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Promesse e cambiali: dalla crisi al comune


Pubblichiamo, qui in allegato, la traduzione italiana di «Promissory Notes: from Crisis to Commons», ultimo lavoro edito del collettivo statunitense Midnight Notes, uscito nell’aprile 2009, a pochi mesi dallo scoppio di quella che è stata genericamente definita «crisi dei mutui subprime». A partire dalla sua pubblicazione, questo testo è stato velocemente tradotto in molte lingue (tedesco, giapponese, coreano, polacco). In Italia, invece, poco o nulla del pluri-decennale lavoro di questo collettivo (la cui quasi totalità della produzione è rinvenibile qui) ha ricevuto l’attenzione che meriterebbe. Ci siamo quindi impegnati in questo lavoro di traduzione per tentare di riparare una mancanza, convinti che il metodo qui sviluppato possa essere utile a quei compagni e a quelle compagne che non si accontentano delle letture oggettivistiche correnti e intendono invece approfondire lo studio delle dinamiche che hanno condotto alla crisi attuale da una prospettiva di classe.

Il merito maggiore di questo contributo è quello di aver riproposto una giusta parzialità nella lettura della crisi presente. Diversi saggi usciti in lingua italiana, pur preziosi e documentati nel descrivere analiticamente origini, sviluppi e conseguenze della crisi, non sono andati oltre la lettura del dato sistemico – la responsabilità della politica e le storture della finanziarizzazione – cancellando politicamente l’attività della classe. Il merito di questo testo è, al contrario, quello di rimettere al centro dell’attenzione la responsabilità della multiversa composizione proletaria globale nella determinazione della crisi. La lezione operaista – «prima la classe, poi il capitale» – è iscritta fin dalle origini nel dna teorico-politico di MN. Come scrive George Caffentzis, che di MN è stato uno dei fondatori e principali animatori:

«Midnight Notes è stato fondato nel 1979 tra Boston e New York City. Ci vedevamo come un ponte tra i movimenti dei lavoratori del passato (con tutta la ricchezza di saperi da essi prodotti, incluso, ma non solo, il marxismo) e i nuovi movimenti sociali che iniziavano allora ad assumere un ruolo preminente nello sventare i piani capitalistici. Una semplice formula per definire il nostro lavoro è “MN = movimenti sociali + categorie della classe operaia”. In questo progetto fummo profondamente influenzati dalle teoriche del Salario Domestico Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici e Selma James […]. Usando categorie come salario, plus-lavoro e profitto per descrivere il lavoro riprodutttivo espletato tra le mura di casa, preservarono e al contempo tarsformarono queste nozioni. Certamente, le categorie marxiste che noi utilizavamo furono già “stirate” da altri pensatori e militant operaisti quali Mario Tronti, Ferruccio Gambino, Sergio Bologna e Toni Negri tra gli altri. Infine, fummo anche profondamente coinvolti dal lavoro di storici come E.P. Thompson e i suoi compagni, che studiarono la lotta di classe nei secoli XVII e XVIII, epoche in cui il salario non era ancora diventato il polo dominante nell’analisi della composizione di classe»1.

Un aspetto qualificante del lavoro di MN è la collocazione militante in quello che, al volgere degli anni settanta, era il punto più alto dello sviluppo capitalistico: gli Stati Uniti d’America, laddove – dopo le imposizioni a mano armata del neoliberismo in America Latina – si elaboravano, attraverso l’uso capitalistico della crisi dello stato fiscale di New York (1976), le linee guida della restaurazione neoliberale: privatizzazione dello stato sociale, finanziarizzazione del consumo, lavorizzazione della riproduzione. Osservare la trasformazione nel ventre della bestia ha permesso a questi compagni di cogliere in anticipo la nuova grande trasformazione che si preparava su scala globale, a partire dalla polverizzazione della composizione politica che aveva tentato l’assalto al cielo nel decennio precedente.

Il collettivo si costituisce a partire da una rottura con la precedente esperienze di Zerowork, importante rivista statunitense che intorno alla metà degli anni Settanta ha svolto un fondamentale ruolo di collegamento e confronto tra le esperienze teoriche dell’operaismo italiano e la nascente costellazione dell’autonomous marxism. Il disaccordo andava crescendo sulle differenti prospettive che si delineavano dentro la crisi degli anni Settanta, tra chi sviluppava la linea del rifiuto del lavoro verso una prospettiva di fine del lavoro (cui avrebbe teso lo stesso capitalismo, per cui – cit. Marazzi – «il denaro non è una parte del processo di misurazione del lavoro») e una linea, perseguita da Caffentzis, Federici e altr*, che invece leggeva problematicamente la contraddizione tra rifiuto del lavoro e salario per il lavoro domestico (e più in generale non pagato), in una fase di crisi acuta in cui il capitalista collettivo rispondeva alla precedente fase di attacco operaio con disoccupazione programmatica e uso anti-proletario della gerarchia di classe. Questa divisione si accentuerà negli anni Ottanta, Novanta e Duemila, con il delinearsi della tendenza post-operaista che metterà in discussione la teoria del valore-lavoro (Negri, Marx oltre Marx, 1978) e dedicherà molte energie alla ricerca di un nuovo soggetto centrale dai tratti sempre più volatili e incorporei (lavoro immateriale, capitalismo cognitivo).

I primi numeri della rivista, escono con scadenza annuale tra il 1979 e 1985, offrendo una lettura solida della sconfitta del precedente ciclo di lotte. Non è questo il luogo per tracciare una ricostruzione organica del lavoro teorico dei primi anni di MN. Ci limitiamo a indicare alcuni dei temi che fanno capolino nella rivista: movimento anti-nucleare e istanze ecologiste, crisi energetica (riletta come crisi del sistema energia-lavoro), corsa agli armamenti e scudo spaziale, critica della tanatopoltica della sinistra istituzionale, sistema penale.

Una menzione particolare merita il numero 10 (“The New Enclosures” 1990), che segna uno spartiacque con la fase precedente perché viene individuato un nuovo terreno di scontro nella battaglia per i commons contro le “nuove recinzioni” messe in atto dal neoliberismo per garantirsi un nuovo ciclo di accumulazione. La dispersione di molti componenti del collettivo ai quattro angoli del pianeta per motivi di lavoro, studio e semplice curiosità, permette loro uno sguardo decentrato in grado di cogliere la provincializzazione in atto del mondo occidentale e la nuova centralità che andavano assumendo le resistenze ai Piani di Aggiustamento Strutturale imposti alle popolazioni asiatiche, africane e dell’America Latina. Gli anni che seguono vedono un diradarsi delle pubblicazioni ma anche l’imporsi di questi concetti al centro del dibattito teorico-politico.

Arriviamo dunque a quest’ultimo contributo, prodotto a caldo dopo i primi scossoni della crisi, finalmente esplosa nel cuore finanziario del sistema capitalistico, gli Stati Uniti. Non ci attardiamo a sintetizzare genealogia e conseguenze di una crisi tuttora in atto (che vengono compiutamente effettuati nella traduzione allegata) su cui la discussione resta necessariamente aperta. C’interessa però ricollegarci ad alcune osservazioni che abbiamo fatto all’inizio. Il merito di questo contributo (approfondito, articolato e compiutamente globale) è soprattutto nello sguardo che porta ai processi in corso. Questione di metodo e di prospettiva. Contro i lamenti di una sinistra impotente, paralizzata dal venir meno dei propri limitati punti di riferimento (stato-nazione, movimento operaio ufficiale, compromesso keynesiano), ci ricorda che la crisi è un momento di precipitazione e occasione per entrambi gli schieramenti di classe; che i/le proletari/e di tutto il mondo svolgono un ruolo attivo e protagonista nel determinarla e approfondirla (anche quando ne sono inconsapevoli); che solo la forza-invenzione che sempre possiedono in potenza potrà loro indicare possibili strade di uscita dal capitalismo.

La crisi capitalistica attuale, ci dicono i compagni di MN, è il risultato dell’assommarsi di innumerevoli rigidità (tanto oggettive quanto soggettive) all’inesausto bisogno del capitale di spremere plus-valore dal lavoro vivo e dalle risorse (sempre più limitate) del pianeta. Bisogna immaginare il capitalismo come una macchina di traduzione-decodificazione che uniforma le singolarità storiche, geografiche, culturali – una sorta di imbuto-miscelatore il cui prodotto in uscita (output) è il plus-valore capitalista. Ora, quando le rigidità si sommano (scioperi in Cina, resistenza alle espropriazioni della terra in Africa e in Bolivia, resistenza armata in Iraq, insolvenza dei debitori negli stati Uniti…ecc.) il passaggio dal tubo si fa più difficoltoso, l’accumulazione s’ingolfa… servono soluzioni nuove. Per il capitale si tratta di liquefare e stroncare le connessioni, per i movimenti della classe di solidificare e connettere.

Una figura simile a quella dell’imbuto era stata utilizzata in uno dei primi testi di MN (“The Work/Energy Crisis and the Apocalypse” 1980) dove si parlava di «collettore del lavoro». Nel lessico tecnico si definisce «collettore» un condotto di tubazione che distribuisce o raccoglie fluidi di diversa specie e di diversa provenienza. Introducendo una raccolta di suoi scritti uscita negli ultimi anni (“In Letters of Blood and Fire”, 2013 – scaricabile qui) George Caffentzis riprende questa figura:

«Il lavoro è un collettore che si estende attraverso tutte le attività umane, la maggioranza delle quali sono invisibili, non riconosciute e non pagate. Ogni tentativo di isolare il lavoro in un ambito particolare (fabbrica, campo o miniera) ne distorce la comprensione, poiché il lavoro dev’essere rintracciato finanche nella casa, nel trasporto e nelle prigioni. Come abbiamo imparato dalle compagne del Salario per il Lavoro Domestico, il lavoratore e la classe operaia non possono più essere identificati esclusivamente coi lavoratori salariati “protetti” dai contratti sindacali. Casalinghe, schiavi, piccoli spacciatori, contadini e carcerati sono tutti parte della classe operaia. Il loro lavoro attraversa tutta la lunga storia del capitalismo, crea valore alla pari del lavoro dei salariati; il loro rifiuto può avere per i capitalisti gli stessi effetti devastanti degli scioperi dei lavoratori salariati»2.

Non ci si inganni se prima parlavamo di capitalismo come imbuto e qui si accenna al lavoro come a un collettore. Capitale e Lavoro staranno pur di fronte antagonisticamente, ma come l’operaismo ci ha insegnato: nella società capitalista il lavoro e sempre lavoro per il capitale, fino a quando non appare come rifiuto. Del resto:

«la lotta di classe non deve essere solo cercata nei grandi scioperi, nelle insurrezioni dei lavoratori e negli atti costitutivi dei rivoluzionari. Il suo nocciolo sta nelle micro-lotte tra lavoro e rifiuto, micro-lotte che in un secondo tempo possono diventare scioperi, insurrezioni, atti costitutivi»3.

Buona lettura!

 

Note

1 George Caffentzis, In Letters of Blood and Fire. Work, Machines, and the Crisis of Capitalism , PM Press, 2013, p. 2-3

2 Idem, p. 3

3«TPTG’s Conversation with George Caffentzis» (http://www.wildcat-www.de/en/material/tptg_caf.htm)

 

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