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Napoli: una rivolta per non morire

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Abbiamo scritto a caldo nella notte su quanto stava succedendo a Napoli su facebook: “La piazza di questa notte a Napoli forse è stata di pancia, contraddittoria, ambigua, stratificata come la società in cui viviamo, come il suo rovescio. Ma a Napoli stanotte si è rotta l’ipocrisia dietro cui si nasconde l’incapacità di chi ci governa, il fallimento di questo modello economico di fronte al virus, la violenza che per mesi chi è stato lasciato indietro ha dovuto subire.”

Come previsto la canea mediatica contro chi è sceso in piazza si è scatenata immediatamente. Ancora non si era abbassato il fumo dei lacrimogeni che già i commentatori politici ipotizzavano eterodirezioni della camorra e dei fascisti, proponevano il solito feticcio degli ultras colpevoli di tutto il male del mondo, associavano le proteste di ieri a quelle No Mask, nonostante il messaggio portato in piazza fosse totalmente diverso. E molta della sinistra educata di questo paese si è accoccolata in questa comoda narrazione razzista e coloniale. Una narrazione lineare che senza cogliere tensioni, contraddizioni e istanze della protesta sotto sotto intende dire: in fondo sono i soliti napoletani. Esorcizzare la ribellione. Il problema è che ogni volta che si dà un fenomeno autonomo di conflittualità sociale allargata in questi tempi, che siano i Forconi, o i Gilet Gialli, questo emerge in forme spurie, ambivalenti e contraddittorie. Spesso si trovano nelle piazze persone che almeno in linea teorica avrebbero interessi contrapposti e ancora più spesso queste contrapposizioni è proprio nelle piazze che si consumano. Quindi è molto più facile connotarli come fenomeni fascisti solo perché Roberto Fiore prova ad intestarsene la paternità con un tweet dalla sua comoda poltrona a Roma, o come azioni coordinate dalla Camorra (non si capisce con quale obbiettivo), che provare a comprenderli e a prendervi parte per contribuire alla loro evoluzione.

Come qualcuno notava giustamente su facebook la narrazione mainstream è del tutto simile a quella che ci fu alcuni anni addietro di fronte all’emergenza rifiuti. La responsabilità della crisi viene scaricata sulla popolazione che preoccupata per la propria salute si ribella, invece che sulla inettitudine e corruzione delle istituzioni e delle imprese private (vedi sanità) e infine magicamente appaiono le infiltrazioni della criminalità organizzata nelle proteste per delegittimarle e ridurle a fenomeno delinquenziale. Un copione già visto che si replica ogni qual volta la gente non si adegua alla gestione dell’emergenza dall’alto.

Sì perché sono mesi che sentiamo ripetere con gergo militaresco che “siamo in guerra contro il Covid”. Ma si sa, la guerra è la più ipocrita delle attività umane. Colonnelli in cerca di facile consenso gridano a spron battuto attraverso gli schermi che è colpa nostra se il contagio continua a diffondersi. Intanto i “soldati” di questa guerra continuano ad essere mandati in prima linea con le scarpe di cartone e uno schioppo ogni due. Una guerra ipocrita come dicevamo in cui il problema sarebbe quello che la gente fa tra le 23 di notte e le 5 di mattina (per lo più dormire) e non il fatto che ci si ammala sul lavoro, sui mezzi di trasporto, a scuola, in ospedale e persino nelle code per fare i tamponi. Quindi il coprifuoco, ennesima parola da stato d’assedio, rientrata nel linguaggio comune in poche settimane, ennesima misura ad hoc per non perdere la faccia di fronte all’aumento dei contagi e contemporaneamente non rompere le uova nel paniere ai veri corresponsabili di questa situazione, quelli che per mesi hanno chiesto di riaprire tutto ad ogni costo, quelli che adesso vogliono licenziare ad ogni costo: i padroni di Confindustria e quella marmaglia di banditi che nel nostro paese vengono chiamati imprenditori.

No non siamo diventati “agambeniani” in una notte, crediamo ancora, anzi ancora di più di fronte a quanto è successo che questa non sia una semplice influenza, che il primo compito che ci spetta è quello di prenderci cura di noi stessi e degli altri perché il contagio non si diffonda. Crediamo che questo vada fatto non per obbedienza al potere costituito, ma per amore degli ultimi, di chi è lasciato indietro, di chi soffre nella battaglia contro il virus. Perché sappiamo bene che siamo noi, quelli che stanno in basso a pagare di più in questa crisi provocata dall’economia globalizzata, dalle privatizzazioni, dalla devastazione ambientale, dalla trasformazione della salute in una merce. Ma prendersi cura di noi stessi e degli altri vuol dire non ignorare con un gesto egoistico chi in questa crisi ha perso il lavoro, chi è con l’acqua alla gola, chi rischia di perdere la casa e i propri affetti. Vuol dire lottare al loro fianco, perché finché la gestione dell’emergenza sarà in mano unicamente alla politica, finché gli unici a fare la voce grossa saranno gli industriali allora saremo noi a contare tra le nostre fila morti ed ammalati che sia di Covid o di fame. E’ il momento di tornare ad affermare che la salute è un fatto sociale complessivo e che la ribellione è il sintomo che qualcosa deve cambiare.

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