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Disastro climatico in Sicilia: intervista al Prof. Salvo Torre

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Il ciclone Apollo ha lasciato la Sicilia; la fase dell’emergenza sembra finita. Con un bilancio di tre vittime, interi raccolti distrutti, e ancora una conta dei danni da effettuare; si concludono i giorni di terrore per l’area orientale dell’isola. Abbiamo intervistato Salvo Torre, docente di Geografia all’Università di Catania e membro di POE (Politics Ontologies Ecologies), per ragionare a freddo su quello che è successo e sulle cause; sulle categorie di sviluppo e giustizia climatica.

Riprendiamo da Trinacria.info

Tu vivi in Sicilia, nell’area colpita dal disastro; prima di tutto, come stai?

Arrabbiato, penso sia una reazione comune, collettiva. Facciamo parte dei fortunati, non ho rischiato la vita, la mia casa non ha subito danni rilevanti, in questi giorni sono anche riuscito a viaggiare. Trovo però davvero difficile accettare il fatalismo con cui viene raccontato quello che è successo negli ultimi giorni. L’esposizione al rischio costante, l’idea che tutto succeda indipendentemente dalle nostre azioni, il racconto sui disastri naturali. Pensavo non fosse più necessario parlare del fatto che i danni sono sempre il risultato di azioni che dipendono dal disinteresse verso il rischio oppure dagli investimenti economici che ormai si realizzano sul rischio, sull’emergenza costante. Un uragano si abbatte sulle coste siciliane mentre a Roma, per il G20, si svolge l’ennesima chiacchierata sulla necessità di intervenire in futuro per mitigare i danni dovuti al cambiamento climatico e lo stesso si ripeterà a Glasgow per la COP26.

A questo si aggiunge che a livello locale stiamo parlando di qualcosa che era stato previsto con anni di anticipo e che purtroppo diventerà più frequente. Nessun piano per gli eventi estremi, nessun intervento di risistemazione del territorio, nessun progetto di recupero degli equilibri locali né di risoluzione di problematiche antiche dovute sempre al modo in cui sono state costruite le città e in cui è stato aggredito il territorio. Alla fine, il paradosso è che possiamo dire che lo scenario avrebbe potuto essere molto più grave, ma mi pare chiaro che la linea sia non parlarne più fino al prossimo uragano. Nei prossimi mesi discuteranno solo dello stato di calamità e della gestione straordinaria, come è già successo molte volte in passato.

Incendi ed estati roventi, alluvioni e precipitazioni violentissime d’inverno. È chiaro che la definizione di “clima Mediterraneo” non rispecchia più le caratteristiche del clima siciliano. Verso che tipo di clima si sta andando?

Non è una risposta semplice, soprattutto perché il fatto che il clima tenda a mutare in cicli di almeno trent’anni è un argomento che è stato usato dal cosiddetto negazionismo climatico, cioè la posizione di chi nega l’esistenza di fenomeni come quello che sta colpendo il Mediterraneo centrale in questi giorni, oppure di chi tende a normalizzarli, definirli come fenomeni che si sono sempre verificati e non sono il risultato delle emissioni di gas serra da parte delle società umane.

Sicuramente la definizione di clima Mediterraneo è una definizione tecnica che non corrisponde più a quello siciliano, le temperature medie sono aumentate così come l’umidità. Insieme a questo è intervenuta una lunga serie di cause che ha agito insieme all’aumento dei gas serra. Si è verificato ad esempio un aumento delle temperature locali dei mari e del loro livello, allo stesso modo l’espansione delle città, il disboscamento, la costruzione di opere che hanno modificato l’andamento dei corsi d’acqua o le correnti marine hanno avuto un ruolo essenziale. Si tratta di processi complessi in cui ogni azione produce altri effetti che vanno considerati in un unico effetto a catena che preoccupa molto gli studiosi di climatologia. Il dato importante però è che contemporaneamente non si sono fermati i processi sociali che hanno il maggior impatto sul territorio e che lo rendono sempre più vulnerabile. I fenomeni estremi aumentano, ma non mi pare che il consumo di suolo sia rallentato, che ci siano più aree coperte da boschi o che le linee naturali di deflusso delle acque siano libere. Non mi sembra che le discariche siciliane siano state complessivamente messe in sicurezza o che l’intero sistema dei rifiuti non produca enormi problemi ecologici, che le coste non subiscano più erosione o che l’enorme numero di strutture incompiute o dismesse non produca danni ambientali pesanti. Penso si possa tranquillamente dire che nel complesso la società locale contribuisce in modo determinante sia all’aumento delle emissioni di gas serra sia alla riduzione della capacità della biosfera e del terreno di assorbirle. Siamo già un’area in cui eventi estremi come ondate di calore e tempeste tropicali sono la normalità, sono eventi che si verificano nel corso dell’anno con una certa regolarità.

Dunque questo tipo di fenomeni meteorologici non sono più considerabili “cataclismi” occasionali. È questo il manifestarsi della crisi ecologica?

La crisi ecologica si è già manifestata da tempo, è il processo che caratterizza in modo più preciso la nostra epoca, è una crisi che colpisce tutte le aree del pianeta e stabilisce una gerarchia tra ricchi e poveri, aree forti e aree deboli. Penso sia importante contrastare una narrazione che rappresenta il dibattito sul mutamento climatico come qualcosa che si muove nell’ambito delle previsioni. Si tratta dell’opposto, è un dibattito che analizza un processo storico, qualcosa che è avvenuto e che si muove anche intorno alle ipotesi su quanto potrà peggiorare, ma non riguarda il futuro. Ciò che è già avvenuto è un aumento delle temperature medie planetarie di 1,1°C, i fenomeni più problematici innescati da questo mutamento si avvertono paradossalmente nelle aree più povere, da parecchi anni ormai. Ma la crisi ecologica riguarda anche tanti altri problemi che hanno assunto proporzioni enormi ormai (per approfondire).

Adesso la distribuzione ineguale dei danni del surriscaldamento globale si avverte anche nelle aree ricche, ma sempre dentro lo stesso schema, dentro la moltiplicazione dei margini sociali. Anche in questo caso c’è una divisione interna, economica e sociale, della popolazione e chi è più debole rischia di più. Esistono chiare diseguaglianze tra aree periferiche e aree centrali, tutti margini interni che dividono la popolazione anche seguendo la linea della vulnerabilità socioecologica. Non si tratta solo del clima, è il processo per cui chi vive nelle aree più deboli ha la maggiore probabilità di trovarsi a lottare contro l’impianto di una discarica o di un’attività produttiva inquinante.

La crisi ecologica si è manifestata negli ultimi anni con le migrazioni climatiche e ambientali, con le carestie, con l’aumento del costo del cibo, con gli incendi, con le pandemie.

Negli ultimi giorni abbiamo vissuto sulla nostra pelle che effetti produce il cambiamento climatico. Ma crediamo che i danni causati dalle forti piogge nella Sicilia orientale non siano attribuibili solamente a “cause naturali”. Lo “sviluppo” contribuisce a peggiorare la tenuta dei territori a queste catastrofi? Che ruolo ha l’assenza di messa in sicurezza dei territori che spesso gli abitanti dei territori rivendicano?

In questo caso si tratta proprio dei problemi posti dall’idea di Environmental Justice. Il caso siciliano è molto simile alla maggior parte delle aree europee: si tratta della sovrapposizione tra problemi storici e problemi recenti, che si realizza sempre nel quadro della ricerca di profitto. Le zone più sicure delle città sono anche quelle più costose, le zone più insicure sono le più povere; ma come dimostrano gli studi di Salvatore Palidda si tratta della costruzione di un’idea di insicurezza sociale che non corrisponde alla realtà. L’assenza storica di interventi poi ha prodotto il resto. Il problema riguarda cioè la gestione dell’emergenza.

A questo si aggiunge una serie di problemi specifici – nel caso di Catania ad esempio la presenza della polvere vulcanica ha avuto un certo ruolo – ma in realtà l’intera storia della città concorre a costruire il disastro. Così come nel messinese il dissesto idrogeologico probabilmente inizia con i disboscamenti della prima età moderna. L’espansione delle città e la costruzione delle infrastrutture nel XX secolo hanno avuto un impatto devastante, la stagione dei grandi poli industriali avrà conseguenze per secoli, l’era del cemento ha segnato l’isola in modo brutale. Il consumo di suolo continua ancora, l’edificazione dei centri commerciali è un esempio perfetto. L’entità degli interventi di messa in sicurezza è quasi nulla, soprattutto in relazione all’entità dei danni.

Recentemente è uscita l’edizione italiana di Pluriverse. Dizionario del post-sviluppo, un lavoro realizzato grazie al coinvolgimento militante di un gran numero di persone che hanno partecipato volontariamente alla traduzione. Si è trattato di un momento importante per la ripresa del dibattito sulla critica allo sviluppo come espressione di un’ideologia e come motore del sistema sociale in cui viviamo; con questa accezione lo sviluppo è sempre un progetto politico. Lo sviluppo prevede l’aumento costante delle attività umane come unica possibilità per il raggiungimento della felicità, la continua trasformazione dei territori, delle pratiche di uso delle risorse, degli stili di vita. È qualcosa che giustifica in termini politici le grandi scelte sociali, costruisce una sua precisa narrazione. In nome dello sviluppo bisogna sacrificare aree naturali per garantire la sopravvivenza di questo sistema sociale. È il discorso di questi giorni: ciò che viene rimproverato ai movimenti per la giustizia ambientale è che il costo della conversione ecologica sarebbe troppo alto per il sistema produttivo. Si tratta di una semplificazione estrema che però rende evidente il funzionamento di questa logica: garantire il sistema di produzione e consumo è la priorità, è un principio indiscutibile per cui si possono tollerare il sacrificio di intere popolazioni, l’alterazione del clima, l’estinzione di massa, la distruzione di intere aree del pianeta.

Anche durante le ore dell’emergenza quella che più salta all’occhio è l’inefficacia della risposta istituzionale per la tutela degli abitanti. «Evitate di stare ai piani terra» cosa significa se ho solo una casa al piano terra? «Non uscite di casa» com’è pensabile se devo andare a lavoro? Chi si potrà permettere di sopravvivere al cambiamento climatico?

Come sempre la gestione dell’emergenza esprime una negazione degli spazi di espressione collettiva. In questo caso ha raggiunto picchi non indifferenti, perché si tratta di affermazioni che riconoscono l’impossibilità di intervenire, così come l’assenza di un piano di emergenza specifico. Dopo trent’anni di discussioni, si continua a considerare la Sicilia come un luogo in cui non possono verificarsi cicloni tropicali, per cui dentro l’emergenza si muove un apparato che non ha contemplato la possibilità. Alcuni anni fa, Gennaro Avallone ha scritto un saggio in cui sosteneva che la categoria dell’emergenza ha caratterizzato buona parte della storia del Mediterraneo contemporaneo. L’emergenza costituisce in effetti una dimensione permanente in cui esistono per decenni aree temporanee di insediamento degli sfollati, rischi di dissesto idrogeologico, leggi speciali e commissariamenti. Dopo la stagione del cosiddetto intervento straordinario e quella dei commissariamenti, si è passati all’assoluta assenza di regolazione, un modello neoliberale compiuto in cui è possibile agire in qualunque modo, ma con una tendenza all’uso di piani di emergenza.

Un’altra cosa che emerge chiaramente è il fatto che solo le forme di costruzione partecipata dei territori possono rappresentare un’alternativa, la soluzione non è la pianificazione esterna e non è ripetere lo stesso modello distruttivo. Non si può pensare al territorio come qualcosa che è il frutto esclusivamente di un processo geologico o che non ha una sua storia. Non si può gestirlo come una proprietà perpetuando i modelli patriarcali. I territori sono il risultato delle pratiche sociali, sono sempre costruiti dai comportamenti sociali, ormai la loro storia è inseparabile da quella umana. I disastri sono il risultato del modo in cui questo processo di costruzione è stato finalizzato interamente all’accumulazione economica; non si può pensare che questo modello funzioni. Decidere collettivamente, significa seguire l’idea che le comunità umane debbano garantire gli equilibri della biosfera, la perpetuazione della vita, la felicità di chi ne fa parte.

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