capitalista sulla classe operaia: il mantenimento di un permanente “esercito di riserva” di disoccupati.28 In un ordine sociale ove il reddito resta principalmente dipendente dal salario, lo spauracchio della disoccupazione mina il potere di sciopero, permette al management di costringere i lavoratori alla “cooperazione” e di ridurre salari e peggiorare le condizioni di lavoro.

Mentre i lavoratori concorrono tra di loro per l’impiego, il capitale li seleziona in diversi strati; riducendo il nocciolo di impiego permanente, la periferia di lavoratori temporanei e part-time, rifiutando ogni concessione di welfare. Il lavoro è segmentato in una sempre più violenta gerarchia che crea e rinforza discriminazioni di genere, razza ed età. Coloro che stanno nei gradini più alti della gerarchia devono lavorare sempre più duramente, più velocemente e con maggior flessibilità per salvarsi dal sottostante immiserimento; coloro che stanno ai gradini più bassi acquistano la sopravvivenza al prezzo di una super espropriazione, si vendono sul lavoro talmente a buon mercato che non vale la pena sostituirli con macchine. I robot ed il lavoro dei bambini, le biotecnologie e le parti del corpo sono integrate insieme nel nuovo ordine del capitale.

Malgrado l’apparente successo del capitale, gli anni ‘80 e ‘90 hanno mostrato straordinarie insorgenze; abbiamo, infatti, assistito ad un riproporsi di lotta di classe nelle forme più esplosive. Nel contesto nordamericano, il caso più drammatico è stata senz’altro la ribellione di Los Angeles del 1992. Non c’è miglior esempio dell’incapacità del capitale high-tech di risolvere i suoi problemi che questa rivolta negli stessi luoghi di quella di Watts degli anni ‘60. Rappresentata dai principali media semplicemente come rivolta razziale, in realtà l’insurrezione è stata una rivolta multiculturale anti-povertà che ha coinvolto latinoamericani, neri e bianchi in una comunità le cui fonti l’impiego industriale sono state sventrate attraverso l’automazione e la rilocazione globale.29 Gli insorti sono stati guidati dalla truppa del non-impiego e del sotto-impiego, che a causa dalla riduzione del welfare, ha trovato lavori di servizio o nelle industrie criminali che costituiscono l’altra faccia dell’economia high-tech. Costoro rappresentano precisamente la sorte con cui il capitale minaccia tutti i suoi lavoratori nell’era dei lavoratori senza fabbrica.

Allo stesso tempo, questa rivolta, sebbene eccezionale nella sua violenza, ha visto protagonista un contropotere proletario che vedremo ripetersi altrove in altre occasioni. La possibilità di piegare il complesso di controllo tecnologico su se stesso. Perfino nella profondità della repressione high-tech, la segregazione e la sorveglianza che circonda il South Central, l’insorgenza ha trovato le strade per fare in modo che il tessuto informazionale del capitale contemporaneo fosse utilizzato a proprio vantaggio.30 Infatti, tutto è iniziato proprio da un esempio di questa capacità; il video del pestaggio di Rodney King. Più in generale, lo spirito della ribellione era già stato anticipato dalla quintessenza della techno-music, dall’hip hop e dal rap. Durante la rivolta, il LAPD [Los Angels Police Department] non è riuscito a controllare le strade, non solo per timore della potenza di fuoco delle gang di strada, ma anche a causa del coordinamento tramite walkie-talkie dei saccheggiatori. L’onnipresenza dei media, che hanno dato una copertura televisiva come mai era stato fatto nella storia delle rivolte, ha avuto un effetto ambiguo, inizialmente la sua rappresentazione ha da una parte demonizzato e distorto gli avvenimenti, ma, dall’altra, non ha potuto evitare completamente di dar voce al loro oltraggio, e così ha contribuito alla circolazione della rivolta e delle dimostrazioni ad Atlanta, Cleveland, Newark, San Francisco, Seattle, St. Louis, Toronto ed, oltre l’Atlantico, fino in Europa.31 Allo stesso tempo molti media alternativi, come stazioni radio locali nei quartieri neri e computer-network, hanno dato in contemporanea un’ampia gamma di notizie, analisi e manifesti. Tra questi c’è stato lo straordinario “Bloods/Crips Proposal for L.A.’s Face Lift”.32 Questo documento, che è un progetto complessivo di ricostruzione di Los Angeles – incluse condizioni per l’ambiente urbano, l’educazione, la salute i servizi e l’impiego -, è stato in gran parte ignorato dai principali media. E’ un esempio di una capacità che vedremo ricorrere ripetutamente; la capacità proletaria (persino delle sue componenti di “rioter” e “criminali”) di proporre contro-iniziative ed alternative al regime di sottosviluppo del capitale high-tech.

Nel centro di una sempre più buia disoccupazione e sfruttamento, appaiono, in diversi settori, nuovi movimenti di lavoratori che combattono per preservare i loro mezzi di sostentamento e la loro dignità.33 Ne è scaturito sia un revival delle forme classiche di lotta – scioperi, blocchi, rallentamenti, disobbedienza civile di massa – che drammatiche innovazioni e strategie. Nella stessa Los Angeles le comunità che insorsero nel 1992 hanno generato un ondata di militanza sul lavoro nelle pulizie degli hotel, nei fast food, ecc.34 Al nord, portieri e lavoratori dei servizi hanno, per la prima volta, bloccato la mecca dei computer di Silicon Valley35; all’est, lotte simili sono state fatte nel complesso dell’industria del divertimento di Las Vegas36; nel sud le lavoratrici del settore del vestiario, che sposta le sue operazioni sul confine tra Messico e USA, si sono organizzate.37 Altrove, nei tardi anni ‘80 e nei primi ‘90, abbiamo visto le maggiori battaglie effettuate sui luoghi di lavoro delle ditte di confezione ad Hormel38; dai minatori in Appalachia ed in Canada del nord; dai lavoratori delle cartiere di Maine39; dai lavoratori dei veicoli, della gomma e dello zucchero che scioperando simultaneamente hanno trasformato l’Illinois in una “zona di guerra di classe”40; dagli operatori delle linee aeree dall’Alaska a Miami; dagli addetti delle telecomunicazioni nel New England41 e dai lavoratori dei quotidiani a San Francisco; dai lavoratori del settore automobilistico del Michigan che hanno riscoperto le tradizioni militanti degli scioperi di Flint42; e dal personale infermieristico e del settore educativo che si è opposto alle riduzioni di spese da New York a Winnipeg.

Malgrado le loro ovvie diversità, questi movimenti hanno alcune rassomiglianze. Schematizzando, possiamo dire che i loro tre punti di attacco sul luogo di lavoro contro il capitale sono i seguenti: contro la partecipazione nella nuova organizzazione del management hanno scelto l’antagonismo; contro la mobilità delle imprese hanno opposto alleanze comuni; e contro l’automazione del lavoro hanno proposto un aumento dell’autonomia del lavoro.

Primo, l’antagonismo. Una volta entrati nella realtà dei nuovi schemi di lavoro del capitale, i lavoratori hanno scoperto che dietro alle promesse di partecipazione e collaborazione stava una realtà di accelerazione dei ritmi, di arbitrarietà di licenziamento, di chiusura di impianti e di salari diminuiti. Si sono avute, sempre più, eruzioni di base contro la collaborazione lavoro/management; consapevoli che ciò si traduce nell’attuale controllo sulle condizioni di lavoro. Sebbene i sindacati hanno spesso fornito il veicolo di organizzazione per queste insorgenze, ed in alcuni casi hanno fornito reale supporto e direzione, tali ribellioni sono spesso scoppiate a livello locale di base in opposizione con i livelli superiori delle burocrazie sindacali profondamente complici delle dottrine di partecipazione. Spesso anche essi si sono presentati tra i lavoratori e il livello più basso della gerarchia della forza lavoro, tra donne e gente di colore, i cui network di supporto sono fondati fortemente nel genere e nell’etnicità come nelle tradizioni di movimenti del lavoro, e la cui autorganizzazione porta con sé cambiamenti a strutture stabilite e strategie sindacali. Qualsiasi siano state le particolarità delle loro eruzioni, comunque, queste rivolte hanno in comune il rifiuto, da parte dei lavoratori, di farsi sfruttare nella loro intelligenza collettiva dagli ordini del giorno del management, e una mutuale mobilitazione di cooperazione tra i lavoratori contro il capitale.

Ciò ci porta alla seconda caratteristica di tali lotte-alleanze. Di fronte alle nuove abilità del capitale di aggirare e sopraffare rivolte isolate, i lavoratori hanno, con sempre più urgenza, cercato legami tra differenti punti di resistenza. Questa tendenza assume svariate forme; incremento di sforzi di organizzazione settoriale piuttosto che su basi di singoli impianti, costruzione di legami intersettoriali, legami tra le donne latinoamericane di Fuerza Unita, lavoratori in sciopero nelle telecomunicazioni e nelle industrie del vestiario, supporto mutale tra i lavoratori delle linee aeree, delle costruzioni e autisti dei bus organizzati da Jobs With Justice di Miami.43 Ciò è visibile anche nell’estensione dell’arena delle lotte oltre i confini del luogo di lavoro attraverso i boicottaggi di consumatori e le “corporate campaign” che hanno colpito ogni aspetto degli investimenti padronali. Ancora più importante, queste lotte hanno portato le organizzazioni dei lavoratori in coalizioni sperimentali con altri movimenti sociali – per il welfare, anti-povertà, degli studenti, gruppi di consumatori e di ambientalisti – che, per ragioni che presto esploreremo, sono anche loro in collisione con l’ordine delle imprese. Così i lavoratori di Silicon Valley che combattono le produzioni tossiche delle compagnie di computer, hanno legato le loro lotte con quelle degli attivisti ambientalisti e per gli alloggi; gli scioperi contro la compagnia telefonica Nynex hanno messo insieme anziani, minoranze e gruppi di consumatori per far ritirare l’aumento delle tariffe proposto dalla compagnia, e sindacalizzazione nei ghetti dei fast food e dell’industria dell’abbigliamento intrecciata con campagne contro il razzismo e la persecuzione degli immigrati. Benché tali alleanze sono spesso piene di difficoltà, esse tendono sempre più ad aprire un varco nei confini delle politiche ufficiali del “lavoro”. Contrariamente alle fantasie postindustriali, i conflitti sui luoghi di lavoro non si sono dissolti nella fluidità delle nuovo sviluppo tecnologico; ma si sono decentralizzati e ricomposti con altre aree di attivismo. L’agente di contromobilitazione contro il capitale diviene non tanto il sindacato per sé, quanto la “labour community alliances”, che il filone dell’autonomist marxism descrive come insieme di differenti settori di lavoro salariato e non salariato all’interno alla fabbrica sociale.44

Centrale alla creazione di queste nuove solidarietà è la riappropriazione dei macchinari comunicativi ed informativi che il capitale usa per garantire la sua mobilità. Legami intersettoriali, corporate campaign e organizzazioni di comunità sono una forma di attivismo ad alta intensità informatica, che richiedono un’attenta tracciatura ed analisi degli obiettivi dei flussi di capitale e movimenti, e organizzazione di un complesso di contro-azioni. Molte delle lotte emergenti sul lavoro fanno uso delle tecnologie dell’informazione per tracciare mappe di sviluppo di opposizione alle imprese e per mobilitare i loro membri. Gli attivisti di Los Angeles utilizzano analisi di dati per identificare potenziali luoghi di organizzazione, le coalizioni di Miami contano sulle liste di membri computerizzate e i lavoratori dell’Illinois hanno squadre coordinate con computer di “road warrioris” diffuse su tutto il paese per molestare le imprese.45 Inoltre, sebbene alcune delle nuove comunità di lotta sono formate su basi di prossimità geografica, come i “peoples strikes” dei minatori di Pittston, molte cercano dialogo, discussione e coordinamento tra agenti dispersi all’interno della fabbrica sociale (e sempre più globale). Per rendere ciò possibile fanno ricorso alle tecnologie che il capitale destina a strumenti di divisione e di decomposizione – video, telecomunicazioni… – trasformandole in canali di collegamento e di ricomposizione. Tutto questo è cruciale per il futuro delle nuove insorgenze che esamineremo in dettaglio nelle prossime sezioni.

Terzo, i nuovi movimenti contestano non soltanto il controllo del capitale dello spazio – attraverso le comunicazioni – ma anche il suo controllo del tempo – per mezzo dell’automazione. Nella forma più tradizionale del sindacalismo, la risposta alla miseria della disoccupazione è la richiesta di “più posti di lavoro”. Comunque, attorno e sotto questa domanda migliorista per la perpetuazione della relazione salariale ribollono idee più sovversive. Una è una questione che Marx indicava essere vitale per l’emancipazione dal lavoro, ma che a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale è stato per lo più abbandonata dai sindacati: l’accorciamento della giornata lavorativa, o, come dicono gli esponenti dell’autonomist marxism, l’obiettivo del “zerowork”.46 La richiesta di una riduzione dell’orario di lavoro senza diminuire il salario, è ora inscritta nell’ordine del giorno dei settori più innovativi delle rivolte sul lavoro.47 Questa strategia è spesso favorita perché tende alla solidarietà tra occupati e disoccupati. Piuttosto che dividere quanti sono impoveriti dal poco lavoro da quelli che sono esausti dall’averne troppo, essa si apre verso una società ove si lavora tutti, ma poco.48 In ultima analisi, comunque, l’orizzonte che si prospetta è sempre più radicale: la dissoluzione del legame tra lavoro e reddito; e dunque la fine del salario come strumento di comando del capitale sul lavoro. Questa direzione è anche latente in obiettivi apparentemente molto più modesti; richiesta che i lavoratori licenziati siano compensati e supportati con schemi di formazione professionale che i lavoratori saltuari e a tempo determinato siano meglio pagati e ottengano le stesse indennità dei lavoratori a tempo indeterminato; in scioperi contro l’accelerazione dei ritmi; in un maggior tempo libero da dedicare ai figli; contro le riduzioni di welfare e dei sussidi di disoccupazione. Legare queste lotte significa negare al capitale di pianificare e dirigere a proprio vantaggio l’enorme potenziale di surplus di tempo di lavoro prodotto dall’automazione. Invece di tradurre questa riserva di tempo libero in riduzione salariale e vulnerabilità, emerge la richiesta proletaria di una sua conversione in risorsa di auto-sviluppo, permettendo così la riduzione del carico lavorativo senza povertà ed un lavoro che non renda esausti.49

Queste iniziative verso la riduzione quantitativa del lavoro si affiancano ad altre per la sua trasformazione qualitativa. Quando le imprese eliminano posti di lavoro, i lavoratori e le comunità hanno a volte sperimentato piani per le produzioni “socialmente utili” o “autonome”, incontrando bisogni sociali che il capitale ha negato.50 Tali iniziative possono andare da progetti per la produzione “verde”, per la conversione degli impianti militari a scopi civili, o nella difesa di un servizio pubblico di assistenza sanitaria, dei servizi telefonici o educativi. Spesso questi progetti si sviluppano all’interno di azioni militanti, come l’occupazione di un impianto designato alla chiusura: le fabbriche sono state circondate da picchetti finalizzati non solo a bloccare l’ingresso ai crumiri, ma anche ad impedire che i macchinari siano portati fuori. Nuovamente, tali risposte sono state intese come semplice salvaguardia di posti di lavoro, ma ai loro limiti estremi esse esplorano la formazione di nuove collettività, di nuovi processi di organizzazione produttiva, di nuovi criteri per la produzione basata sul valore d’uso anziché sul valore di scambio. Così facendo, piuttosto che perpetuare semplicemente il lavoro così come lo conosciamo – lavoro inteso come posti di lavoro e salari – tali iniziative fanno emergere una riconfigurazione fondamentale di attività produttiva così radicale che autorizza l’uso di un altro termine.

Vi è un’inversione drammatica in questa reinterpretazione della quantità e qualità del tempo di lavoro. Storicamente, il capitale ha legittimato se stesso come fonte di ricchezza ed organizzazione sociale, come la forza che “fa sì che le cose vadano avanti”, per quanto la forza dei lavoratori si trovi nell’abilità di fermare la produzione, di “bloccare le cose”, ora questo modello si rovescia. Il capitale high-tech diviene agente di austerità e di smantellamento, ed il lavoro socializzato, che appare nella forma di nuove alleanze, emerge come forza costruttiva sostenente la comunità contro la disgregazione. Così, la tendenza è la seguente: come il capitale espelle i soggetti umani dalla produzione per mezzo dei macchinari, questi soggetti replicano attraverso la riappropriazione delle macchine per ricostituire la produzione al di fuori del capitale. Per vedere la finalità di questo processo, comunque, dobbiamo andare al più esteso dominio della fabbrica sociale.

 

 

Circolazione: media interattivi

 

La high-tech non trasforma soltanto la produzione, ma anche la circolazione. Se è a livello di produzione – luogo di lavoro – che il capitale estrae plusvalore, è a livello di circolazione – la sfera del mercato – che questo valore deve essere realizzato attraverso la vendita delle merci.51 Così come la produzione richiede un soggetto che lavori, la circolazione richiede un soggetto che consumi, e così come nella produzione il capitale sviluppa macchinari per ridurre il tempo di lavoro ed il controllo sui soggetti nei loro compiti di lavoratori, il mercato ha fatto ricorso alla tecnologia per velocizzare la circolazione ed il controllo sui soggetti nei loro compiti di consumatori. Per assorbire un volume crescente di produzione, gli individui devono credere di aver bisogno di ciò che il capitale produce, e che tali bisogni possono essere soddisfatti nella forma merce. Questo è il progetto di un regime di pubblicità e di marketing continuamente intensificato, dispiegatosi attraverso lo sviluppo di mezzi di comunicazione sempre più sofisticati.

Durante l’epoca dell’operaio massa, la radio e della televisione sono divenuti strumenti indispensabili per consolidare il ciclo virtuoso della produzione e del consumo di massa; nonostante ciò, le rivolte degli anni ‘60, hanno rotto questo circuito. Le domande dei lavoratori e dei gruppi delle comunità hanno alzato i salari e le spese sociali fino a minacciare la profittabilità. Per riconquistare il controllo, il capitale, ha disciplinato la società attraverso piani di austerità, anche se, così facendo, ha minato il potere di acquisto dei mercati di massa, e rischiato una crisi classica di realizzazione. Sono stati, così, ristrutturati non solo i luoghi di lavoro, ma anche il mercato. Sempre più, le imprese hanno cercato di internazionalizzare i loro sforzi di vendita per ridurre e segmentare i mercati interni, stimolando l’iper-consumo tra gli strati relativamente sottili dei lavoratori ben pagati per compensare la limitata capacità di consumo dei poveri e dei disoccupati.52

Questo rifacimento del mercato è inseparabilmente legato ad un raffinamento e ad una moltiplicazione dei canali dei media.53 Dai tardi anni ‘70, alla metà dei ‘90, abbiamo assistito, come controparte ai nuovi sistemi di produzione, al proliferare di nuove tecnologie di comunicazione: la tv via cavo e via satellite, i videoregistratori, i computer, le telecamere portatili. Nonostante si siano concentrate sotto il mantello di imperi di media sempre più concentrati, queste tecnologie sono state pubblicizzate come inauguratrici di una nuova era di scelte, di liberazione e di gratificazione personale. Al centro di questa euforica retorica vi è stata la promessa di vari tipi di “interattività”; in poche parole di sistemi che a differenza delle modalità di trasmissione unidirezionali, permettono uno scambio tra ricevente e trasmettitore.

In pratica, questi nuovi media soddisfano due scopi imprenditoriali. Primo, hanno permesso una crescita esplosiva dei mercati per l’intrattenimento e l’informazione. Attraverso i loro canali, i desideri di diversità culturale e di auto-espressione emersi negli anni ‘60, sono stati assoggettati ad una inarrestabile mercificazione, nel tentativo di convertire la cultura popolare, la musica rock, la moda, lo stile, lo sviluppo personale e la comunicazione da zone di attività sovversiva ad aree di vertiginoso sviluppo commerciale. Qui, come nei luoghi di lavoro, il capitale è avanzato solamente sfruttando l’energia sfogata contro esso. In tale contesto, l’interattività è venuta a significare essenzialmente semplice selezione in menu di merci culturali a pagamento da coloro possono permettersela.

Secondo, i nuovi media non solo creano nuove merci culturali, ma permettono anche uno straordinario raffinamento nel marketing di altri prodotti. Una caratteristica comune ai sistemi interattivi è la loro capacità di ritrasmettere alle imprese informazioni dettagliate circa le identità dei consumatori, la localizzazione, gli ambiti di consumo e la loro programmazione giornaliera. Integrato tra altri congegni elettronici diffusi nei punti di vendita come le carte di credito, fatturazioni, sottoscrizioni e i sondaggi diretti, tutto ciò permette la compilazione di profili comportamentali dettagliati dei consumatori. Così, tali dati, pongono le basi per micromercati altamente mirati, richiesti da una sempre più stratificata e gerarchizzata organizzazione del consumo. Inoltre, i dati “interattivi” sui consumatori interpellati possono dare un feedback a sistemi di produzione flessibili e just-in-time in modo da avere i dati necessari per una rapida risposta al modificarsi delle condizioni di mercato. Essi, così, offrono la premessa di quel che Kevin Wilson definiva un vero ciclo di “produzione e consumo cibernetico”.54

La migliore indagine circa le implicazioni derivanti da tale situazione resta, con tutta probabilità, quella sviluppata, circa un decennio fa, da Dallas Smythe che indicò che il pubblico televisivo, “imparando a comprare”, “lavorava” effettivamente per gli inserzionisti pubblicitari.55 In questa prospettiva, l’espansione dei media del capitale elettronico raggiunge livelli di estensione del comando sul suo uso soggettivo del tempo, che permettono di espropriare non solo la forza lavoro (labour-power) in fabbrica, ma anche la “forza audience” (audience-power) a casa.56 Dal momento che il centro di intrattenimento casalingo diventa condizione non solo per l’arrivo di un flusso di propaganda aziendale, ma anche per uno scorrimento socievole di informazione sui suoi telespettatori, tale analisi guadagna in solidità. Il livello di sorveglianza domestico si avvicina verso quello già sperimentato sui luoghi di lavoro, e l’attività del “tele-osservatore” salariato nella fabbrica automatica diviene integralmente legata al “tempo di tele-osservazione” non pagato che (lei/lui) passa di fronte al televisore.57 All’interno del circuito di capitale high-tech, il tasso di espropriazione e la velocità di circolazione misurano semplicemente i differenti momenti ininterrotti, sovrastanti, processi di valorizzazione internamente differenziati, ma sempre più unificati.

Però, le analisi come quelle di Smythe spesso suppongono che l’espropriazione, voluta dal capitale, di forza-audience abbia successo. Da una prospettiva di autonomist marxism, la questione più interessante è come il capitale fallisce in ciò. La maggior parte delle analisi della sinistra comprensibilmente sottolineano il grado di controllo ideologico esercitato dai conglomerati di media contemporanei, ma è importante anche ricordare che questi imperi dipendono da schiere di lavoratori intellettuali e tecnico-scientifici; giornalisti, film makers, sceneggiatori, musicisti… Alcuni di questi lavoratori hanno interessi creativi, di integrità, di libertà di espressione e perfino di giustizia sociale, autonomi. I regimi espliciti o impliciti di censura, cooptazione, standardizzazione e razionamento delle risorse che limitano questo potenziale sono formidabili, ed il prezzo da pagare per le trasgressioni è prevedibilmente alto, ma giungere alla conclusione che il capitale detiene un comando monolitico sui contenuti dei media significa sovrastimare il suo potere di controllo sul processo informazionale di lavoro che, come altri processi, è terreno di frizione e di lotta: le cose sono, contro ogni previsione, scivolate dalle maglie del linguaggio orwelliano d’impresa; la sit-com che furbescamente parla di classe, la musica che racconta delle condizioni dei ghetti, la satira che ridicolizza la rete imprenditoriale, i rapporti investigativi. I media sono meccanismi di indottrinamento capitalista, ma a causa dell’irresponsabilità del lavoro high-tech, a volte prendono il volo.

Probabilmente, ancor più sovversiva dell’autonomia dei lavoratori dei media è quella dell’audience dei media. Se la forza-audience è oggi analoga alla forza-lavoro, perciò è anche una soggettività disobbediente che evade, resiste e trasforma le macchine di controllo. E’ oggi disponibile un’ampia documentazione circa il fatto che gli osservatori, gli ascoltatori ed i lettori non sono recettori passivi in attesa di iniezioni ipodermiche di messaggi narcotizzanti, ma piuttosto agenti attivi che ingaggiano centinaia di piccole linee di fuga e di combattimento; dal capovolgere del significato degli annunci alla reinterpretazione dei programmi ed alla creazione di micro-network di attività culturale demercificata.58 Come in fabbrica o in ufficio, la risposta alle nuove tecnologie può assumere la forma del sabotaggio, della resistenza passiva o del gioco, altrettanto il campo della circolazione di capitale può trovarsi tormentato da un mondo ombra di contro-utilizzo. La ricerca, da parte delle imprese, di espandere costantemente i mercati, ha infatti talmente socializzato l’uso delle tecnologie comunicative da renderle disponibili per un intero spettro di usi che violano i suoi progetti; zapping, surfing, registrazioni, pirataggio, bootlegging e culture di disturbo.59

Molte di queste auto-attività dei lavoratori e dell’audience dei media, sono scollegate dalle organizzazioni politiche, e quindi facilmente ricuperabili.60 Diverse di queste, però, assumono forme che sono consapevolmente collettive ed oppositive; in particolare nel campo dei “media autonomi” associati a movimenti sociali radicali.61 Tali esperimenti sono fioriti nelle stazioni radio pirata, nei sistemi port-a-pack video, nella stampa di sinistra e nei film indipendenti degli anni ‘60 e ‘70. Infatti, molte delle innovazioni delle imprese dei media possono essere viste come tentativi di recupero di questi sforzi. Ciò che occorre sottolineare, comunque, è che nonostante la cooptazione, l’austerità e l’attacco da destra, questo impulso verso i media autonomi non solo ha continuato a persistere, ma in alcuni casi si è allargato, ha sviluppato nuove forme organizzative, nuove tecnologie e nuove partecipazioni.

Infatti, come osserva Dorothy Kidd, siamo attualmente testimoni di due movimenti contraddittori: consolidamento aziendale e la transnazionalizzazione dei media per l’estensione di un tipo di mercato che controlla le interazioni sociali in tutta la giornata lavorativa ed, allo stesso tempo, una gran varietà di movimenti sociali e politici di opposizione usano i mezzi di comunicazione a livello locale, regionale, nazionale ed internazionale per sostenere e costruire comunicazioni comuni.62 Gli attivisti delle radio hanno continuato a diffondersi ed a organizzarsi globalmente attraverso strutture come la World Association of Community Broadcasters (AMARC), e si sono rinvigoriti nel nordamerica con la proliferazione di sistemi a basso costo, a bassa potenza e con, solitamente illegali, sistemi di trasmissione radio in FM nelle comunità dei ghetti, tra gli occupanti ed i senzacasa.63 Video-maker di opposizione sono passati da pratiche di avanguardia a pratiche comuni tra i movimenti sociali; registrando le culture di gruppi aborigeni in lotta contro lo sviluppo delle imprese, le occupazioni di ditte farmaceutiche da parte degli attivisti colpiti da AIDS, le condizioni di lavoro dei portieri latinoamericani e chicani in lotta nell’industria alberghiera di Los Angeles.64 Nuove aree di attivisti si sono aperte attorno alla televisione, con tentativi di creare e sostenere negli USA ed in Canada un sistema a cavo ad accesso pubblico; un medium il cui potenziale politico è stato sviluppato dal collettivo Paper Tiger Television e dal suo progetto di trasmissione via satellite Deep Dish.65 I computer-network hanno raggiunto dimensioni di cui ci occuperemo in una sezione separata di questo articolo.

Tali esperimenti offrono un’alternativa all’interattività capitalista. L’interattività delle imprese è ratificatoria: essa offre il dialogo all’interno degli attuali limiti di profittabilità in modo da, come fa notare Barry Carlsonn, si possa far decidere ai lavoratori modalità di partecipazione ad eventi senza però lasciare loro decidere quali essi siano.66 La logica dei media autonomi, d’altra parte, è “alternativa”; sonda i limiti dell’ordine costituito.67 La sua parte migliore, si muove verso pratiche di auto-rappresentazione, coinvolgendo soggetti nella definizione e documentazione delle loro esperienze sociali; tentando di superare le restrizioni di competenze tecniche centrali di differenti ordini sociali. Contro l’uso capitalista delle tecnologie di comunicazione, per far circolare le merci, i media autonomi fanno di queste tecnologie un canale per la circolazione delle lotte, connettendo e rendendo visibile la molteplicità dei movimenti sociali. Per comprendere, però, questa molteplicità, dobbiamo andare oltre la produzione e la circolazione, al regno della riproduzione.

 

 

Riproduzione della forza lavoro

 

Resistenze al capitale sono sorte non soltanto sui luoghi di lavoro o a livello di mercato, ma in tutta la comunità; negli ospedali, nelle strutture del welfare, nelle scuole e nelle università. Nella prospettiva dell’autonomist marxism questi luoghi di riproduzione della forza lavoro sono luoghi ove si viene preparati e rimessi in sesto per lavorare.68 Questa è la sfera ove il capitale tenta di formare, mantenere e rinnovare la riserva delle menti e dei corpi di cui necessita, ordinati in strati appropriati e oggetto di investimenti in rapporto ad aspettative di profitto. Qui, comunque, il potere delle imprese, piuttosto che manifestarsi direttamente, solitamente appare mediato attraverso le strutture di un enorme stato in cui ha, nel corso del secolo, fatto sempre più affidamento per la pianificazione ed il controllo della fabbrica sociale.69

Anche in questa sfera, comunque, il desiderio popolare per una vita “più piena” di quella permessa da mondo del lavoro – salute migliore, maggior educazione, meno lavoro faticoso – porta al conflitto. Sempre più il conflitto sul salario di fabbrica è stato affiancato da lotte per un “salario sociale”, ridirigendo le spese pubbliche e le strutture del welfare state lontane dagli obiettivi puramente funzionali al capitale, cercando così un parziale riappropriamento di queste risorse. Infatti, nelle crisi degli anni ‘60 e ‘70, le domande dei movimenti sociali per una maggior democratizzazione ed una maggior spesa sociale hanno minacciato il capitale con seri problemi sia di governabilità che di “crisi fiscale dello stato”.70

La risposta è stata la politica della terra bruciata del neoconservatorismo e dei governi neoliberali, con la loro sistematica auto-distruzione di ogni infrastruttura sociale che poteva proteggere dalla disciplina imposta del mercato. Nuovamente il contrattacco ha fatto uso di uno sviluppo tecnologico intensivo. Dall’automazione del settore dei lavori pubblici, alle impronte digitali elettroniche dei destinatari del welfare e l’uso di bracciali elettronici sui prigionieri fino ai più avanzati arsenali di forze di sicurezza interne: computer, telecomunicazioni e biotecniche hanno fornito la strumentazione per un attacco al welfare state le cui spese sono divenute incompatibili con la profittabilità capitalista.

Allo stesso tempo, nonostante la retorica del libero mercato, il capitale ha continuato a mantenere ed allargare le funzioni di governo come pianificazione e sicurezza per il proprio sviluppo tecnico-scientifico. Anche per il deterioramento che si è avuto di scuole, ospedali, università e famiglie, gli affari richiedono ancora tecnici in buona salute e biologi molecolari di prim’ordine. La disintegrazione generale del welfare sociale procede simultaneamente ai finanziamenti privati alla ricerca e alla formazione; attraverso forme di sovvenzionamento diretto, collaborazione universitaria, contratti militari o privatizzazioni.

Comunque, questa riduzione del welfare state ha catalizzato nuovi movimenti di opposizione, diversi per tematiche e stili da quelli degli anni ‘60, organizzati da diverse comunità, ma sempre più inseriti in reti di alleanze gli uni con gli altri. Inizialmente difensivi, i più innovativi di questi, hanno iniziato ad esplorare sia nuove forme collettive per il soddisfacimento di bisogni sociali, che a scoprire nuovi usi e disegni per l’enorme apparato tecnico-scientifico che lo stato capitalista ha dispiegato contro di essi. Andremo ora ad analizzare tre esempi di queste lotte: nelle università, nella salute e nel controllo della maternità.

 

 

1) Università virtuale

 

Negli anni ‘60 gli studenti, da Berkeley alla Sorbona, si sono ribellati contro la subordinazione universitaria al complesso industriale militare; si è trattato della prima insorgenza di un knowledge-proletariat in formazione.71 La risposta immediata dei manager statali a questa ribellione di giovane capitale umano è stata data attraverso lacrimogeni, spari ed espulsioni, mentre la loro risposta a lungo termine si è avuta con riduzione e ristrutturazione. Nei tardi anni ‘70 e negli anni ‘80 sono stati tagliati i fondi per i livelli di educazione post-secondaria in molte economie capitaliste, le tasse di iscrizione ed i debiti degli studenti sono aumentati sempre più, ed i programmi ritenuti pericolosamente radicali, o semplicemente inutili, sono stati limitati o eliminati.

Con le agitazioni nei campus apparentemente annullate dall’ansietà finanziaria e dalla decomposizione dei centri del dissenso, le condizioni sono sembrate adatte a nuove e più profonde integrazioni tra università e mondo degli affari, vitale allo sviluppo delle high-techknowledge industries”. Il denaro sottratto dal budget operativo di base è stato in parte fatto rientrare in programmi di scienza applicata, in scuole di comunicazione, di amministrazione degli affari e di ingegneria, e in speciali istituti per computer, biotecnologie e ricerche spaziali. Sempre più, l’università virtuale di laboratori on-line, tele-seminari e video-lezioni è divenuta la base formativa per i vari livelli di una forza lavoro di tecno-letterati richiesta dall’impresa virtuale. Simultaneamente, abbiamo avuto una proliferazione di programmi di ricerca mirati e sponsorizzati, di parchi industriali, di settori privati di collegamento, consulenze e appuntamenti incrociati forniti dalle imprese high-tech, la facilità di socializzare i costi ed i rischi della ricerca e privatizzare i benefici. Non soltanto l’accademia ora riproduce generazioni di studenti per impieghi futuri – appropriatamente formati, socializzati, classificati ed indebitati – ma spesso ha anche immediatamente reso a disposizione degli imprenditori il loro lavoro a basso prezzo o non pagato. Come osserva David Noble, “sebbene gli affari siano sempre stati gestiti nelle università (…) abbiamo ora un’intensificazione dell’interdipendenza al punto tale che si avvicina all’identità”.72

Comunque, la convinzione che i campus fossero stati pacificati, appare ora prematura. Nei tardi anni ‘80 ed nei primi anni ‘90, è emerso un nuovo ciclo di lotte universitarie. Tra queste lotte abbiamo le rivolte degli studenti francesi del 1986 e del 1994; il movimento degli studenti italiani della “Pantera” contro la privatizzazione; agitazioni simili si sono avute in Spagna; importanti scioperi ed occupazioni nelle università australiane; ed il risorgere di attivismo politico nei campus nordamericani.73

Scrivendo di questo revival nordamericano, Robert Ovetz, nota come sia composto da numerose fonti differenti che tuttavia spesso si mettono in moto a vicenda.74 Queste fonti di attivismo politico includono le proteste contro gli aumenti delle tasse, i corsi chiusi, i tagli ai sussidi per studenti e aumenti vertiginosi dei debiti; movimenti contro lo “sviluppo” delle terre universitarie per ricerche parchi e tecnologie di ricerca; campagne per i diritti umani contro l’integrazione accademica agli investimenti aziendali globali in luoghi come Sudafrica o East Timor. Questi movimenti si mescolano con un’ondata di lotte su razzismo e sessismo, ai tentativi delle donne e della gente di colore di cambiare i contesti patriarcali ed eurocentrici dei piani di studio, delle nomine e dell’amministrazione; un cambiamento che definisce anche la logica dell’integrazione università-mondo degli affari, sia nel suo spirito generale di insubordinazione, che in base alle domande di distribuzione delle risorse per proposte “non-produttive” come i centri per le donne, asili, misure di sicurezza e programmi di studi multiculturali e femministi.

Questo tessuto di proteste si sovrappone, inoltre, alle lotte del personale che si batte contro la saltuarizzazione del lavoro; qui gli studenti laureati, sia impiegati salariati che studenti non salariati, hanno giocato un ruolo significativo, dando il via ad una serie di scioperi degli assistenti all’insegnamento. Inoltre, per quanto l’integrazione assoluta dell’accademia con il mercato del lavoro sposti il raggio d’azione degli studenti attivisti negli anni ‘60, apre la via a collegamenti tra gli studenti ed altri lavoratori salariati e non salariati. In nordamerica questo non è ancora giunto all’enorme livello di confluenza avvenuta in Francia nel 1994 tra studenti e mondo del lavoro causato dalla proposta di una riduzione del salario minimo giovanile d’ingresso al mondo del lavoro. Ma in Canada e negli Stati Uniti è sempre più frequente trovare studenti ed insegnati che partecipano a coalizioni generali contro l’assalto al salario e al welfare state.

Il risultato di queste coalizioni, è stato una crescita graduale della turbolenza nei campus universitari: picchetti, dimostrazioni e occupazioni, fino a scioperi nazionali in Canada ed in sempre più acuti scontri tra polizia e studenti in svariati campus statunitensi. Molte di queste proteste contrappongono una politica di sapere radicale all’agenda tecnocratica delle imprese dell’informazione. Ciò è implicito anche nella difesa delle scienze “essenziali” contro la domanda montante di ricerca applicata. Si sono spesso avute lotte in difesa di, o per dare il via a, programmi di studio su tematiche femministe, ecologiste, culturali o concernenti il mondo del lavoro.

Mentre i movimenti degli studenti cambiano i confini delle imprese di sapere, essi interferiscono, anche aggressivamente, nel sistema dell’informazione che l’università sviluppa per i suoi partner d’affari. In alcuni casi, questo ha comportato blocchi alla colonizzazione high-tech dell’educazione, come nel caso dei giovani attivisti Unplug giovani attivisti che hanno cacciato il primo canale dell’impresa commerciale Whittle da diverse scuole negli Stati Uniti.75 In altre, ha comportato il recupero dell’info-tech per proposte alternative. Mentre le attività comunicative degli studenti cinesi in lotta contro il socialismo di stato, durante il massacro di Pizza Tienammen, sono state ben pubblicizzate, si è dato poco risalto ad iniziative simili portate avanti da studenti nelle società capitaliste. Le proteste degli studenti in Europa ed in nordamerica negli anni ‘90, sono state caratterizzate dalla loro sofisticata comprensione dei media, e da un’abile uso di fax, video e, in particolare, di computer networks. L’enorme protesta degli studenti francesi del 1986 ha visto l’uso esteso del sistema Minitel per coordinare le proteste e diffondere le loro posizioni su larga scala. Nel nordamerica, gli studenti non solo hanno giocato un ruolo rilevante nella creazione non autorizzata dell’Internet, ma lo hanno anche usato per collegare le proteste dei campus geograficamente dispersi. Così nella primavera del 1994 quando gli studenti latinoamericani e chicani nelle università del Michigan, del Colorado, del Nebraska ed in numerosi luoghi della California sono esplosi in scioperi della fame ed occupazioni – nella richiesta di nuovi programmi, iniziative anti-razziste, il boicottaggio in supporto ai lavoratori del settore, il dare il nome ad edifici in memoria di Cesar Chavez – le loro proteste sono state collegate con comunicazioni via computer facilitate da bibliotecari simpatizzanti, e da organizzatori sindacali delle facoltà.76 Analogamente, il 1995 ha visto il coordinamento via computer di proteste di più campus contemporaneamente contro i tagli ai sussidi economici per studenti.77

L’isteria conservatrice circa la “correttezza politica” dei campus è a volte interpretata come un ultimo sforzo della destra trionfante contro una sinistra in ritirata; ma può essere letta anche diversamente; come un attacco di panico reale della classe dominante causato dalla non felice realizzazione che le istituzioni stesse, che sono il presupposto dell’economia basata sulla conoscenza, non sono poi così sotto controllo come era stato assunto. Esse continuano a produrre menti che non solo rompono con il ruolo riservato ad esse dal capitale, ma che anche sono educate a disseminare il loro dissenso attraverso i canali tecnologici più avanzati.

 

 

2) Medical Screening

 

Anche nell’era high-tech, comunque, il capitale necessita non solo delle menti, ma anche dei corpi. E’ proprio alla gestione dei processi corporali di nascita, sesso, morte per invecchiamento e malattia – la biopolitica della riproduzione della forza lavoro -, che una larga parte del suo apparato tecnico-scientifico è dedicata.

Nelle crisi degli anni ‘60 e ‘70, il settore della salute, come altre aree della fabbrica sociale, diviene un luogo di rapido aumento della spesa e di richieste indisciplinate degli attivisti sociali. Nuovamente, il contrattacco capitalista, si è dispiegato in riorganizzazione ed introduzione di nuove tecnologie. Negli anni ‘80 e ‘90 si è visto un massiccio attacco neoconservatore sul piano dei costi della salute pubblica, del salario e delle condizioni del personale infermieristico e dei servizi, si sono avute chiusure di ospedali e cliniche, prolungamenti delle liste d’attesa ed una generale erosione dell’assistenza gratuita. Allo stesso tempo il capitale ha riportato l’assistenza sanitaria di base a livelli del secolo scorso, facendo riaffiorare epidemie di tubercolosi ed altri malattie del genere, si è sviluppata anche una serie di tecniche mediche futuristiche – biotecnologie, trapianti di organi, nuovi super farmaci – annunciate come elementi volti a trasformare i limiti di mortalità.

L’interesse reale del capitale è in realtà l’abbassamento del costo della riproduzione della forza lavoro e l’apertura di nuove aree di mercificazione. L’ingegneria genetica – la trasformazione della vita organica attraverso congiunzioni, tagli e ricombinazioni di cellule e cromosomi – è divenuta, a partire dagli anni ‘70, la base dei complessi industriali multimiliardari, comprendenti somme da capogiro di capitale speculativo, della proliferazione di imprenditori accademici, e della frenesia per diritti di proprietà nelle specie transgenetiche e nelle catene di cellule umane. Oggi, l’ambizione di questa industria è focalizzata sullo “Human Genome Project”, gli Stati Uniti hanno sponsorizzato i tentativi di mappatura del DNA per un prototipo umano “normale”; un programma comparabile per costo e finalità, al programma spaziale dei precedenti decenni.78

Sebbene l’ingegneria genetica sia stata generalmente pubblicizzata come mezzo per curare problemi ereditari, i suoi principali risultati attuali non sono terapeutici e nemmeno diagnostici, ma predittivi. Gli esami genetici permettono identificazioni probabilistiche delle condizioni di cui non si conosce, al momento, rimedio od esistenze prevedibili. L’attrazione manifestata dai manager privati o statali per tali tecniche, è dovuta al fatto che esse offrono modalità, non guarigioni, per individuare soggetti con predisposizioni a malattie costose.79 La capacità di identificare lavoratori “iper-predisposti” con una supposta sensibilità genetica verso elementi chimici tossici o radiazioni è già divenuta negli Stati Uniti una significativa fonte di discriminazione per le assunzioni. Tale capacità di identificazione provvede anche a fornire un alibi per la mancata eliminazione di tali inquinanti, che diventano ridefiniti non come pericoli sociali, ma come problemi di predisposizione individuale e quindi in grado di essere maneggiati da lavoratori geneticamente “subsensibili”. L’uso esteso di screening genetico apre la possibilità di un controllo completo della qualità della riproduzione della forza-lavoro basata sul DNA, controllo finalizzato non alla cura di malattie, ma al fine di scartare unità lavorative improduttive, sovrasensibili o care.80

Alla fine, gli ingegneri genetici saranno in grado non semplicemente di predire, ma di curare o modificare la costituzione genetica di un individuo. Le industrie della biotecnologia attendono abbondanti profitti dalla creazione di nuove modalità per migliorare salute, longevità e piacere; per coloro che possono permettersele. Questo potenziale è già visibile nel germogliare di un mercato per sintetizzare la crescita degli ormoni umani, fertilizzazione in vitro, seni al silicone, chirurgia cosmetica, medicinali con prestazioni accresciute e trapianti di cuori, fegati, reni e cornee.81 Si è in attesa dei risultati dello “Human Genome Project” che forniranno i dati essenziali per l’apertura di nuove “brecce” nell’accrescimento del corpo umano. Questi sviluppi estendono la tendenza fondamentale del capitale alla sussunzione di ogni aspetto dell’attività umana all’interno della forma merce fino a livello micro-cellulare.

In fin dei conti, lo screening genetico offre nuovamente la prospettiva di un agenda eugenetica che era stata screditata con la caduta del fascismo. Le basi per tali sviluppi sono già state date in tendenze genetiche, piuttosto che nella spiegazione sociale, per tutti gli ammalati da delinquenza a dislessia; a diagnosi cliniche di deviazioni da norme prevalenti; e al revival di teorie razziste che naturalizzano l’iniquità. Tuttavia, la spinta commerciale alla base della biorivoluzione significa che un’eugenetica high-tech contemporanea avrebbe probabilmente una qualità diversa rispetto ai suoi precursori storici. Sebbene non sia possibile escludere programmi statali diretti all’eliminazione di specie genetiche non desiderate, le operazioni del mercato saranno ugualmente importanti. Come la possibilità di impiego dipendono in misura crescente da un profilo genetico pulito, o perfino dal possesso di caratteristiche migliorate attraverso la bioingegneria, selezioni positive o negative saranno lasciate agli istinti di sopravvivenza e al portafoglio degli individui ai quali verrà richiesto di riprodurre biotecnologicamente la loro forza-lavoro e quella dei loro figli nella forma più vendibile, all’interno di un contesto di un sistema sanitario sempre più stratificato, privatizzato e caro. Il capitale andrà così a stabilire una gerarchia di forza lavoro in cui i vari livelli di “classificazioni” sono distinti non semplicemente dall’educazione e dalla formazione, ma in base alle modificazioni corporee fondamentali.82

Contemporaneamente alla tendenza del capitale di andare verso un’organizzazione sempre più complessiva della scienza medica, hanno fatto la comparsa contro-movimenti; mobilitazioni per la difesa o per l’estensione della socializzazione dell’assistenza sanitaria in opposizione ai tagli in Canada, o lotte riguardanti l’assicurazione sanitaria negli USA. Allo stesso tempo, è accresciuta l’offensiva di movimenti per un più democratico e collettivo controllo della conoscenza medica, per la ridefinizione degli approcci dominanti alla salute e alla malattia secondo modalità che spesso richiedono cambiamenti radicali ai piani progettati dalle imprese. Questi movimenti di “epidemiologia popolare” ora portano le loro battaglie sull’orlo tagliente della medicina high-tech.83

Uno degli esempi maggiori è l’attivismo riguardante il problema dell’AIDS.84 Come Steven Epstein ha sostenuto, una delle caratteristiche peculiari di questo movimento è stata la sua critica implacabile agli esperti ufficiali della professione medica, ai regolatori del corpo e alle compagnie farmaceutiche.85 Le organizzazioni di base anti-AIDS come ACT-UP e Project Inform, inizialmente basate principalmente all’interno della comunità gay, hanno attaccato sia la pochezza dei fondi governativi per la ricerca, che la subordinazione delle ricerche delle industrie a priorità commerciali. Sebbene abbiano cooperato con compagnie farmaceutiche, contemporaneamente hanno criticato quelle industrie per aver ignorato la cura dell’AIDS relegandola a malattia non profittevole, o intente a ricavare super-profitto dal suo sfruttamento. Tutto ciò è stato sottolineato da drammatiche dimostrazioni ed occupazioni contro compagnie come: Hoffman Laruche, Broughs Welcome, Kowa Pharmacuticals ed Astra – forse la più famosa è stata l’invasione dei militanti di ACT-UP nel New York Stock Exchange per protesta contro la truffa del prezzo dell’AZT (“Pochi secondi prima che la campana delle 9:30 aprisse le trattazioni in borsa, gli attivisti cominciarono a suonare sirene portatili … banconote false da cento dollari con le parole ‘Vaffanculo a voi profittatori. Noi moriamo mentre voi giocate al business’ vennero gettate di sotto sugli operatori di borsa”).86

Allo stesso tempo PWA ha intrapreso una straordinaria autorganizzazione di conoscenza medica. Inseriti all’interno del complesso medico-industriale come oggetti di sperimentazione, hanno insistito nel ristrutturare la ricerca in modo che tenesse conto della loro soggettività e dei loro bisogni (es.: imponendo l’abbandono del doppio test chiamato “droga cieca” – Blind Drug Testing -, accumulando e facendo circolare le loro conoscenze sull’immunologia e la virologia, ricercando trattamenti alternativi stigmatizzati e repressi dalla scienza aziendale, costituendo cliniche guerrigliere e contrabbandando in medicine brevettate fabbricate clandestinamente. In questo modo hanno contestato il monopolio delle aziende sulla salute ed hanno indirizzato dal basso la ricerca sull’AIDS.87

Inoltre, con il progredire dell’epidemia, queste problematiche sono divenute centrali nell’agenda non solo della comunità maschile bianca gay, ma anche tra le comunità di colore e tra le donne. Pian piano, l’AIDS è stata riconosciuta come una malattia di povertà, che affligge primariamente coloro che sono stati resi vulnerabili dalla disintegrazione delle infrastrutture sociali, delle relazioni di comunità, della salute e dell’educazione. Le campagne anti-AIDS sono così sempre più state legate a campagne per l’ottenimento di maggiori fondi pubblici per i servizi della salute, per migliori assicurazioni mediche, per la riconversione delle spese militari e per rovesciare l’austerità neoliberale dei fondi.88

Come afferma Epsetin, la lotta per ottenere ricerca e fondi per l’AIDS è parte di una più ampia corrente di attivismo riguardante il controllo del sapere medico.89 Le organizzazioni anti-AIDS sono guidate dall’esempio del movimento delle donne per la salute, le loro strategie e tattiche hanno di volta in volta ispirato gruppi come quello che cerca di stabilire i legami causali tra cancro al seno ed inquinamento industriale o per avere accesso alla RU-486.90 Tali movimenti, modificando l’autorità del complesso medico-industriale, riappropriando le persone della capacità di ricerca, rifiutano la mercificazione della salute e chiedono la democratizzazione dello sviluppo e del dispiegamento delle high-tech, sono tra i più importanti per le lotte contemporanee per l’autonomia.

 

 

3) Maternità surrogata

 

Il luogo base per la riproduzione della forza lavoro, non è, comunque, l’università e nemmeno l’ospedale, ma la famiglia. Ed è sul controllo delle forme più elementari di lavoro riproduttivo – quello delle donne generatrici di bambini – che si dispiegano molte delle oggi più intense lotte tecnologiche. Negli anni ‘70 femministe dell’autonomist marxism come Dalla Costa e James hanno spiegato che le attività basilari della riproduzione di forza lavoro, il generare ed allevare bambini – sostenere la famiglia, occuparsi dei malati, aver cura degli anziani – hanno formato un vasto ambito di lavoro non salariato, femminile e (ai teorici maschi) solitamente invisibile: il “lavoro domestico”. Questa costituisce la base di accumulazione non riconosciuta, senza la quale la merce forza-lavoro non sarebbe disponibile per il lavoro.91

La classica famiglia nucleare affianca il lavoro maschile salariato ed il lavoro casalingo femminile non pagato in un tipo di relazione ove il ruolo della donna-casalinga è quello di mantenere, riparare e riprodurre la forza lavoro dell’uomo. Il salario del lavoratore maschio, così, comandava tempo di lavoro non retribuito non solo nella fabbrica ma anche a casa. Questa congiunzione di dominio maschile e di espropriazione capitalista è stata modificata dalla rivolta femminista degli anni ‘60 e ‘70 in una moltitudine di modi; con l’esodo delle donne dal lavoro domestico non pagato alla ricerca di lavoro salariato, con richieste di un salario per il lavoro casalingo, con il rifiuto dei controlli medici e psichiatrici sulle casalinghe. Nessuna di queste lotte, comunque, è stata più importante di quella per il diritto all’aborto, ove le donne hanno imposto il proprio controllo sulla propria fertilità e ripudiato il loro destino “naturale” come lavoratrici non salariate nella fabbrica sociale.

Le risposte date dallo stato e dalle imprese a questa insorgenza femminista, sono state multiformi. Da un lato, il capitale ha cercato di sfruttare la fuoriuscita delle donne da casa per fare del lavoro femminile il sostegno principale dei “servizi” a basso prezzo di cui ha ingrossato le fila per compensare parzialmente la perdita di lavori nel settore industriale.92 Allo stesso tempo, però, i governi neoconservatori legati alla ristrutturazione capitalista hanno tentato di forzare le donne a riprendere il loro ruolo come lavoratrici domestiche non pagate – se necessario sulla base di un doppio turno lavorativo. La risposta del capitale che procede sotto lo slogan del “ritorno ai valori della famiglia”, è stata centrale per la ristrutturazione della fabbrica sociale. Per come sono degradati i servizi di welfare, la ripresa del ruolo femminile tradizionale come prestatrice di cure “volontarie” per bambini, malati e anziani, diviene centrale nella prevenzione dalla totale disgregazione sociale. In questa campagna per la ri-domesticizzazione delle donne, le truppe d’assalto del capitale sono state provviste di un movimento anti-aborto patriarcale e fondamentalista. Per quanto la maggioranza dei dirigenti d’impresa possono essere indifferenti alle manie religiose alla base del fondamentalismo, l’associazione tra guerra di classe dall’alto e l’offensiva del “diritto alla vita” non è accidentale, ma riflette una logica politico-economica, cioè il desiderio del capitale di riassicurarsi la sua fonte di lavoratrici della riproduzione non pagata.93

Allo stesso tempo, comunque, i settori più avanzati del sapere del capitale hanno sperimentato un sistema di controllo della maternità alternativa, centrata attorno alle nuove tecnologie riproduttive di fertilizzazione in vitro, amniocentesi, selezione embrionale ed inseminazione artificiale. Questi stanno diventando gli strumenti per un esperimento straordinario; la conversione della maternità in un ambito di estrazione diretta di plusvalore. Come hanno sostenuto femministe come Maria Meis e Kathryn Russell, l’applicazione commerciale di tali tecniche porta la forza lavoro femminile – in senso procreativo – verso quella condizione di astrazione, divisibilità ed alienazione tradizionalmente sperimentata nel lavoro industriale.94 L’ingegneria riproduttiva applica una strategia di deskilling tecnologica, classico nella forma, ma senza precedenti nell’intensità, avente come obiettivo sia la conoscenza che l’abilità corporale, distaccando, permutando e ricambiando i vari momenti della gravidanza fino a che il fattore unificante che governa il concepimento, la gestazione e il parto di un bambino non è più materno ma manageriale.

Tutto ciò è meglio evidente nel cosiddetto business della “madre surrogata” – il grado massimo di lavoro del settore dei servizi femminili – ove le donne povere sono, attraverso un intermediario imprenditoriale, pagate da ricche clienti per sottoporsi all’inseminazione artificiale o alla fertilizzazione in vitro per concepire e crescere il bambino. Tali accordi, richiedono solitamente che la madre sostitutiva si sottometta a dosi massicce di farmaci per la fertilità, iniezioni di ormoni, amniocentesi e si accordi per una lunga serie di esami genetici e di test a discrezione della cliente; si richiede che la madre accetti eventualmente di abortire il feto su richiesta, ed è pienamente responsabile di tutti i “rischi” associati al concepimento, alla gravidanza ed al parto.95

La paga va dai mille ai diecimila dollari. Tale ovvia tecnologia riproduttiva sfruttatrice rappresenta soltanto il caso estremo di tendenze evidenti anche in quelli che appaiono usi più benigni. Per esempio le donne che volontariamente tentano la fertilizzazione in vitro non solo pagano per il servizio, ma anche, in un complesso e doloroso processo di auto-sorveglianza e di costanti esami spesso, consapevolmente o non, provvedono al surplus materiale – “sovrappiù di uova” – richiesto per altri esperimenti commerciali.96

Le crociate anti-aborto e gli affari delle tecnologie riproduttive sembrano antitetiche, una si appoggia su di una sacralizzazione della procreazione, l’altra sulla sua industrializzazione utilitaria. Non ci sono però reali contraddizioni tra loro, esse sono intimamente interconnesse; entrambe contro l’autonomia riproduttiva per cui lottano le femministe. La campagna per i valori della famiglia cancella semplicemente la “scelta” in una maniera completamente reazionaria, mentre l’industria delle biotecnologie imprigiona la “scelta” con la parola d’ordine della mercificazione della procreazione.97 Come sul luogo di lavoro il capitale ha cercato di sfruttare la forza di ribellione operaia, così l’industria dell’ingegneria genetica prende slancio dalla ribellione del lavoro domestico femminile. Come nella produzione il capitale combina lavoro manuale e robotica, altrettanto succede con l’offensiva dei valori della famiglia e dell’ingegneria genetica che sono poli di un singolo regime di controllo riproduttivo, con le opzioni biotecnologiche ottenibili commercialmente dai ricchi, e le madri surrogate date dalle schiere di povere donne deprivate di supporti di welfare e circoscritte da restrizioni sull’aborto. Entrambi gli estremi dipendono dalla tecnologia di rimuovere il controllo di gravidanza e di nascita dalle donne; sia attraverso l’uso del “diritto-alla-vita” dell’iconografia fetale resa ottenibile da monitoraggi avanzati, tecniche per legittimare le loro campagne di disturbo, attentati ed assassini, o negli ambienti igienici dei laboratori aziendali.98

Comunque, ancora una volta questo regime di mercificazione e controllo tecnologico ha provocato contro-iniziative. Nel nordamerica gli anni ‘80 e ‘90 non solo abbiamo assistito al riattivarsi del movimento per il diritto all’aborto, ma anche ad un riorientamento strategico a volte descritto come cambiamento “dalla libertà d’aborto a quella riproduttiva”.99 Certamente le donne hanno continuato a battersi contro la ricriminalizzaizone dell’aborto e per proteggere le cliniche, ma si è assistito anche all’allargamento del loro controllo tecnologico sulle condizioni di procreazione attraverso campagne per l’accesso a medicinali come l’RU-486. Comunque, in gran parte grazie all’influenza delle donne di colore, diversi gruppi ora ridefiniscono la lotta per il diritto all’aborto in un ambito più allargato. Sempre più, l’enfasi sulla scelta individuale è stata sostituita dall’enfasi sul controllo collettivo sulla ricerca e sulla ottenibilità di tecnologie mediche, in opposizione a fertilità obbligatoria e sterilizzazione eugenetica, e sull’approvvigionamento di adeguati servizi per la salute, alloggio, salari e welfare come condizioni socialmente necessarie per una scelta autonoma.100

Un aspetto di questa definizione allargata di libertà riproduttiva è stato la critica intensa all’industria delle tecnologie riproduttive. Alleanze internazionali di femministe, come Femminist International Network of Resistence to Reproductive & Genetic Engineering (FINRAGE), hanno esposto l’ingannevole successo rivendicato dall’industria della fertilizzazione in vitro, la sua espropriazione del lavoro femminile, gli effetti dannosi dei medicinali per la fertilità che essa abitualmente usa, la misoginia della selezione sessuale amniocentesi, e il potenziale eugenetico delle nuove tecnologie.101 Esse hanno sostenuto che le “scelte” offerte dalle biotecnologie di fatto erodono la libertà femminile perché, come sottolinea Sue Cox, escludono la possibilità da parte delle donne di rifiutare vari tipi di intervento tecnologico.102 Queste critiche teoriche sono state collegate ad azioni concrete. In Germania attiviste di FINRAGE sono state fatte oggetto di repressioni poliziesche in seguito al sabotaggio a laboratori aziendali di biotecnologie da parte del gruppo armato femminista Rote Zora, mentre in Canada il tentativo della Royal Commission on New Reproductive Technologies di reprimere le critiche aperte da FINRAGE ed altri gruppi femministi esplosi in scandali pubblici.103

All’interno di questa opposizione femminista alle tecnologie riproduttive, ci sono differenze importanti a livello strategico. Secondo FINRAGE tali tecnologie sono in sé dominative, e quindi si deve mirare alla completa interdizione del loro sviluppo.104 Altri gruppi credono che per quanto l’attuale controllo patriarcale ed aziendale renda queste tecnologie nemiche delle donne, è possibile piegare la loro traiettoria in direzioni più positive e quindi non invitano al blocco dello sviluppo, ma piuttosto ad un accesso libero e non discriminatorio; per esempio vengono enfatizzate le nuove possibilità riproduttive per lesbiche e gay. Posizioni simili sono state avanzate da coloro che vedono nelle posizioni di FINRAGE l’incapacità di costruire legami tra femministe non salariate e forza lavoro sperimentale dell’industria delle tecnologie riproduttive.105

Questa tensione tra rifiuto e riappropriazione è un topic dell’intenso dibattito tra attiviste femministe. E’ necessario, però, notare che la linea del rifiuto non può essere caratterizzata come semplice negazione delle tecnoscienze. Una parte importante della sua critica è stata la domanda di nuovi obiettivi di ricerca per scoprire rimedi differenti per i problemi che il complesso delle industrie repro-tech pretendono di “fissare” tecnologicamente; per esempio la ricerca delle cause sociali ed ambientali di infertilità. Rispetto a ciò, entrambe le linee di approccio, non solo dissentono dalla traiettoria di mercificazione tecnologica del capitale, ma anche si muovono verso la costruzione di un corpo di sapere alternativo ed emancipatorio.

 

(1-continua)

 

Traduzione di Gioacchino Toni

 

 

 

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* Vancouver, Canada, 28 maggio, 1995.   

1 Vedi Cleaver (1979), ancora la miglior descrizione in lingua inglese dell’autonomist marxism.

2 Il concetto di “fabbrica sociale” è stato sviluppato inizialmente da Tronti (1973), ma fu realmente sostanziato dal lavoro di James e Dalla Costa, che sarà successivamente tratto in questo articolo. Vedi, inoltre, Cleaver (1977, 1979).

3 Sulla “circolazione di lotte” vedi Cleaver (1979) e Bell e Cleaver (1982).

4 Negri (1984).

5 Per una spiegazione dettagliata del concetto, proprio di questa impostazione, di composizione di classe vedi Cleaver (1992).

6 Panzieri (1976, 1980).

7 Marx (1977), 563.

8 La mia descrizione riscrive in termini familiari, agli interlocutori inglesi, la distinzione che Negri (1979) fa tra “sabotaggio” e “potere inventivo”. I primi scritti di Negri sottolineano il primo aspetto dell’attivita dei lavoratori, ma nei suoi scritti successivi, la seconda. Diversi esponenti dell’autonomist marxism sono più interessati al sabotaggio che alla riappropriazione; gli scritti di Berardi sono un ottimo esempio del secondo approccio. Cleaver (1981) offre una chiara esposizione della teoria della tecnologia propria dell’autonomist marxism.

9 “Detournament” è un termine derivato dai situazionisti, con cui esponenti dell’autonomist marxism hanno una definita affinità. Esso descrive il ressemblage degli elementi posti al di fuori dal loro contesto originario, al fine di costruirne uno statuto politico sovversivo; vedi Debord (1977) e per gli utili commentari, Cleaver (1992).

10 Questa descrizione si rifà a Negri (1992).

11 Tronti (1980).

12 Collectivo Strategie (1985)

13 La più completa spiegazione in lingua inglese della tesi dell’ “operaio sociale” è in Negri (!989); i concetti successivi di “lavoratore immateriale” e di “general intellect”, sono stati sviluppati da Negri in collaborazione con colleghi attorno alla rivista francese Futur Anterieur; in lingua inglese vedi Red Notes (1994).

14 Negri (1994) 90.

15 Negri (1994) 90.

16 Negri (1989).

17 Negri (1989) e Red Notes (1994).

18 Per un appassionante ed informativo sommario delle critiche all’ “operaio sociale” di Negri da parte di Bologna ed altri suoi compagni italiani vedi Wright (1988), 287-339. Vedi anche le critiche dall’interno del Midnight Notes Collective nel dibattito tra “Guido Baldi” e “Bartleby the Scrivener” (1985).

19 Tale concetto ricorre in tuto il suo lavoro, ma trova il maggiore trattamento sistematico nel Libro Secondo de Il Capitale (1978). La miglior trattazione della revisione operata dall’autonomist marxism di tale concetto si trova in: Cleaver (1977) ed in Bell e Cleaver (1982), ai quali questo scritto è debitore.

20 Per quanto riguarda le prospettive recenti di teorici marxisti sui problemi dell’ecologia vedi: Lebowitz (1982), O’Connor (1988) e la rivista Capitalism, Nature and Socialism.

21 Marx (1977), 1065

22 Il termine “tecno-lotte” è preso da Fiske.

23 Marx (1973) [La citazione è tratta da Lineamenti…, Einaudi, Torino, 1976, pp. 706-707].

24 Marx (1973) [Lineamenti…, cit., p. 717].

25 Marx (1973), 525, 528.

26 Dawidov (1992).

27 Lazzarato (1993), 4.

28 Marx (1977), 781-802.

29 Per la composizione etnica degli insorti vedi Davis (1993), e la sua intervista con Katz e Smith. Per una descrizione della crisi di disoccupazione di come l’economia di Los Angels sia stata “distaccata” dal modello industriale americano e legata all’Est Asia vedi Davis (1990), 304.

30 Davis (1992) offre una superba analisi dei meccanismi di repressione e contenimento tecnologici in questo contesto.

31 Brown, (1993), 5-8. Per un analisi del ruolo dei media nella ribellione di Los Angeles vedi anche Fiske (1994).

32 Ristampato in Madhubuti (1993).

33 La fonte che meglio rende conto del dispiegarsi di questi movimenti è la rivista dei sindacati dissidenti statunitensi Labor Notes. Altre interessanti considerazioni si possono trovare in Brecher e Costello (1990); Kalleek (1994); Rachleef (1992, 1994).

34 Bacon (1995).

35 Hoyos (1994), Siegel (1993).

36 Davis.

37 Chiang (1994).

38 Rachleef (1992, 1994).

39 Riker (1990).

40 Clymer (1995).

41 Labor Resource Center (1990).

42 Downs (1995), Slaughter (1995).

43 Chiang (1994), Banks (1990).

44 Brecher e Costello (1990).

45 Rachleef (1994); Banks (1990); Clymer (1995).

46 Questa prospettiva – che sostiene che l’obiettivo della rivoluzione è la fine, non l’allargamento, del alvoro del lavoro, e che si focalizza non solo sul miglioramento qualitativo delle condizioni di lavoro, ma anche sulla riduzione quantitativa dell’orario di lavoro – è stata avanzata inizialmente dagli esponenti italiani dell’automist marxism per poi essere successivamente sviluppata negli anni ‘70 dal Zerowork Collective negli Stati Uniti. Vedi la rivista Zerowork.

47 Vedi il recente pamphlet “Time Out: The Case for a Shorter Work Week” fatto uscire da Labor Notes (1995).

48 Berardi (1978).

49 Vedi Virno (1992).

50 Il concetto di produzione “socialmente utile” è solitamente associato alla famosa iniziativa dei lavoratori alla British Aerospace nei tardi anni ‘70 – vedi Wainwright (1994). “Produzione autonoma” è un termine usato dai lavoratori giapponesi coinvolti nell’occupazione di otto anni della Toshiba-Amplex descritta successivamente in questo articolo – vedi Tsuzuku (1991).

51 Benché Marx ha distinto l’estrazione di plusvalore sul luogo di lavoro dalla sua realizzaizone nel mercato, ha anche notato che questo più veloce circolo di capitale, quante più volte in un dato periodo esso può fluire attraverso il processo produttivo e quindi valorizzarsi. Aumentare la velocità con cui le merci si acquistono e si vendono, può dunque avere le stesse conseguenze di un aumento della produttività del lavoro: maggiori profitti. Vedi Marx (1973), 539. Il trattamento della sfera della circolazione offerto in questa sezione è parziale, in quanto tratta solo delle lotte attorno al tentativo del capitale di vendere merci, e non con le sue attività come acquirente della forza lavoro e delle materie prime richieste dalla produzione. Per quest’ultima discusisone si vedano le sezioni relative la “Produzione” e “La (non)-riproduzione della natura”. Qui sarà semplicemente notato che lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione è stato anche associato al tentativo di procurare materie prime e forza lavoro a basso costo, e a ciò si sono opposti gruppi che si battono contro l’espropriazione ed il degrado ambientale.

52 Sono diversi gli autori che hanno seguito il filone di analisi del “post-fordismo”. Per una chiara esposizione a riguardo, vedi Castells (1989).

53 Per l’inseparabilità dei media/mercato vedi le osservazioni di Jameson (1990).

54 Wilson (1988), 36.

55 Smythe (1981), 6. Questa linea di pensiero è stata sviluppata da Jhally (1987). In una conversazione personale poco prima della sua morte, Smythe ha sostenuto che la sua prospettiva convergeva con le analisi della “fabbrica sociale” dell’autonomist marxism. La sua prospettiva può essre utilmente comparata con quella di Lazzarato (1993), 11-12 … il lavoro immateriale si trova all’incrocio (è l’interfaccia) delle nuove relazioni tra produzione e consumo.

56 Smythe (1981), 4.

57 Smythe (1981).

58 Tali analisi, riguardanti la “audience attiva”, sono state particolarmente sviluppate dai cultural studies come nel caso di Fiske

59 Per una buona prima panoramica circa questo spettro di attività vedi Dery (1993).

60 Non rendersi conto di ciò, è uno dei problemi delle descrizioni più celebrative del ruolo attivo dell’audience portato avanti dai teorici dei cultural studies.

61 Il termine “media autonomi” è qui usato preferendolo al più comune “media alternativi”. John Downing (1984), in quel che è fino ad oggi la più completa descrizione analitica di tali esperimenti, usa lo stesso termine. Ciò riflette chiaramente la sua esposizione ad attivisti delle radio all’interno della sfera del movimento dell’autonomia dei tardi anni ‘70. Per una descrizione di una delle più famose stazioni radio autonome vedi il Collettivo A/Traverso (1977) e Berardi (1978).

62 Kidd e Witheford, (1995), 1.

63 Vedi Girard (1992); Boozell (1994); Thomas (1993).

64 Vedi Diamond (1994); Halleck (1991); Kidd e Witheford (1995).

65 Vedi Aufderheide (1994); Kellner (1990); Kahn (1993); Lucas e Wallner (1993); Tuer.

66 Carlsonn, (1994), 32.

67 Roncaglio (1991), 207.

68 Marx ha segnalato come il mantenimento e la riproduzione della classe lavoratrice resti una condizione necessaria per la riproduzione di capitale, ma siccome credeva che il capitalista poteva tranquillamente lasciare dirigere ciò dall’impulso di autopreservazione e propagazione dei lavoratori, egli ha lasciato questa attività fuori dalla sua esposizione del circuito del capitale,. (1977), 718. L’idea che l’aumento della capacità del capitalismo del Ventesimo secolo includeva l’organizzazione intenzionale di questa funzione, è stata sviluppata da Tronti, ma il maggior contributo nell’arco dell’autonomist marxism è stato il lavoro di James e Dalla Costa sulle lotte domestiche e la congiunzione del potere patriarcale e capitalista. La loro analisi per il modello marxista del circuito del capitale è stato sviluppato da Cleaver (1977). Si deve notare che nella misura in cui questa preparazione, riparazione e smistamento richiede lavoro, la sfera della riproduzione è essa stessa arena di lavoro, salariato e non salariato, svolto dalle casalinghe, insegnanti, medici, infermiere, pazienti, studenti, in parte anche lavoro che gli individui eseguono su se stessi come educarsi, tenersi in buona salute, in ordine per meglio vendere se stessi come merce di lavoro salariato.

69 Per lo sviluppo del pensiero di Negri sullo stato ed una analisi innovativa contemporanea, vedi Negri ed Hardt (1994).

70 O’Connor.

71 Per due analisi parallele dei movimenti studenteschi in questi termini vedi Negri (1989) e Wainwright (1994).

72 Noble (1993, 46). Per altre analisi riguardanti la “aziendalizzazione” dell’università vedi: Krimsky (1987), Newson (1988), Kenney (1986). Per un utile analisi, con approccio autonomist marxism, dei movimenti nei campus degli anni ‘60 e ‘70 vedi Caffentzis (1975).

73 Per resoconti giornalistici sugli sviluppi delle rivolte vedi Altbach (1987), Hodges (1991). Per una discussione sul movimento degli studenti francesi del 1986 vedi Negri (1989), per quello del 1994 vedi Red Notes (1994). Per la “Pantera” italiana vedi Lazzarato (1990). Sulla situazione nordamericana vedi, oltre alle altre fonti qui citate, Vella (1988) e Loeb (1994).

74 Ovetz (1993).

75 Spillane (1994).

76 Rodriguez (1994).

77 “Students Fight the Contract.” (1995).

78 Per una raccolta di scritti sul “Genome Projet” vedi Kevles e Hood (1992).

79 Hubbard (1993); Greely (1992).

80 Le implicazioni sono più immediatamente apparetni negli USA ove i datori di lavoro sopportano direttamente i costi dell’assicurazione sanitaria dei lavoratori, in tal modo hanno un potente incentivo a non assumere i lavoratori che possono si pensa possano ammalarsi. Anche ove il capitale sorregge soltanto indirettamente i costi dei lavoratori malati – attraverso i programmi di welfare state – lo screening genetico offre il potenziale per abbassare questa spesa.

81 Sullo sviluppo del “human body shop” vedi: Kemble e Berlinguer (1994).

82 Per speculazioni lungo questa linea, da parte di membri della elite europea, vedi Attali (1991).

83 Il termine “epidemiologia popolare” viene da Novotny (1994), che lo applica alle iniziative nel campo della salute della comunità del movimento di giustizia ecologica. Lo utilizzo qui nel senso più ampio.

84 Benché l’AIDS non è, fino ad oggi, caratterizzata come una malattia genetica, i suoi trattamenti – incluse le speranze per un eventuale vaccino – sono generalmente credute basarsi sulle più avanzate tecniche di ingengeria biotecnologica. Nella misura in cui l’AIDS è attualmente una condizione incurabile ma identificabile, solleva in maniera molto precisa ciò che è in gioco nello screening medico e nella tecno-medicia avanzata.

85 Epstein (1991), 36.

86 Arno & Feiden (1992), 137.

87 Treichler (1991); Arno & Feiden (1992) registrano che nel 1991 chimici clandestini hanno iniziato a produrre versioni pirata di Hoffman-LaRoche’s ddC.

88 Carter (1993).

89 Epstein (1991), 37.

90 Nella misura in cui la lotta contro la stigmatizzazione del PWA comporta la destabilizzaiozne di una gerarchia di genere, ma entra in un vasto ventaglio di questioni: l’entrata delle donne nella forza lavoro; la perdita di posti di lavoro tradizionalmente “maschili”; l’erosione del matrimonio che, problematizzando la struttura della famiglia, allo stesso tempo distrugge vecchi presupposti circa il lavoro ed il salario.

91 Dalla Costa and James (1972).

92 Per un’analisi – autonomist marxism – di questa tendenza a creare salario per i lavori domestici al di fuori della casa che costruita nei primi lavori di Dalla Costa e James, vedi Caffentzis (1992).

93 Petchesky (1990), 241-252. Una volta emerso il legame tra la ri-criminalizzazione dell’aborto e la distruzione del welfare state, diviene anche possibile vedere il legame tra politiche apparentemente contradditorie, come la “pro-natalità”, l’erosione dei diritti all’aborto e le proprste “anti-natalità” per rendere le madri single destinatarie di welfare soggette a sterilizzazione obbligatoria: entrambi disciplinano le donne negli interessi di una riduzione dei costi del welfare state.

94 Mies (1987), Russel (1994).

95 Kemble, 101.

96 Spallone (1987).

97 Vedi Basen et al. (1993)

98 Sull’immagine high-tech del diritto-alla-vita e le risposte delle attiviste per l’aborto se veda Zimmerman (1993).

99 Per una antologia esploratrice di quasto vedi Fried (1990a), ed in particolare il saggio di Angela Davis.

100 Copelon (1990), 39. Vedi anche Petchesky (1990).

101 Per la posizione di FINRAGE vedi Spallone e Steinberg (1987). Vedi anche Thobani (1991).

102 Vedi Luke (1994); Boland (1994).

103 Sugli eventi canadesi vedi Basen et al. (1993).

104 Spallone e Steinberg (1987)

105 Vedi Menzis (1993).

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