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Renzi si sgonfia… ma per poco

Tra reazioni sindacali al Jobs Act e manganellate sugli operai Thyssen, qualcosa sembra muoversi. In astratto grandi potenzialità, che però corrono il serissimo rischio di finire in un nulla.

La vicenda degli operai di Terni potrebbe segnalare qualcosa di significativo, come non accadeva da tempo per un conflitto di lavoro (per quanto ancora di vecchio tipo, una “comunità” di grande fabbrica con una media città raccolta intorno ad essa).

Se è così, cautela d’obbligo, non sarebbe “merito” particolare di nessuno. Non dei sindacati che fin qui hanno gestito la vicenda come mille altre, in modo ultramoderato. Non della polizia che, nella più normale delle ipotesi, ha semplicemente iniziato a tradurre nel suo codice le esternazioni antisindacali della Leopolda. E neanche dei lavoratori in sé, sicuramente tra i non pochissimi che fin qui hanno puntato o puntano ancora in un controllato cambiamento gestito da un centro-sinistra “rinnovato” e più autorevole in sede europea (e non è solo questione degli ottanta euro).

Fatto sta che va cambiando il contesto. Un milione di lavoratori dipendenti in cassa integrazione dall’inizio dell’anno con moltissime aziende che non riapriranno più. Un tessuto industriale pesantemente decurtato in questi anni di crisi che non tornerà più ai livelli precedenti. E questo mentre il futuro appare a sempre più gente senza prospettive per sé e per i figli anche al di là del calo drastico dei redditi.

Ciliegina sulla torta, l’annunciato Jobs Act che rende più facili i licenziamenti, relega il sindacato, se pure, al solo livello aziendale aprendo alla cancellazione dei contratti nazionali, destruttura il sistema degli ammortizzatori sociali. Riaffiora la domanda: chi paga la crisi? La risposta torna sconsolatamente a essere scontata nonostante… i venti di cambiamento.

In questo quadro, Cgil e Fiom cercano di far muro su quei residui legislativi e consuetudinari nelle relazioni industriali che gli conferiscono il ruolo di “rappresentanti” del lavoro dipendente. Lo fanno attestandosi sulla linea del minimo sforzo, senza più partito di riferimento, con personale programmi immaginario degni dell’ironia di un Crozza (in realtà impietosito più che sarcastico).
La loro resistenza in astratto potrebbe catalizzare ben oltre la loro area di riferimento. Visti i personaggi e i trascorsi, sarebbe tutto dire su quanto si è deteriorata la situazione sociale, e quanto fragile il consenso al “nuovo che avanza”. Eppure è assai improbabile che si decidano a dare battaglia seria su tutto il fronte delle loro stesse proposte: si potrebbero ritrovare con un consenso… preoccupante, e oggi tutto vogliono e sono in grado di fare tranne che fornire benzina a una risposta che i toni li dovrebbe alzare, e non poco, per ottenere qualcosa. Il punto è che questi sindacati sono strutturalmente e soggettivamente incapaci di parlare alla società in senso più ampio. Ma è appunto nella società che si giocano i rapporti di forza.

Renzi, che questo lo sa di pancia, non può che proseguire per la sua strada pena il fallimento certo e immediato. I margini materiali per un compromesso anche minimo, quale auspicato da una parte (decrescente) del Pd e dalla Cgil, si sono enormemente ristretti.

Ciò non toglie che stanno emergendo temi assai interessanti se visti in prospettiva.

Innanzitutto il problema di Renzi: di fronte a un vero scontro, quali forze sociali è in grado di mobilitare? Rispetto a Berlusconi, sembrava in posizione più favorevole, potendo contare sulla anestetizzazione dall’interno del Pd se non sulla sua vera e propria scomparsa come partito che fa riferimento, sia pure sempre più limitato, al “lavoro dipendente”. Ma come Berlusconi (anzi, peggio di lui) non ha più un partito organizzato a difendere le sue ricette, mentre molto meno seguito hanno certe promessucole sulle progressive sorti di chi ha “merito”. Insomma, la soluzione di Renzi (liquid/ificazione del Pd e della sua base sociale) rischia di diventare anche il suo problema. Se non si è sgonfiato alla prima vera difficoltà è esclusivamente per l’inconsistenza dei suoi “avversari”.

Secondo. Mentre Camusso e Landini non possono che concordare sull’opportunità di abbassare i toni, quello che viene fuori è l’esatto opposto: se i toni della piazza non si alzano nessuno nei palazzi e nei media ti caga. Nè sei in grado di raccogliere simpatia e consenso tra la gente (se la questione viene percepita come riguardante la maggioranza del paese) o comunque di far discutere (come è stato per il 9D un anno fa).

Torna poi al centro un altro dato di realtà reso quasi invisibile da decenni di offensiva capitalistica: il salario legato al lavoro come mezzo di sopravvivenza, al di là della forma contrattuale. Mentre vacilla, anche tra i giovani, l’illusione di fare delle proprie capacità la fonte di una “rendita cognitiva” slegata dalle sorti più generali della salarialità. Oggi si vede come anche il lavoro gratuito, online e offline, e mille altre forme di precarietà portate agli estremi della quasi soppressione della remunerazione stanno e cadono con il monte salari complessivo, “redistribuito” al ribasso spesso via legami familiari. Ma questo, appunto, va drasticamente riducendosi e così la questione di un sostegno generale al reddito torna a presentarsi anche al “lavoro (fin qui) garantito”. Che si riaffacci così, in termini rinnovati, anche la questione della classe lavoratrice?

Ne risulterebbe fortemente intaccata anche la propaganda renziana contro il “posto fisso” proprio mentre nella crisi l’appeal del lavoro “autonomo e creativo” va perdendo vigore. Ci vorrebbe allora un’azione sindacale decisa verso i settori di precari e giovani ma purtroppo non se ne vedono segnali significativi.

Resta che da solo nessun soggetto sociale ce la può fare. Le vicende in corso alludono al darsi di condizioni un po’ più favorevoli a terreni di lotta ricompositivi. Certo, permane il problema di fondo dell’assenza di alternative generali che, pur sempre in un quadro riformista, siano percepite come praticabili dalle grandi masse. La loro soglia di sopportabilità comunque sia va abbassandosi: non è molto, non è nulla.

Per intanto, in vista dello sciopero sociale del 14 novembre qualche elemento in più c’è per provare a rimettere al centro la questione: chi paga la crisi?

 

rk

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