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Guerra in Medio Oriente: non è un se, ma un quando

Da giorni ci si domanda quando e di che intensità saranno le risposte dell’Iran e di Hezbollah agli omicidi mirati del leader di Hamas Haniyeh e del comandante di Hezbollah Fouad Chokr. Ammonimenti e minacce velate vengono emesse con regolarità dagli Stati Uniti ed i suoi alleati europei nei confronti del regime di Teheran per scongiurare una rappresaglia significativa.

Ma il vero tema è un altro: chi vuole un ampliamento del conflitto? Chi vuole trasformare la carneficina di Gaza in una guerra regionale? L’Iran non ha alcun interesse in un’ulteriore escalation: vive una crisi profonda e strutturale su diversi piani di cui l’omicidio di Haniyeh è una dimostrazione cristallina. Le elezioni notificano questo clima con la vittoria del riformatore Pezeshkian, non certo un falco per tempi di guerra, ma una figura che sia in grado di trattare o quanto meno di tenere dei canali di dialogo aperti con l’Occidente. La teoria della “pazienza strategica” più volte enunciata dal leader di Hezbollah Nasrallah è un tentativo di tenere insieme questa oggettiva debolezza ed una prospettiva di più lungo termine in cui la speranza è che emergano nei fattori nuovi sullo scacchiere politico e geopolitico in grado di sconvolgere il quadro: una progessiva frattura tra la comunità internazionale ed il governo di Netanyahu, una riemersione di un conflitto interno allo Stato d’Israele in degrado che sia sul piano delle piazze o in quello dei palazzi, il riarticolarsi almeno parziale del clima politico arabo o un effettivo disimpegno dall’area degli Stati Uniti dettato dagli altri scenari di scontro. Si parla in ogni caso di tempi molto lunghi prima che almeno alcune di queste condizioni si realizzino, ammesso che succeda.

A freddo avrebbe senso pensare che anche per lo Stato d’Israele non sarebbe consigliabile aprire nuovi fronti di scontro in una fase in cui dopo più di dieci mesi di massacri non è ancora riuscito a prendere il controllo di Gaza e a neutralizzare del tutto la forza offensiva della resistenza, ma la razionalità a breve o a lungo termine non è necessariamente un fattore che guida la politica israeliana, come ormai è palese di fronte agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Ci sono vari fattori da considerare e tra questi la parabola politica di Netanyahu rappresenta un elemento importante, ma non l’unico. L’aspetto forse più evidente è che uno scontro aperto con l’Iran, ancora di più che con Hezbollah, porterebbe ad uno spostamento semantico della guerra dove il focus non sarebbe più sul genocidio di Gaza, ma sullo scontro tra uno Stato considerato alfiere dell’Occidente ed uno dei suoi più fieri nemici nella retorica mainstream. Questo non è un fattore da sottovalutare: se le piazze di mezzo mondo si sono riempite in solidarietà con il popolo palestinese facendo pressioni sui propri governi cosa succederebbe con uno slittamento del genere? Sebbene il governo israeliano non perda occasione per affermare che non tiene in considerazione l’opinione pubblica internazionale è evidente che questa ha un ruolo significativo nelle dinamiche globali e la visita di Netanyahu negli USA tra entusiasmi ed imbarazzi lo dimostra. Non bisogna poi sottostimare il ruolo dei precedenti storici nella visione politica del governo: le due guerre arabo-israeliane hanno imposto l’idea di una invincibilità dello Stato sionista. Un’invicibilità che l’operazione del sette ottobre ha messo in discussione come mai prima con strumenti di fortuna e da parte di fazioni della resistenza che non hanno neanche vagamente l’organizzazione di un esercito regolare. Ciò è successo proprio nel momento in cui i rapporti di vicinato con i paesi arabi sembravano andare verso una normalizzazione totale. Dunque ad essere stata messa in discussione è l’essenza stessa della deterrenza israeliana: nella visione di alcuni politici israeliani una grande guerra con l’Iran è lo strumento per ristabilire questa aurea di invincibilità da cui dipende la sopravvivenza del progetto sionista.

Inoltre la politica israeliana dal sette ottobre in poi è stata guidata da un mix letale di opportunismo politico, cieca rabbia e visioni messianiche. Alastair Crooke, ex MI6 e diplomatico britannico di lungo corso esperto di Medio Oriente, in un suo recente articolo riporta le dichiarazioni di Moshe “Bogie” Ya’alon, ex Capo di Stato Maggiore dell’IDF, che è stato anche ministro della Difesa israeliano:

“Parlando di Smotrich e Ben Gvir: hanno un rabbino. Si chiama Dov Lior. È il rabbino della Metropolitana ebraica, che intendeva far saltare in aria la Cupola della Roccia – e prima ancora gli autobus di Gerusalemme. Perché? Per affrettare l’’ultima guerra’. Non li sentite parlare in termini di Ultima guerra o del concetto di ‘sottomissione’ di Smotrich? Leggete l’articolo che aveva pubblicato su Shiloh nel 2017. Prima di tutto, questo concetto si basa sulla supremazia ebraica: il Mein Kampf al contrario.

Mi si rizzano i capelli in testa quando lo dico – come l’ha detto lui. Ho imparato e sono cresciuto in casa di sopravvissuti all’Olocausto e ‘mai più’. È il Mein Kampf al contrario: supremazia ebraica: e quindi [Smotrich] dice: ‘Mia moglie non entrerebbe mai in una stanza dove c’è un arabo’. È ancorato all’ideologia. E poi, in realtà, ciò a cui aspira – il prima possibile – è una grande guerra. Una guerra di Gog e Magog. Come si accendono le fiamme? Con un massacro come quello della Grotta dei Patriarchi del 1994? Baruch Goldstein è un allievo di questo rabbino. Ben Gvir ha appeso la foto di Goldstein [a casa sua]. Questo è ciò che entra nel processo decisionale del governo israeliano”.

Conclude Alastair Crooke: “Non è ora che le strutture dirigenti occidentali alzino gli occhi dalle loro fantasticherie e leggano le rune che si manifestano intorno a loro? Alcuni giocatori seri non pensano come voi occidentali; cercano Gog e Magog (la profezia secondo cui “i figli di Israele” saranno vittoriosi nella battaglia di Armageddon). Questo è ciò che si rischia.”

Qui si va oltre il tentativo di iscrivere la lotta di liberazione palestinese all’interno di una guerra di civiltà, gli elementi messianici e suprematisti del governo israeliano pensano alla guerra con l’Iran come lo scontro definitivo che permetterà il trionfo dell’etnostato sionista sugli arabi e fanno pressioni quotidianamente in quella direzione. Il governo di Netanyahu per altro dipende in larga parte dal consenso del movimento dei coloni e dei suprematisti religiosi.

In questo quadro qualunque sia la risposta dell’Iran e/o di Hezbollah agli omicidi mirati, la domanda da porsi è quando scoppierà la guerra, non se questa ci sarà. Teheran per sua parte può provare ad anticipare o posticipare i tempi dell’escalation, ma le provocazioni israeliane senza dubbio continueranno e non potrà fare melina per sempre con il rischio di implodere nella sua dimostrazione di debolezza di fronte al mondo. “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo” è il detto afgano divenuto ancora più famoso dopo il precipitoso ritiro degli Stati Uniti, ma in questo caso il tempo per l’Iran potrebbe non bastare.

Il ministro Gallant ha dichiarato oggi che “negli ultimi giorni, abbiamo dedicato il nostro tempo al rafforzamento delle difese e alla creazione di opzioni offensive in risposta, e anche come iniziativa se necessario, ovunque e in qualsiasi regione, per proteggere Israele”.

Da qui in poi può succedere di tutto, l’escalation può portare ad una guerra regionale, come arrivare a coinvolgere gli alleati strategici di Israele ed Iran. La guerra può scoppiare domani, quanto tra mesi, forse anni. Al netto della remota possibilità che lo Stato d’Israele collassi in tempi brevi, la questione immediata che ci si pone è come affrontare questo possibile slittamento semantico del conflitto.

Che il regime di Teheran sia lontano dai nostri valori e dalle prospettive di liberazione che perseguiamo è indubbio e di certo non ci appartiene la logica del nemico del mio nemico è mio amico, ma non dobbiamo perdere d’occhio il quadro complessivo ed essere consapevoli che se la lotta che stiamo portando è quella al colonialismo, all’imperialismo ed al capitalismo il nostro primo avversario è la perpetuazione di questo ordine di oppressione sempre più generalizzato e violento. Il tema è come contrastare la retorica martellante che verrà imposta, come affrontare questo passaggio non solo evitando che le piazze si svuotino, ma rafforzando uno sguardo sul tema della guerra, del colonialismo e del loro legame con le condizioni di vita di ampi strati proletari che sia all’altezza dei tempi.


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