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Selfie dall’Italia. Profondità di un fotogramma

La fotografia diventa così uno specchio allargato della società. Si estende dal pubblico al privato, dalla strada alla rete. Diventa un punto di vista esteso sul mondo. Le foto instantanee di cibi e animali in loop sulle varie timeline di Facebook e Twitter contornano questa galleria fotografica legata all’immaginario della crisi. Una sfida alla conquista di “like” tra lasagne e gattini. Se fino all’inizio del secolo la pratica ossessiva-compulsiva dello scatto era riservata per immortalare i riti di passaggio imposti dalle culture o alle folle di turisti giapponesi, oggi la fotografia diventa un atto quotidiano e di massa.

Il selfie non è solo un esercizio individualistico che si mischia alla tristezza, semplice autoscatto di se stessi, come scriveva banalizzando lo psicanalista Massimo Recalcati su Repubblica o nell’ “immagine satura” di atto narcisistico che ne da il dizionario Oxford premiandola come parola dell’anno 2013. Selfie è invece diventata pratica collettiva: una foto “riconosciuta” e “riuscita” è proprio quello che coinvolge più persone. Un continuo apparire, che deforma le prospettive bruneschelliane, ma che riesce a descrivere tutti i difetti, le insicurezze e le paure del presente.

Provando ad immaginarsi un selfie dell’Italia al tempo del Job Acts rischierebbe di uscire più o meno così: una fotografia mossa, offuscata che vede sullo sfondo e riprende la crisi che sta stringendo migliaia di vecchi e nuovi poveri, contornata da una rabbia sociale pronta ad esplodere, come ha scritto di recente non un “fomentatore di piazze” ma il direttore della Caritas di Torino. Poi c’è una macchia bianca, che è quella che si è vista con le santificazioni di Pinochet e dell’Opus Dei, quando i veri miracoli invece li fanno ogni giorno migliaia di uomini e donne per riuscire a campare. Un vero miracolo diventa al giorno d’oggi pure abortire e avere diritto alla cura come è successo in Ospedale a Genova. Insomma, quello dell’Italia non è uno selfie dei migliori.

Il Job Acts, l’art. 5 del piano casa, gli 80 euro al mese, e le campagne elettorali in vista delle europee danno un colore ancora più grigio a quella rappresentazione, che si divide tra il puro narcisismo renziano marchiato con l’hashtag #me e l’illusione di una ripresa che non c’è. Per fortuna esiste qualche “filtro di contrasto”. Sono le resistenze come le lotte territoriali, quelle il diritto ad abitare e per il meticciato sociale che danno colore e segno e generosamente riescono a scattare dei flash come hanno fatto il 19 ottobre e poi il 12 aprile a Roma davanti ai palazzi ministeriali.

Scene di un autoscatto senza filtri che ci da la rappresentazione cartografica di uno stivale che dalla parte superiore passando per la caviglia arrivando alla punta, si è trasformato in una forma totalmente precarizzata. Il selfie rappresenta l’essenza della fotografia “alla giornata” dentro una vita diventata filo e per segno “alla giornata”. Una vita che non prevede aperture di diaframma, filtri di colore, obiettivi simmetrici. Solo fotogrammi scattati in un immagine di bassa qualità, senza trucchi, nella sua essenza. Si scatta nell’immediatezza di un presente precario, dove non non c’è spazio per il dettaglio o la cura, perché non si riesce ad immaginarsi il futuro. Le antropologie del selfie, ci danno un ritratto del tutto simile a quello dell’Ocse, ovvero un tasso di disoccupazione giovanile pari al 53%, a pochi mesi dal meeting di Luglio a Torino, dove i vari governi europei si troveranno a discutere sulla disoccupazione e lavoro. E’ già pronto il #selfie di Renzi con Hollande e la Merkel, da scattare rigorosamente dietro la Mole. Nell’Italia di oggi tra uno scatto e l’altro, anche in salita, c’è il tempo per immaginarsi dei “selfie” diversi, che con una messa a fuoco migliore, puntino dal basso verso l’alto rovesciando ogni inquadratura…

Ahmed

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