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Rintracciare le matrici della violenza: dall’uomo alle istituzioni. Parte seconda

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Di seguito la seconda parte dell’intervista all’esperienza femminista della Mala Servanen Jin – Casa delle donne che combattono a Pisa [qui la prima parte].

Arriviamo qui forse al punto dell’identità femminile e la sua trasversalità, laddove è più difficile riconoscersi in una condizione proletaria, di sfruttate, invece la condizione di donna è autoevidente. Però, immagino che una condizione così trasversale fosse facilmente svuotabile e depoliticizzabile. Come si è costruita una politicità su questa trasversalità?

C: Quello che abbiamo provato a fare è stato sviluppare comunque alcuni aspetti del piano femminista attuale. La salute è uno di questi. È uno di quegli aspetti difficilmente riassorbibili dalla controparte. Abbiamo attivato ad esempio qua alla Mala un laboratorio su questi temi a partire dal riconoscimento di alcune forme di violenza come quelle subite al reparto di ginecologia di Pisa dove vieni trattata come un pezzo di carne. Abbiamo provato a ricollegare questo fatto al legame tra utenti e lavoratori del servizio sanitario. C’era da una parte una critica al funzionamento di quel servizio, a come vengono fatte o non vengono fatte le visite, l’aspetto della violenza ostetrica etc., dall’altra parte la questione della sanità in generale a partire dallo specifico femminile, ovvero il fatto che banalmente per fare una mammografia o per fare visite specifiche devi aspettare millenni o spendere un sacco di soldi. Davanti a questa realtà il governo cittadino si vanta pure di dare chissà quali servizi alle donne, ma chiunque abbia attraversato quei reparti lì vede di come siano una merda totale su tutti gli aspetti. Il fatto di avere all’interno della nostra assemblea anche gente che ci lavora, per noi è stato importante. Univamo il fatto che ti trattano a merda alla comprensione che anche chi ci lavora subisce quel servizio: hanno migliaia di persone da visitare, non hanno posti letto, non hanno abbastanza soldi, non hanno niente. E quindi quello che abbiamo iniziato a fare è il provare a mettere assieme queste istanze comuni tra utenti e lavoratrici. Perché anche queste lavoratrici si sentono da una parte il peso di dover lavorare con delle persone e non con dei pezzi di carta, quindi finendo per autosfruttarsi sempre e comunque, e dall’altra, per questo, vanno in burn-out. L’incontro tra quelle della Sodexo e le dottoresse e caposala di Cisanello a partire da alcuni laboratori sulla sanità che abbiamo aperto qui ci permette di iniziare ad approcciarci alla questione della salute a partire da questi due ambiti: quello dell’utenza e quello di chi ci lavora. Lavorando con quelle che ci lavorano, organizzando scioperi o l’astensione da mansioni non richieste per contratto.

Assemblea donne in lottaG: per esempio la bolla è quel documento che la ditta in appalto delle pulizie stipula con l’azienda ospedaliera per dimostrare che i lavori richiesti nel capitolato d’appalto sono stati svolti. Le caposala la firmano. Ma queste bolle non corrispondevano mai al vero perché tante sale non venivano pulite e le caposala le firmavano per non mettere in difficoltà le lavoratrici. Queste, quando hanno iniziato a pretendere più ore di lavoro per poter comunque svolgere quelle mansioni che prima comunque venivano richieste in poche ore, hanno permesso anche alle caposala di non firmare alcune bolle, mettendo in difficoltà la Sodexo. Incontrandosi hanno potuto chiedere se fosse più utile alle lavoratrici firmare o non firmare le bolle.
È stata un po’ la stessa dinamica del tavolo welfare-lavoro. Abbiamo provato a non alimentare la guerra con gli assistenti sociali ma al contrario, allargando il discorso, abbiamo provato assieme agli assistenti sociali a fare un discorso contro il meccanismo dell’assistenza sociale. Anche qui ci siamo dette che bisognava creare un collegamento con le tante operatrici sociali, alcune assistenti sociali che venivano alle riunioni e che pure avevano bisogno di una critica al servizio sociale. Su questo tema abbiamo scritto una lettera destinata ai servizi sociali, assieme agli operatori sociali e contro il ministro Minniti. Noi ci siamo andate a prendere il codice deontologico. Abbiamo pensato a evidenziare il codice nei punti in cui evidentemente entra in conflitto con quella che è la vera funzione di mediazione dell’assistente sociale all’interno del meccanismo del servizio sociale. Combattere quella cosa significa auto-negarsi in quel meccanismo. Volevamo costruire un’assemblea pubblica ma poi ci hanno sgomberate, stampando i passaggi del codice in cui viene descritto quello che dovrebbe essere il loro lavoro, “anche voi lo volete fare, ma non potete”, quindi andiamo in comune assieme a protestare. Noi vogliamo usufruire di questo servizio senza subire.

M: Il fatto di individuare e organizzare un attacco a delle controparti è quello che ha definito una pratica di lotta antagonista nel nostro approccio di genere. Questa è stata la forza e la difficoltà perché vogliamo che questo metodo sia comune anche alle altre della rete e non sia riducibile alle antagoniste. Qui sta la difficoltà ma anche la potenza, perché con il discorso femminista abbiamo la possibilità di disporre di una trasversalità. Quindi anche preparare il discorso sull’assistenza sociale, sul servizio sociale, sul fatto che non sei solo le utenti, sì siamo le utenti ma siamo anche donne, siamo medici, siamo avvocate, e tutte insieme, insieme agli operatori, riprendiamo quelli che devono essere i fondamenti del vostro lavoro. Senza dire “sei una merda perché fai quel lavoro”. “Nel vostro codice deontologico sta scritto questo, anche nel mio di medico sta scritto questo, però non ce lo fanno fare. Com’è che tutte assieme possiamo dire no?”. In questo senso la potenza dell’avere uno sguardo antagonista sul femminismo sta nella trasversalità di una condizione comune altrimenti impossibile. Perché noi ci avevamo anche già provato negli anni passati a fare incontri con la Società della Salute, con gli assistenti sociali più disponibili, però non andavano mai in porto, nel senso che poi rimanevamo loro e noi del comitato. Invece così c’è un possibile riconoscimento, nel senso che l’8 marzo c’erano tutte in piazza queste qua dicendo, rispetto ai nostri cartelloni: “ ma non ve la dovete prendere con noi, perché obbligano pure noi”. Allora, rispondevamo, lottiamo insieme. Cerchiamo assieme di non essere più umiliate, noi come utenti e voi come operatrici.

C: Il riconoscimento è possibile se le metti in contraddizione sempre. Tutti questi soggetti che hanno provato a mettere noi in contraddizione, si sono trovati loro in contraddizione. Perché è il ruolo che ricoprono che viene messo in crisi.

Il riconoscimento comune è partito dal rintracciare altre condizioni della violenza…

M: sì ma questo è stato possibile perché non ci siamo mosse in maniera strumentale. Abbiamo sempre avuto un grado di investimento totale nel percorso. Ovviamente tutto calibrato e pensato, ma totale. Questo ci ha costruito una credibilità, sono caduti dei pregiudizi.

M: diventa una catena di eventi per cui tu una volta che hai visto questa roba, ci siamo conosciute, hai seminato una cosa assieme.

L’identità antagonista non è soppressa ma si sceglie politicamente di non farla essere l’inizio e la fine del processo?

M: sì. Infatti non si è mai nascosto nulla. Ed era pacifico. Anzi addirittura c’è stata una maggiore circolazione nei percorsi di lotta più nostri: più presenza, più partecipazione. Non è stato cancellato niente di quello che eri, ma si è accresciuto uno spazio che è di apertura cittadina.

G: Siamo state brave secondo me a trasmettere il fatto che non vogliamo più avere paura. Se vogliamo combattere la violenza la violenza è quella, è avere paura. Quindi combattiamo le nostre paure nei confronti dell’ufficiale giudiziario, del mio uomo, di mio padre, mio fratello etc.

Avete parlato di questa insistenza sui linguaggi. Voi come avete elaborato questo tema?

M: noi abbiamo risposto, sopratutto per ciò che riguarda le accuse sul linguaggio e le pratiche, che il femminismo pacifista e non violento non è l’unico esistente, nè il privilegiato. Abbiamo riportato il dibattito a una dimensione di pluralità dei femminismi.

M: Il loro punto di partenza era che la rabbia non è femminista, c’è stato un punto in cui cozzavamo subito perché tutto quello che facevamo noi non era dunque femminista e non poteva stare all’interno di Non una di Meno.

C: anche per loro era una contraddizione. Nel senso, sostieni le donne curde e poi dici che il femminismo è pacifismo e non violenza?

M: Tra noi poi abbiamo iniziato un dibattito su cos’è femminismo e una formazione di genere diciamo tenendolo sempre legato però a dei contesti sociali, questa è la sfida e il lato più difficile e che crea più contraddizioni a queste altre. Non esiste un linguaggio femminista. Esiste un linguaggio che costruiamo nelle lotte femministe oggi.

M: La spinta di volontà di approfondimento è tanta tra noi, il problema da un lato è questo di formazione in divenire; dall’altro lato ci sono anche compagne che sostengono di non voler essere femministe – la nostra assemblea è molto composita – intendendo con questo termine però un’impostazione istituzionale e statica.

M: per quanto riguarda le dinamiche separatiste noi in realtà non abbiamo instaurato una pratica separatista anche se siamo un’occupazione di sole donne. Il femminismo, come altri vettori trainanti e profondi, è inserito in una prospettiva di ribaltamento totale della società. Per cui l’ambito separatista in cui queste cose le può capire solo una donna non può essere un carattere strategico, perché l’obiettivo è condividere e trasformare insieme agli uomini… con loro viviamo nel mondo.

Abbiamo parlato della trasversalità della dimensione femminile-femminista a livello di attivazione di un corpo militante e di un giro largo. Ma un’altra cosa forte è stato il consenso sociale molto più ampio, di legittimità… questo è anche peloso ma comunque è meno perimetrabile in un’identità nostra classica, ipericonoscibile e dunque neutralizzabile. Quali sono stati gli effetti sulla scuola, il vicinato, la città?

C: tanto ha fatto la storia dello stabile, abbandonato da anni, e il fatto che comunque questo è il quartiere del Newroz, quindi giochiamo anche un pò in casa. Poi la riqualificazione di questo edificio ha veramente inciso, nell’immaginario oltreché nella qualità di vita del vicinato. L’abbiamo giocata totalmente noi questa carta.

M: si è spinosa, però siamo riuscite a far arrivare quello che siamo veramente, non solo il lato gioioso diciamo. Sì le donne, però che fanno! Le nostre scelte hanno avuto un potato importante, le assemblee delle donne in lotta è stato al centro subito; e non è mai stato un percorso solo di mutualismo o apertura di servizi o difesa dalla violenza. Nel primo mese abbiamo solo pulito, però i contenuti erano chiari e abbiamo forzato affinché arrivassero immediatamente. Sicuramente anche il fatto che allo sgombero si sia risposto prima di tutto dalle donne che vivevano quotidianamente lo spazio, ha dato un segnale forte. Anche perché le risposte son state subito determinate. Non se lo aspettava la controparte ma anche chi era alla finestra a guardare o era con noi in quel momento. Tutto ciò ha innescato una serie di reazioni che ci hanno accresciuto.

1 giugno rioccupazione Mala 1Torniamo allo sgombero…

G: Ci ha chiamato la vicina alle 8.20 di mattina, la scuola era aperta, c’è un istituto alberghiero a fianco alla Mala, i ragazzi sono rimasti chiusi dentro. Volevano fare entrare i ragazzi a scuola e poi sgomberarci, questo era il loro piano. Nel giro di un quarto d’ora eravamo una decina. I turni la notte non li facevamo da due settimane, facevamo i laboratori e stavamo facendo i lavori per l’abitativo. Poi abbiamo scoperto che il sequestro era partito il 5 maggio e avranno indagato vedendo che la mattina c’eravamo di meno.
Abbiamo continuato a fare chiamate siamo diventate una cinquantina. Erano già dentro: digos, polizia, carabinieri, vigili del fuoco, tecnici. Anche la scuola aveva messo delle guardie. La polizia era davanti al cancello e non si poteva entrare. Qualcuna è riuscita ad apparire nel giardino e poi da lì hanno provato a buttarci fuori ma è stata lunga, ci siamo attaccate agli alberi, tra noi e nel frattempo c’era il presidio fuori. Dopo mezz’ora è partita la prima carica di allontanamento per separarci da quelle dentro perché tutte provavano a entrare.
Già c’era stata una prima carichetta appena arrivate alle 8.30, è durata pochissimo ma c’è stata. Eravamo lì da tre quarti d’ora più o meno quando un ragazzo ex medi è entrato nella scuola e stava uscendo con altri studenti, le classi sono state tutta la mattina affacciate alle finestre a guardare cosa succedeva – poi non li hanno fatti uscire finché i genitori non andavano a prenderli-, e mentre uscivano è partita la carica che è durata molti metri sino alla rotonda del CNR.

M: Il loro obiettivo era limitare la nostra presenza dopo il secondo cancello della scuola almeno, nella loro testa noi ce ne saremo andate alle 11. Quindi quando il danno era fatto perché noi eravamo sempre lì hanno provato a scacciarci indietro. Intanto stavano portando fuori le 5 compagne che erano nel giardino però non capivamo come e quindi comunque spingevamo per riavvicinarci, Non ci hanno disperse.

G: a resistere alle cariche e a offenderli c’erano donne, anche della nostra assemblea, che non si erano mai ritrovate davanti agli sbirri, manganellate, non gli era mai passato nell’anticamera del cervello di dire a un poliziotto “sbirro di merda”. C’è stata tanta solidarietà tra di noi, siamo state costrette a indietreggiare ma eravamo tutte insieme e poi cercavamo di riandare in avanti dalle altre dentro. Hanno provato a spezzarci perché nella carica una parte è finita alla rotonda del CNR, qualcuna è rimasta indietro vicino alla scuola e continuava a urlare davanti ai cancelli della Mala. Anche un consigliere comunale dell’opposizione è entrato dentro e si è fatto trascinare di peso. È arrivata anche un’altra consigliera dei 5 stelle e una di Sel. Delle 5 nel giardino 3 sono state portate via di peso e una, immobilizzata mani e piedi è stata manganellata alla testa mentre le davano della puttana. Alla fine ci hanno lasciato uscire tutte a ricongiungerci alle altre.

M: intanto nella carica una compagna nostra di 60 anni era stata ferita e andata all’ospedale con la testa rotta e poi anche il braccio.

C, G: e infatti gli sbirri son stati dei dementi. Continuavano a offendere, mentre li filmavamo, continuavano a farci insulti sessisti.. la digos stava impazzendo, ci pregava di andare via.

C: sui media ha girato tantissimo dappertutto ma anche in città nelle chiacchiere. Perché comunque uno sgombero di questo tipo a Pisa è un segnale ben particolare e di un certo tipo, che non era scontato, lo siamo riuscite a costruire con la soggettività che si è creata e sviluppata.

Sul PD questo piano delle donne sembra metterli più in difficoltà – è un tema della sinistra se associato ai diritti e all’emancipazione – più di quanto non lo faccia altri temi a legati a altre esperienze di lotta. Come avete riflettuto su questo aspetto?

C: sì infatti, l’8 marzo loro avevano attaccato lo striscione Non una di Meno dal comune, avevano aderito alla manifestazione in consiglio comunale. Aprire questo spazio come Non una di Meno per loro è stato uno schiaffone.

G: E per questo lavoriamo affinché il piano cittadino continui. Anche la solidarietà ci è arrivata da settori a lori affini, e anche al loro interno c’è stata discussione sulla gestione della situazione dello sgombero. Poi il consiglio comunale di San Giuliano, PD, ha fatto una mozione in solidarietà nostra! Anche centri antiviolenza, consiglieri…
Perché dopo lo sgombero noi ci siamo accampate due giorni sotto il comune, abbiamo dormito lì perché il giorno dopo c’era il consiglio comunale. Abbiamo portato coi consiglieri una mozione d’urgenza che non hanno votato! Ma tante nel consiglio comunale erano in difficoltà. Abbiamo turbato un pò di equilibri, e ora la sfida è non farli normalizzare di nuovo.

M: Tra lo sgombero e la rioccupazione è interessante cosa abbiamo fatto! Con un forte portato di stress la nostra rete si è comunque fortificata perché anche se non avevamo più un posto ci raccoglievamo: sotto il comune, in altri spazi occupati… questa cosa non è che si è data spontaneamente è stata condivisa sia nell’informalità che nei momenti formali. Era una cosa che andava affrontata perché la Mala era un posto a cui tutte subito si erano affezionate, c’era un grosso portato emotivo e di liberazione, che per chi non aveva nessun percorso alle spalle di conflitto, è un evento traumatico su cui non essere superficiali. Il fatto che tu esistevi comunque tutte assieme anche se la Mala era sgomberata, è stato un altro importante passaggio di presa di forza. Tutte per esempio volevano rientrare subito, anche condividere e capire che ci sono dei tempi politici da rispettare sono stati passaggi di costruzione di fiducia e crescita politica condivisa. Abbiamo impiegato tante energie per riuscire a farlo, emotive, politiche, fisiche.
È nata la sensazione di essere qui ma di poter essere anche dappertutto. Come il 2 giugno in piazza Garibaldi (avevamo un volantinaggio per la riapertura, Filippeschi nella piazza affianco celebrava la festa della Repubblica attorno al tema del decoro: ci furono contestazioni, fermi, perquisizioni anarchici arrestati, macchine della polizia che trasportavano i fermi bloccate). Quando succede qualcosa in città Mala Jin si guarda negli occhi e agisce. Questo si è fortificato dopo lo sgombero.

G: dopo lo sgombero e sotto il comune molte di noi erano molte stanche ma dovevamo costruire un programma improvvisando. Cogliere gli umori e le volontà e organizzarle. Dallo sgombero ogni giorno siamo state attive: abbiamo fatto ogni pomeriggio delle cose. Video, allestimento di via Garibaldi con cartelli fiocchi striscioni, parlato coi vicini, coi commercianti. Prima di occupare facevamo tutto uguale ma fuori, sul marciapiede sulla strada. I vicini erano indignati perchè avevano negli anni fatto diverse interpellanze al comune per il posto vuoto e degradato, poi noi lo abbiamo rimesso a posto e il comune ci sgombera con la celere davanti alla scuola. Erano sfavati.
Quindi anche il rientrare era un momento che dovevamo condividere anche con loro in una certa maniera, a livello di consenso. Poi dalla mattina dello sgombero abbiamo detto che la mala la riprendevamo e con tanta fatica abbiamo mantenuto la promessa. C’era paura anche tra noi, per le conseguenze, comunque è un passaggio grosso. Abbiamo fatto delle assemblee per parlare di tutte le possibilità il giorno della rioccupazione: trasmettere fiducia, coraggio… organizzarci: “se questa volta tornano saremo pronte e perché no, saliremo pure sui tetti”. Nonostante la paura, dopo lo sgombero e con la preparazione della rioccupazione la fiducia c’era per organizzare e lasciare la libertà di resistenza.
Con la fiducia che si è costruita nell’organizzazione improvvisata dell’altro sgombero e nelle attività della settimana prima della rioccupazione molte cose poi vengono naturalmente. Nel momento in cui qui ci sono delle donne che ci abitano e vengono a sgomberarci si farà resistenza; e questo significa tante cose: incatenarti all’albero, salire sul tetto e tutte le forme che ognuna si sente di mettere in campo; ci sarà chi vuole lanciare i fiori, chi vuole gonfiare i palloncini. Ognuna ha la libertà di esprimere nella sua forma la resistenza che vuole mettere in campo.

G: Il giorno dell’occupazione abbiamo messo su una scenografia con dieci copertoni di gomme con dentro dei fiori, pentole e tegami, alcune si sono barricate dentro. Per tutta la mattina abbiamo picchiato le pentole per cinque ore, fatto casino, bloccato a singhiozzo la strada, siamo andate in Comune.

C: avevamo discusso tanto tra di noi del fatto che l’occupazione doveva essere un momento di attacco, non poteva essere fatta in sordina, fare in modo e maniera che o intervenissero subito o mostrare noi la loro debolezza.
Anche ora al nostro interno non è tutto lineare e omogeneo, è un processo e continuamente ci confrontiamo con punti di vista differenti ma troviamo sempre una sintesi a rialzo. Questo non è un peso, anzi riteniamo sia molto importante, perché altrimenti andremo avanti come dei treni, magari dando tante cose per scontate, e perderemmo dei pezzi. Questi rallentamenti servono perché condividi sino in fondo tutto il processo che porti avanti e le decisioni sono sempre collettive.

Che valutazione date della rete nazionale Non una di Meno?

C: noi siamo andate solo all’ultima assemblea, quella di Roma. C’è un tot di gente che non fa parte di nessuna rete nazionale, singole che lavorano a scuola e si attivano nei posti di lavoro. Io ho partecipato al tavolo welfare e lavoro. Si parla di cose vere, di gente che lotta nel suo piccolissimo contesto, che non ha nessun tipo di rete, nè sindacale nè collettiva, e che in questo spazio vede l’opportunità di potersi organizzare, confrontare e avere delle scadenze, date e prospettive di attivazione.
Nei report dei tavoli per noi non c’è nulla in contraddizione con quello che diciamo, anzi. I nodi Non una di Meno, sopratutto in città dove non c’è nulla, sono importanti perché sono una prospettiva di lotta cittadina. Ci sono anche realtà del sud. Tante ci seguivano, a noi alla Sodexo, ci chiedevano per capire, dopo i nostri interventi andavano nella nostra direzione, hanno fatto inserire nei report la questione degli sfratti etc..
Per noi è una ricchezza stare in quella rete perché ci ha permesso di confrontarci su altri aspetti che altrimenti avremmo, per mancanza di tempo etc., lasciato da parte. Invece siamo cresciute tanto anche da quel punto di vista.

G: Poi noi siamo sempre state chiare sul fatto che non venivamo da una formazione femminista ma ce la stavamo creando facendo.

M: Noi abbiamo una prospettiva differente di lotta anche oltre i classici percorsi femministi. Perché la lotta è a partire da una condizione specifica ma poi coinvolge tutto, non si ferma alla condizione di partenza ma al massimo ci ritorna dopo aver ottenuto scontrandosi. Anche i centri antiviolenza e le case protette non hanno soldi e possono dare solo delle soluzioni parziali, lo sanno meglio di noi come funzionano i “servizi”. Noi non assecondiamo mai questo ricatto ma lo ribaltiamo, singolarmente in un’organizzazione collettiva. Le debolezze noi le facciamo diventare punti di forza, non è semplice perché bisogna scontrarsi e mettersi in gioco davvero.

C: In qualsiasi ambito degli 8 punti si può dare battaglia, basta iniziare a farlo, scegliere, organizzarsi… (infatti ora noi facciamo così). Ma lo sanno tutte quelle che vanno a Non una di Meno che bisogna iniziare a dare battaglia e lottare, non basta scrivere questo piano. Non c’è alternativa, per portare avanti quei punti devi scontrarti. Devi arrivare al momento della lotta se assumi quel piano integralmente.

Che valore ha avuto l’importanza del creare una comunità?

C: Noi qui, quello che abbiamo fatto, non me l’aspettavo. Anche noi siamo dovute crescere in fretta, anche scontrarti con delle cose, responsabilità, condivisione a tutti i livelli.

G: La creazione di un altro tipo di femminismo.

M: Alcune della Mala avevano fatto già percorsi femministi e non si trovano per nulla frustrate dalla nostra dimensione un pò spuria per il femminismo sia istituzionale che di movimento. C’è un rispetto del passo che ci siamo date.

G: poi ci sono sempre anche gli studenti medi, le bimbe sono qui sempre.. .anche i compagni vengono, a loro scelta. Non è un percorso separatista. Anche perché questo percorso è nato da lotte miste (servizi sociali, quartieri). È uno spazio estremamente rispettato e anzi la sua importanza è riconosciuta anche nell’organizzazione di altri percorsi.

M: Anche chi passa a portarci un pò di spesa è inserita in una rete di appartenenza e quindi poi tutto si trasmette, informalmente. Viene della gente anche da Livorno.

G: Abbiamo anche dovuto lavorare tanto su di noi, sullo stress, ma riusciamo a fare tutto! Ognuna sa come siamo organizzate e ci regoliamo da sole senza scazzi su chi cucina, chi pulisce, è sempre ordinato…qui funziona tutto. Tutto è politico, dal ritirare i piatti della cena a decidere in assemblea come costruire le barricate (coi fiori in mezzo). Perché se questi aspetti li vedi come estranei poi queste quotidianità, che sono fondamentali, diventano solo una rottura di cazzo. Ma noi donne dobbiamo farle lo stesso.
In tutte le assemblee da quelle nostre dei laboratori, tipo salute, operatrici sociali e utenti, a Non una di Meno, c’è sempre il rischio che “finisca a schiaffi” perché ci sono persone veramente diverse, ma non succede mai. Perché si arriva a delle conclusioni collettive che singolarmente non erano neanche pensabili.

Riscatto Pag 2 1334x820 0288Che effetto fa essere solo donne?

G: io mi sto sentendo bene, parlare delle cose che non ho mai fatto, condividere delle cose, anche col fatto che siamo di età diverse. Parlare di quello di cui vuoi parlare.
Un senso di comunità pazzesco, ci aiutiamo un casino, coi figli (lo tengo io, tu vai). ci possiamo sentire tranquille, fidarci di tutte, anche sulle cavolate, come la spesa..

M: tutto questo però in parallelo alle lotte! E quindi questo si riflette anche nelle lotte che fai (alla Caritas una di noi voleva intervenire, avere più protagonismo, ma aveva la bimba, e allora gliel’ha tenuta un’altra di noi, ma felice, non come se fosse un peso). Non è assistenzialismo è un percorso di rete anche su altri piani, per andare nei posti organizzarsi che tutte abbiano di come arrivare etc. così rompi la vergogna di chi “allora non vado che poi devo rompere a qualcuno per farmi venire a prendere”, e se diventa un automatismo ti emancipi. La roba della noia e dell’accollo di fare le cose qua non c’è, anche se siamo stanche non ci lamentiamo in continuazione scaricando la tensione sulle altre. Organizziamo le cose in modo che stiamo tutte bene e se siamo stanche ci riposiamo.

G: questo bisogno ci veniva dagli sportelli di quartiere, col fatto che anche prima della mala ci venivano tante donne, mille problemi, storie pesanti e lo vedevamo che poterci incontrare tutte assieme con le studentesse etc sarebbe stata una potenza. Ora vengono alla Mala, prepariamo video di denuncia, facciamo emergere le responsabilità politiche, ci organizziamo insieme (chi lavora in università con chi ci studia, chi pulisce l’ospedale con le dottoresse…). e non c’è in questo confronto un senso di inadeguatezza rispetto alle “differenze di classe” o un invidia ma si crea un piano comune per lottare.
Cavalchiamo quest’onda!

 

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Relazione a cura della redazione di Bologna di InfoAut.org al seminario di Autonomia Contropotere, Val di Susa, 15-16 Luglio 2017 Per provare a tracciare un quadro delle attuali linee di tensione e di scontro, nonchè dei possibili scenari a venire nell’ambito delle relazioni internazionali e della geopolitica nel 2017, finalizzato a comprendere quali possano essere […]