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Falce ed Algoritmo, eccedenza e dispositivi

Note a partire dal disordine complessivo contemporaneo

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo contributo al dibattito sul movimento “Blocchiamo Tutto” di Collettivo Sumud

Maybe I like this roller coaster. Maybe it keeps me high”.

Lana del Rey, Diet mountain dew

Amore, fai presto, io non resisto. Se tu non arrivi non esisto Non esisto, non esisto

Ornella Vanoni, L’appuntamento

L’ennesimo spasmo nella storia senza storia delle popolazioni depauperate” “Una teoria del presente può nascere dall’esperienza diretta dei conflitti

Joshua Clover, Riot, sciopero, riot.

Partiamo da questo, che è il punto più semplice. Sono i conflitti a definire il nostro pensiero e la nostra azione. Non siamo noi a decretare il conflitto, ad agirlo, ma è il conflitto che agisce su di noi. Noi non esistiamo fuori da esso, ed è proprio quest’ultimo il referente a cui costantemente ci rifacciamo. Quando questo conflitto, inteso come rapporto sociale sempre presente, si esplicita nelle molteplici forme, bisogna essere lì dove questo si dà. Ma quando torna nel sottosuolo, allora dobbiamo fermarci, per provare a capirlo e studiarlo, nella speranza di farsi trovare prontx alla sua prossima emersione autonoma.

Proprio come i funghi, il conflitto è un rapporto sociale che possiede una fitta rete sotterranea, invisibile ma sempre presente, che ogni tanto emerge per entrare nella vita e nei discorsi di tuttx.

Insomma, il conflitto per noi non è semplicemente lo scontro di piazza, l’organizzazione di classe, le strutture militanti, ma è un qualcosa di più ampio, che eccede tutte queste cose qua.

Pensiamo sia quindi necessario interrogarsi sulla recente emersione del conflitto dal sottosuolo in cui stava proliferando. Dal 22 settembre a Milano, al 14 ottobre a Udine, passando più volte per Roma, Torino e Bologna, un qualcosa si è dato. Che sia un principio di nuove forme di lotta di classe, di rivolte urbane, di sollevazione etica o politica risvegliatasi, è troppo presto per dirlo, e soprattutto è poco interessante cercare di incasellare precisamente quanto successo, anche per la complessità caotica che l’ha caratterizzato. Ogni piazza per la Palestina che è stata attraversata dal conflitto ha delle proprie

particolarità che proveremo a riassumere, ma non c’è sicuramente un qualcosa che possa tenere insieme il tutto. Intanto, possiamo chiederci che grammatica dare a questo conflitto, cosa lo ha prodotto e cosa ha messo in moto. Ma soprattutto, se andrà avanti.

Notiamo delle evidenti differenze tra fine settembre/inizio ottobre, e tutto novembre, le cui ultime grandi chiamate di fine mese (ovvero Bologna e Milano/Roma) sembrano segnare il definitivo ritorno nel sottosuolo del conflitto per rimpiazzarlo invece con le classiche dinamiche dei movimenti sociali (politica della denuncia, della rappresentazione, degli scontri organizzati, dell’egemonia della sinistra, etc).

Ma la storia procede a spasmi.

Senza nessun tipo di positività o ottimismo, oggi vediamo la storia prodursi dalle mani delle popolazioni depauperate, di chi non ha presenza, da chi deve emanciparsi dalla non-esistenza. Non è importante sapere chi è sceso in piazza a settembre/ottobre/novembre; ciò che conta è cosa è stato fatto, e cosa faccia emergere. Questi mesi hanno prodotto una storia, quella della plebe contemporanea, e dobbiamo chiederci noi, in quanto compagnx, come ci situiamo all’interno di questa storia.

PRESUPPOSTO

Questo testo viene scritto per provare a stimolare un dibattito rispetto a dei grumi, a dei nodi, che chi scrive non riesce a superare. La speranza è che le questioni presentate siano temi caldi per chi leggerà, con la volontà di generare riflessioni e scambi, di avanzare delle domande per intravedere un orizzonte comune. Come probabilmente chi legge, siamo statx nelle varie piazze dove, per questioni generazionali, abbiamo assistito a cose mai viste e, adesso, sentiamo di chiederci come andare avanti: ovvero, cosa sopravviverà di questi mesi.

Siamo compagnx giovani che si sono trovatx per la prima volta in vita loro di fronte ad un effettivo movimento di massa. Forse a livello numerico la cosa più vicina fu il Fridays for Future, nel 2018/19, ma lontano per pratiche e discorsi, che infatti non produssero eccedenza. Tutto rimase nei ranghi delle modalità classiche del movimento sociale: ovvero un’aggregazione volta alla denuncia di una presunta distanza tra le volontà del Potere e le persone. Il movimento per la Palestina, invece, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto rivolte, blocchi e occupazioni attraversare l’Italia. È diventato sì un movimento di massa, ma ha visto l’emergere di nuove soggettività, la messa in campo di nuove pratiche, e così via.

Come diremo più avanti, questo non è affatto un testo autocelebrativo, nè intendiamo esaltare il lavoro delle componenti soggettive (gruppetti, aree politiche, partitini di sinistra etc.), il cui ruolo è tutt’al più cavalcare i movimenti di massa, o dare loro un’infrastruttura organizzativa nei migliori dei casi. No; l’attenzione la poniamo invece sull’eccedenza, su quella fascia di popolazione che è emersa con nuove pratiche, che ha saputo strabordare da quelle classiche dei movimenti sociali o dei discorsi umanitari. Riteniamo sia grazie a questa componente soggettiva che il movimento per la Palestina sia diventato al contempo di massa e conflittuale, e non per le scelte politiche di chissà chi –che anzi il più delle volte agiscono da pacificatori e limiti interni.

Il presupposto è quindi questo: concentrare l’attenzione sulle nuove pratiche di piazza, a quali soggettivazioni corrispondono, senza nessuna volontà autocelebrativa; perché come si diceva prima, è il conflitto che ci definisce, non il contrario.

Per questo motivo, l’attenzione del testo è sulle forme evidenti di conflitto che hanno definito le piazze nei mesi di settembre, ottobre e novembre; non vuole essere assolutamente un’analisi complessiva su questi due anni di mobilitazioni, né tantomeno una perlustrazione di tutte le forme di lotta che si sono utilizzate, né di dare una gerarchia della conflittualità, cosa davvero poco interessante. Ci concentriamo su quelle dinamiche di piazza in cui il conflitto e la violenza sono diventate una questione collettiva; senza sminuire altre pratiche, come ad esempio i blocchi degli hub logistici (come è successo a Pioltello Limito), che creano effettivi danni economici ad aziende.

Per chiarezza, quando usiamo il “noi” in questo testo, non vogliamo identificarci in un’area politica delimitata, o in una soggettività militante precisa. Il “noi” è quell’insieme di compagnx che si sentono toccatx dalla nostra stessa urgenza, ovvero interrogare il conflitto, a prescindere dalle aree politiche, dal fatto che si organizzino in strutture militanti o no. Insomma, il “noi” è chi assume la “disposizione etica a condividere ciò che è comune”, ovvero il comunismo di Tiqqun. Il comunismo lo troviamo tra i fumi dei lacrimogeni e in un cassonetto ribaltato per fare una barricata, più che nei programmi politici o altro.

TEMPORALITA’ DELLE ECCEDENZE E DEI DISPOSITIVI

Questo testo non può essere preciso: non si può essere ovunque, per quanto ci si provi, ed è quindi possibile scambiare lucciole per lanterne, o ingigantire piccole novità, tanto quanto perdersi pezzi per strada, e non cogliere qualcosa. Nonostante questo, proviamo a darci degli strumenti di analisi.

Dal 22 settembre, in particolare a Milano, passando per il 4 ottobre a Roma, il 7 ottobre e Bologna e arrivando al 14 ottobre di Udine, si sono viste piazze che hanno ecceduto nelle pratiche di strada senza però far saltare gli schemi classici dei movimenti sociali. Questo è successo generalmente in tutta Italia, dove cortei anche pacifici strabordavano i centri cittadini per andare a occupare tangenziali, autostrade, stazioni e aeroporti, bloccando gli spazi della circolazione delle metropoli. Questa eccedenza si è presa la scena, accompagnando liminalmente i vari obiettivi o motivazioni di fondo che spingevano le persone a manifestare. La rabbia che hanno espresso queste date non era organizzata, mediatizzata o concordata, ma appunto esprimeva un sentimento di indisponibilità, di violenza, di rivalsa, di possibilità; una rabbia ingovernabile spinta dal puro istinto di sopravvivenza. Però per chi ha attraversato le mobilitazioni di questi mesi, questa traiettoria sembra già spegnersi, o quantomeno tornare nel sottosuolo. La piazza di Bologna del 21 novembre ha di fatto riconsegnato questa mobilitazione al movimento sociale, inteso come dispositivo mediatico, organizzato in accordo con la polizia, circondato dai soliti discorsi e le solite pratiche reiterate, pacificando così ogni possibilità di scontro reale. Le due giornate per la Palestina del 28 e 29 novembre invece hanno riportato migliaia di persone sotto gli interessi dei partiti di sinistra o di aree politiche extraparlamentari, che mettendosi in testa al movimento hanno tolto spazio alle pratiche più conflittuali. Settembre e ottobre 2025 hanno segnato la riproduzione di pratiche conflittuali allargandosi e così eccedendo rispetto alle forme classiche dei movimenti sociali. Il conflitto è sempre latente e noi ci aspettiamo che nei prossimi mesi riemerga, ma nelle piazze di novembre ha visto un arresto, con il ritorno del dispositivo movimento sociale (concetto approfondito nei link a fine testo).

PUNTO DI PARTENZA

Il movimento o, meglio, il conflitto che emerge da questo movimento, in particolare degli ultimi mesi, ha visto la solidarietà alla resistenza palestinese aprire contraddizioni e spazi di agibilità su diversi temi. Si sono individuate varie connessioni tra un “lì” e un “qui” come piattaforme per analizzare il mondo a noi circostante, ma questo lavoro di preparazione, informazione e divulgazione politica non è solo ciò che ha attivato le persone portandole a scendere in strada. Non per sminuirne l’importanza, o screditare il lavoro fatto: il tempo della controinformazione si è già in gran parte esaurito. Infatti, chi è scesx in piazza tra settembre e ottobre 2025 non crediamo l’abbia fatto contro il tecno-controllo o l’imperialismo, per il de- colonialismo, o l’intersezionalità, e così via; queste sono categorie di interpretazione nostre e di natura politica, ma che raramente aderiscono perfettamente alla quotidianità di chi sopravvive e lotta nelle nostre città. La ricerca di un linguaggio comune o di una causa superiore che unisce tuttx è solo un modo per provare a leggere l’illeggibile, facendo rientrare il tutto in canoni discorsivi e dialogici. Il tentativo di questo testo è proprio cercare di togliersi queste lenti di analisi strettamente politica della realtà, e porre invece l’attenzione sulla concretezza dei motivi per i quali le persone si rivoltano, che non pensiamo si trovino in questi “grandi temi” appena citati.

C’è qualcosa di prepolitico, e ante-politico, alla base di questa emersione autonoma del conflitto negli ultimi mesi. Chi tirava indietro i lacrimogeni, ribaltava un cassonetto, resisteva a una carica della polizia, non pensiamo l’abbia fatto per presa di posizione morale e ideologica; questo si dà, più che altro, nei gruppi già militanti di sinistra, spesso restii al conflitto sociale, se questo non prende le forme ideologiche di loro gusto.

Piuttosto, le soggettività protagoniste del conflitto spesso si attivano a partire dall’odio, dal bisogno, dal disgusto: prima della politica ci sono le viscere, ovvero un sentimento prepolitico di sopravvivenza in un mondo in cui il vivere è sempre più lontano. E quindi le cause di questa emersione autonoma del conflitto non rientrano più nella sfera della denuncia – di questa o quella istituzione, azienda, banca, etc. – né nella sfera dell’ideologia politica. Anche se importante, non è sicuramente grazie al lavoro “politico” che la gente in strada ribaltava cassonetti e rilanciava i lacrimogeni. Per quanto il lavoro militante sia necessario per collettivizzare conoscenze e coscienze, non può paternamente considerarsi protagonista né promotore del conflitto sociale. E allora cosa ha portato all’attivazione di sempre più persone? A cosa è

dovuto questo innalzamento della conflittualità di piazza, della collettivizzazione e riproduzione di pratiche di strada? Avanziamo due proposte.

Per chiarezza, quando usiamo i termini prepolitici o ante-politica, non li usiamo in maniera dispregiativa, o infantile, anzi l’opposto. Vogliamo però concentrare l’attenzione sui processi che spingono le persone in piazza a rivoltarsi contro la polizia; il perno di questi processi non pensiamo sia da ricercare nella politica classica del movimento sociale (denuncia, indignazione, auto-rappresentazione, etc.), in un lessico comune, o nel discorso umanitario, ma in una sfera situata prima di questa, ovvero quella della vita o, meglio, della sopravvivenza e dell’autoconservazione. È questo istinto, che non trova una lingua collettiva nella sfera della politica, e che non ha cause ideologicamente leggibili, se non la mera sopravvivenza, che pensiamo sia alla base dell’emersione autonoma del conflitto. Ed è questo slancio vitale che invalida le costruzioni politiche e ideologiche su quanto succede, lasciandoci con più domande che risposte.

Non vediamo l’insufficienza della nostra città, e crediamo naturale l’insufficienza delle nostre vite. Per uscire da questo condizionamento, dobbiamo ricercare un altro uso del paesaggio urbano, cercare passioni nuove: non possiamo aspettarci niente da ciò che non abbiamo modificato noi stessi” Guy Debord, Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps

FALCE E ALGORITMO

Avanziamo l’idea che la situazione che si è data da settembre a novembre sia la sintesi di due processi di soggettivazione, opposti tra di loro e fondamentali per l’emersione del conflitto. Fondamentali, quindi, anche per capire il conflitto. Ovviamente, sono i due che vediamo come “nuovi” sulla scena, ma sicuramente non gli unici ad esistere.

Soggettività algoritmica

Con questo termine, vogliamo indicare quel processo di soggettivazione, e di consequenziale attivazione, indissolubilmente legato al ruolo dei social network. Non per essere tecno-positivisti, o al contrario primitivisti, ma non si può non comprendere l’importanza degli algoritmi nei processi di soggettivazione; l’accezione di questa importanza è per noi neutra. Le piazze si sono riempite perché il continuo bombardamento social di immagini, sia di distruzione di Gaza che di attivazione di massa, hanno imposto una scelta morale di attivarsi a chi le guardava. Le intifade studentesche dell’estate 2024 sono state anticipate da qualche mese di costante esposizione ai video delle occupazioni americane, delle loro barricate, e così via. Se non ci fosse stato questo boost algoritmico di quello che succedeva lì, non sappiamo se ci sarebbe stata la stessa risposta di massa studentesca all’appello ad occupare. La stessa dinamica si è data quest’estate e successivamente nei mesi da settembre a novembre. Porre l’accento sulla soggettività algoritmica, cioè la fetta di popolazione che si è attivata a partire dalle immagini spinte sui social, non è un modo per delegittimare la sua azione, né cercare un ruolo salvifico nei social network. Piuttosto ne parliamo nel tentativo di capirne i punti di partenza, e per capire i periodi di riflusso e di “bassa”, a cui adesso andiamo oggettivamente incontro, più che giudicare le forme di attivazioni, o i motivi alla base di essa. E come i social network hanno un ruolo nel far attivare le persone, così possono anche disattivarle, caricarle di un dolore ingestibile e debilitante, come spesso succede con le immagini che riceviamo dalla Palestina (la cosiddetta pornografia del dolore) che hanno invaso i nostri spazi di vita creando un fortissimo senso di impotenza. Questo non pretende di essere un discorso nuovo, ma piuttosto uno snodo su cui continuare a riflettere sulle forme di attivazione, la loro costanza, la loro incisività, e le pratiche di piazza che vi corrispondono, che sono in effetti le cose che ci interessano, ovvero i modi in cui il conflitto emerge. La questione è quindi capire il rapporto tra processi di soggettivazione e le corrispettive pratiche di piazza. Prendiamo come esempio l’attivazione di massa dovuta alla grande attenzione mediatica data alla Global Sumud Flotilla, che ha creato una bolla

dell’informazione, esplosa appena sceso il clamore mediatico. Il discorso umanitario alla base della Flotilla, e la bolla algoritmico-mediatica che l’ha accompagnata, hanno portato a una mobilitazione di massa, che è però rimasta per lo più dentro gli schemi dei movimenti sociali classici di sinistra (piazze molto numerose ma pacificate, politica della denuncia, tentativi egemonici di aree o partitini, etc.). Si può dire, in termini molto generali, che questo processo di soggettivazione ha interessato soprattutto studentx, sia di scuole superiori che università, e fasce di popolazioni di sinistra, caratterizzate generalmente da un’attivazione etico-morale e da una condanna e un rifiuto della violenza di piazza, tanto che appunto le pratiche consequenziali a questa attivazione da parte di queste fasce di popolazioni sono quelle pacifiche. Non è questa la componente eccedente a cui ci rifacciamo, come non lo è quella componente militante che ha aderito a queste chiamate più per tornaconti che per un reale interesse nel conflitto. Ma è qua che si situa la contraddizione, sintomo della complessità caotica dell’emersione autonoma del conflitto. Questa soggettivazione algoritmica, ovviamente non da sola, e il discorso umanitario della Flotilla, hanno portato milioni di persone in piazza; una parte di questa, quella che si può definire “eccedente”, ha colto queste occasioni per entrare in gioco, e ridefinire le piazze in senso conflittuale, e non più di denuncia o rappresentazione. Tra fine settembre e inizio ottobre, con le due date simboliche del 22 settembre a Milano, e il 4 ottobre a Roma, grazie appunto a questa componente eccedente (che eccede dai discorsi e dalle pratiche classiche della militanza di sinistra), da piazze e scioperi legati al discorso umanitario della Flotilla, si è passati a scenari di rivolta urbana, che hanno quindi ecceduto rispetto alle motivazioni alla base di queste chiamate. Questo non pensiamo sia dovuta ad una casualità, ma appunto all’incrocio di questi due processi di soggettivazione. Abbiamo parlato del primo, quello algoritmico, ora parliamo del secondo, la falce.

Les Jacquerie

Il secondo processo di soggettivazione su cui vorremmo porre l’attenzione e dibattere l’abbiamo chiamato “jacquerie”. Con questo termine, tagliando con l’accetta, ci si riferisce alle rivolte dei contadini che nel ‘500 attraversarono l’Europa, tra cui anche il nordest italiano (Val di Non in Trentino, Mestre e Udine, territori di chi scrive questo testo, o in cui les jacquerie è tornata, come il 14 ottobre a Udine). Queste rivolte sono un po’ uno spasmo nella storia, una lotta contro l’accumulazione originaria, una lotta anticapitalista in un momento storico pre-capitalista; un primo sussulto di lotta di classe. Venivano bruciati castelli dei principi dai contadini che facevano sempre la fame, e protette le scorte di grano per evitare che abbandonassero le città e venissero esportate. Non c’erano particolari rivendicazioni politiche, e mancava soprattutto qualsivoglia organizzazione organica a questi spasmi di classe, a questa emersione autonoma del conflitto, a questa storia di chi non è nella storia. A queste rivolte si intrecciavano le riforme religiose e le consequenziali guerre, generando appunto quel fermento che fece tremare il potere religioso ed imperiale in tutta Europa. Per chi scrive, settembre e ottobre somigliavano a un ritorno delle jacquerie nelle metropoli contemporanee, ovviamente di portata e intensità infinitamente minore, ma che ne raccolgono certe specificità e peculiarità. Le rivolte che hanno caratterizzato le grandi date in varie città italiane non avanzano effettivamente nessun tipo di richiesta politica, o istanza comune, se non una generica indisponibilità nel farsi governare, e uno slancio vitale alla sopravvivenza in un mondo in cui guerra e sterminio sono tornati in diretta. Resistere alle cariche della polizia non corrisponde ad altro che all’odio per questo mondo, la voglia e il piacere di vederlo in fiamme. C’è stata un’eccedenza di pratiche di piazza, che non trova un corrispettivo negli slogan, nei programmi politici di chi prova a mettersi a capo di queste mobilitazioni, a chi ci sta dentro per tornaconti di area. Anche qua, non si tratta di esaltare questo sentimento “ante politico” della rivolta, che non trova spiegazioni politiche o ideologiche, ma di capire il processo di soggettivazione che porta la gente in piazza in un determinato modo che si è dato tra settembre, ottobre ed è finito a novembre. Come detto prima, l’interesse è nel legame tra processo di soggettivazione e pratica di piazza: in questo caso il processo di soggettivazione della jacquerie, che riassunto potremmo definire come slancio vitale alla sopravvivenza, indisponibilità a farsi governare, ha portato all’eccedenza delle pratiche classiche del movimento sociale, sfociando così in situazioni di rivolte

urbane, conflitto reale e non pacificato, mediatico, organizzato o concordato; è questo sentimento di jacquerie che sta alla base della soggettivazione e attivazione delle fasce di popolazione scese in piazza negli ultimi mesi. Si scende in strada perché in pericolo c’è la vita umana nella sua totalità, più che per altri motivi politici (opposizione al tecno-controllo, antimperialismo, intersezionalità, de colonialismo); ovviamente ci sono persone che manifestano anche per questi motivi politici, ma l’eccedenza di soggetti e pratiche non è data da questi, ma da altro. Perché appunto l’emersione autonoma del conflitto è dovuta a questa eccedenza qua, che, come dicevamo prima, si riferisce all’attivazione di soggetti che non stanno inquadrati negli schemi militanti, che non ne condividono un lessico comune; non si sa chi sono, sono i nuovi barbari che parlano la lingua della rivolta, del cassonetto in fiamme come strumento di difesa della vita. Non si tratta di mitizzare soggetti o azioni, ma di provare a prenderle per quello che sono, ovvero un’eccedenza rispetto al già visto e già sentito. I dispositivi del movimento sociale (pacificazione, autorappresentazione, scontro mediatico e concordato) e del discorso umanitario (Flotilla) non hanno intrappolato queste pratiche, che ne sono quindi eccedute, rompendo gli argini della pacificazione per imporre il discorso della violenza, della rivolta, dell’insubordinazione. Ovviamente, non si sono imposte definitivamente, tanto che le rivolte sono state puntuali nel tempo e nello spazio, non si sono diffuse e non sono state durature; già a novembre si è notato quanto la rabbia sia rientra negli argini del movimento sociale, non riuscendo più ad eccederlo. Ma è questa eccedenza, di soggetti e pratiche, che brevemente ha imposto una nuova lingua, quella barbara della rivolta, che non ha nessun significato se non nell’azione in sé, che non parla a nessunx e non dice nulla, proprio come i contadini del ‘500. La potenza del “bloccare tutto” non sta tanto nei danni materiali che si fanno al nemico, ma quanto invece nella naturale e spontanea occupazione di stazioni, autostrade e tangenziali, in quanto strutture della circolazione del genocidio, e la consequenziale tattica diffusa di colpirle.

Per quanto l’obiettivo di questo testo sia molto diverso da quello del libro Riot. Sciopero. Riot di Joshua Clover, è interessante provare a metterli in comunicazione. Come già detto, il senso di questo testo non è andare alla radice dei motivi per i quali la gente scende in piazza, o capire chi scende in piazza, o cercare spiegazioni politiche nella situazione. Si tenta di evidenziare dei processi di soggettivazione e le consequenziali pratiche, tattiche, azioni, etc. È il cosa che interessa, non il chi. Ma giusto per ampliare il discorso e lasciare uno spunto di riflessione più ampio, ci sentiamo di porre questa questione. In questo libro Clover concentra l’attenzione sull’alternarsi dei riot e degli scioperi, dove i primi corrispondono a lotte nella circolazione, i secondi nella produzione. Le prime corrispondono a un momento in cui a rischio è la riproduzione della vita, contrapposte alle lotte fatte sul luogo del lavoro, legate quindi ai salari e agli scioperi. Il genocidio in corso dimostra la possibilità algoritmica di sterminare una popolazione con la complicità dell’Occidente tutto; a rischio c’è la vita umana su questo pianeta, e la sua riproduzione, e da questa consapevolezza ritornano le jacquerie, le lotte nella sfera della circolazione, in quanto gridi di battaglia di fronte al nuovo sterminio. Ma anche di più. Le jacquerie e le prime lotte sul piano della circolazione, si opponevano inconsapevolmente all’accumulazione originaria alla base dell’ascesa del capitalismo. Sono state il primo sussulto di lotta di classe, al contempo pre e anticapitaliste. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova accumulazione originaria, fatta sì di profitto, ma anche di tecnologie di sterminio, che è l’accumulazione del capitalismo di guerra. Le rivolte di settembre e ottobre, che hanno ecceduto il centro cittadino, andando a strabordare negli spazi della circolazione del capitale, del profitto, del genocidio e della guerra, sono l’ultimo e primo grido di battaglia contro l’accumulazione originaria del capitalismo della guerra. “La logistica è l’arte della guerra del capitale”, scrive Clover. Questo discorso va in contraddizione con quanto detto finora, perché appunto ricerca delle spiegazioni politiche nelle lotte contemporanee; non è questo ciò che vogliamo fare, ma pensiamo sia utile al dibattito.

CONCLUSIONE E MATERIALE PER IL DIBATTITO

I cicli di lotta si chiudono, e non ci possiamo fasciare la testa. Il conflitto emerge, salvo poi tornare nel sottosuolo, e non siamo noi a decidere su questo. Ci possiamo però fare delle domande.

Cosa hanno prodotto questi mesi di mobilitazione per la Palestina? Il conflitto che si è dato è riuscito brevemente a mettere in crisi i vari dispositivi di controllo, abolendo ogni “linguaggio comune” a favore di un’unica grammatica della rivolta, strabordando quindi i movimenti sociali, la pacificazione, lo scontro mediatico ed organizzato, il discorso umanitario.

Ma perché a novembre, rispetto settembre e ottobre, tutto è tornato all’interno delle solite dinamiche, e questo conflitto si è già spento? Come possiamo essere un tramite, una forza che spinge il conflitto, da opporre a chi lo vuole pacificare o mediatizzare?

Pensiamo queste siano delle domande su cui ragionare collettivamente per, come si diceva inizialmente, cercare di farsi trovare prontx di fronte alla prossima emersione autonoma del conflitto. Per questo motivo condividiamo pubblicamente questo testo, per cercare di costruire un dibattito sul conflitto, che parta dal conflitto in quanto rapporto sociale. Condividiamo anche dei testi che pensiamo coerenti per il dibattito. Il primo, scritto a partire dalle mobilitazioni dei Jilet Jaunes in Francia e dalle George Floyd Rebellion in America, spiega molto bene il concetto di “dispositivo movimento sociale”, in questo testo più volte richiamato. Il secondo testo condiviso ha come focus di analisi lo stesso nostro, ovvero il conflitto emerso dalle mobilitazioni per la Palestina. Il terzo è una riflessione più generale sul conflitto. Buona lettura!

https://www.nigredo.org/2025/10/30/non-vogliamo-la-pace-note-sulle-mobilitazioni-per-lapalestina/ https://illwill.com/autonomy-in-conflict

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